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GESU' CRISTO
Il volto dell'innocente negli orrori delle guerre
Igor Man Convinto, come sono, che nessuna guerra sia "giusta" anche se qualcuna è imprescindibile, più volte anch'io mi sono posto l'interrogativo che con dolorosa civiltà ha postulato Norberto Bobbio: «Ma avranno le previsioni sulla pace la stessa credibilità delle previsioni sulla guerra?». Porsi un simile interrogativo significa garantirsi molti tormenti ancora ma, forse, chi genuinamente "pretende" la pace, e subito e per sempre, non vuole più soffrire. (Penso ai palestinesi: arabi ed ebrei; penso agli uomini disperati del Rwanda, del Burundi, dello Zaire e del Sudan e della Bosnia, eccetera). Anche chi combatte vuole la pace. La pace e basta. Verosimilmente perché la cultura della guerra è morta col Vietnam. Una volta la società accettava la guerra "perché la guerra risolve". A quelli della mia generazione insegnavano che la guerra era un "male necessario". Oggi è diverso. Mi dice un Cardinale-Pastore, oggi tutti hanno capito che la guerra non risolve nulla, dà solamente la medesima illusione dell'intervento chirurgico su un organismo mitragliato dalle metastasi d'un tumore cattivo. «La pace, invece, fermando la corsa della morte, salva la vita, dona la speranza della giustizia». Forse è veramente così. ("E' vero davvero"). Non lo so. Io sono soltanto un vecchio cronista che ha scarpinato per il mondo inciampando di continuo nella guerra: anche se tutte le volte che l'ho attraversata, ho incontrato una immensa domanda di pace. Ho fatto (da cronista, armato solo di taccuino e di biro) tutte le guerre mediorientali; ho raccontato la lunga guerra civile che ha trasformato il Libano da produttore di benessere in produttore di cadaveri; ho testimoniato dell'orrore del Vietnam e delle infinite guerre di guerriglia che hanno sferruzzato il mondo negli ultimi cinquant'anni e posso dire che "ovunque e comunque" ho visto invocare la pace. Soprattutto da chi combatteva o era costretto a farlo. Secondo stime attendibili, esistono nel mondo, duecentocinquantamila soldati-bambini (cfr. "L'esercito invisibile" di R. Casadei - "Mondo e Missione", dic. '96). Ma cosa costringe un fanciullo a imbracciare il kalashnikov ? Per molti adolescenti la guerra è "normale condizione di vita", poiché non hanno conosciuto la pace. Per molti altri è un modo efficace di sottrarsi alla fame, un po' tutti gli impuberi soldati, prendono il fucile mossi dal cosiddetto "bisogno d'adulto" che provano perché "fisicamente o emotivamente separati dai loro genitori naturali". Una testimonianza dal Salvador spiega che pressoché tutti i più giovani muchachos del Frente Farabundo Martí "erano bambini che avevano visto i propri genitori catturati e/o torturati, persino assassinati dai soldati dell'esercito, le loro case bruciate. In cerca di protezione erano entrati nella guerriglia". Nella lunga storia senza misericordia della guerra, è sempre il filo rosso della violenza, della fame, a cucire passato e presente. E il filo va e viene attraverso la cruna degli innocenti. Quanti bambini disperati, quanti vecchi folli di paura non ha visto il vecchio cronista dal Vietnam al Libano, dal Salvador all'Iraq, eccetera. Quanti racconti di orrore non ha raccolto nell'immenso spazio di solitudine dei fanciulli scampati a questo o a quel massacro. Tra il 1945 e il 1996, 160 conflitti hanno fatto più 24 milioni di morti. In massima parte civili, in stragrande maggioranza bambini. L'Unicef denuncia un "universo di efferatezze": soltanto negli ultimi quindici anni, oltre due milioni di corpicini dilaniati dalle bombe; circa dieci milioni di invalidi precoci; quasi due milioni di orfani. Guerre "ufficiali", guerre "marginali": dal Vietnam all'Algeria, dal Medio Oriente all'America Latina, Erode non è mai morto, la crocifissione di Gesù si rinnova. Dolorosamente. Inesorabilmente. Giorno dopo giorno. Molte volte il vecchio cronista, di fronte all'ennesima "strage degli innocenti" è stato tentato di chiedersi: Dio ma dov'eri, dove sei? Lo stesso interrogativo di Elie Wiesel ad Auschwitz, assistendo all'agonia interminabile d'un bambino ebreo impiccato lentamente per farlo soffrire di più. "Dio dove sei?". La risposta la dà -definitivamente- quel prete polacco che si sacrificherà per gli altri, proprio ad Auschwitz: "Dio è qui, sul patibolo. Dio è nel suo figliuolo in croce". (Risposta ormai storica che, a ben vedere , è la parafrasi dell'invocazione di Santa Caterina da Siena: "Dov'eri tu, o mio Signore, quando io soffrivo, dov'eri quando il mio cuore era nel fango?"; "Io ero lì, nel fango"). Ora al vecchio cronista chiedono di dire chi è Cristo per lui. Cristo è l'innocente inchiodato alla croce del martirio dal più infame delitto dell'uomo: la guerra. E l'innocenza non è solo dei bimbi o delle madri; è anche degli adulti, anche dei peccatori. Gesù era giovine quando salì sul Golgota ma era già antico quanto il Mistero della sua pietà: assolse il ladrone promettendogli il Paradiso. In questo modo gli restituiva l'innocenza. L'invito a una esperienza di unione con Dio, (adhaerere a Lui), "in Cristo e per Cristo", è nel Vangelo e in San Paolo. E dunque soltanto l'esperienza spirituale può ricolmare il cristiano e, al tempo stesso, crocefiggerlo: dal momento che "la Croce è la via maestra che conduce alla unione d'amore". Tutto ciò ce lo ha ricordato, recentemente, col sacrificio della sua vita chiara, un nuovo martire: Monsignor Pierre Claverie, Vescovo di Orano. Dopo il massacro dei sette monaci trappisti nel maggio scorso, lo pregarono di lasciare l'Algeria, era nel mirino dei terroristi. Rispose: "Ci chiedono di lasciare il paese poiché la nostra vita è in pericolo ma proprio quello è il momento di suggellare ciò che abbiamo vissuto mediante il dono della nostra vita, come ha fatto Cristo Gesù". La sera del 1 agosto 1996 lo uccisero con il suo autista. Anche Don Juan, giovanissimo padre salesiano, catapultato come vice parroco in una frazione di Las Palmas, durante la guerra prologada del Salvador, si rifiutava di abbandonare il grumo di case dove i suoi fedeli erano donne, bambini e vecchi. Quella frazione di Las Palmas contava cinque ettari di terra disgraziata, poiché passava continuamente di mano: dall'esercito ai muchachos e da costoro (i guerriglieri) ai governativi. Don Juan faceva da maestro, celebrava la Messa, zappava la terra, fungeva anche da ostetrico. Ogni volta che i governativi lo "invitavano" a lasciare quella marca di frontiera, Don Juan rispondeva: "Il pastore non può abbandonare il suo gregge". (I santi non hanno paura di scadere nella retorica). Proprio come si legge nel Vangelo "sacerdotale": "Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, come il Padre conosce me ed io conosco il Padre; sicché offro la vita per le mie pecore (Giovanni X, 11-18)". Un brutto giorno alle cinque del mattino, irruppe nella mia stanza al Camino Real di San Salvador, Peter Arnett. "Hanno ammazzato il prete", disse. Prima di abbandonare per la ventesima volta quella frazione (disgraziata) di Las Palmas, i governativi avevano ingiunto a Don Juan di sgomberare con loro ma: "io non posso lasciare il mio gregge" aveva nuovamente risposto il piccolo salesiano e quelli lo uccisero. Inchiodandolo all'uscio della sua baracca di legno; e lui morì crocifisso, vegliato da poche donne terrorizzate, dal pianto dei bambini, dalla immobile pietà dei vecchi. (Ancora oggi, nel Sudan integralista dello Sceicco El Tourabi, i cristiani sudanesi sospettati di leggere il Vangelo li uccidono. Mediante crocifissione). Il Buon Pastore offre la vita per le sue pecore: nell'Enciclica Ut Unum Sint, Giovanni Paolo II ha previsto che il servizio dell'umanità "può esigere allo stesso ministero del Papa di offrire la propria vita". I bambini, gli innocenti: Vietnam, 1965. I 377 vietcong che contai tutt'intorno al perimetro di Camp Kannack, erano morti di guerra. Durante tre giorni, dal 7 al 10 di marzo, erano venuti all'attacco di quel campo di Berretti Verdi. Coi lunghi, esili tronchi di bambù adoperati come aste, saltavano i reticolati americani, e poiché intorno al collo avevano ghirlande di bombe a mano disinnescate, una volta a terra eplodevano: saltando in aria aprivano varchi nella difesa del campo. La radio s'era rotta, i vietcong si inerpicavano già alla conquista dell'ultimo girone del campo. Poi la radio s'aggiustò , chiamarono l'aviazione e in venti minuti esatti bombe a mezza altezza che colpivano alle tempie a mo' di dischi lanciati da un discobolo possente, uccisero i vietcong. Ne contai 377: sparsi sulla mota verde, i lunghi capelli neri, i volti color della giada aureolati da un sorriso infinito. Morti poveri, col tascapane di foglie di bambù intrecciate, ai piedi cioce fatte coi copertoni (vecchi) Made in Urss. Li caricarono su di un camion, vennero spogliati in un centro di raccolta-cadaveri e quindi gettati nudi in una fossa comune. Precipitando, due di loro assunsero geometria di danza. 377 ragazzi bruciati verdi, mandati da cinici apprendisti stregoni a morire sull'altopiano delle tribù Meo. Gli asceti russi si dicevano convinti che il volto di un uomo "in buona fede" risplende di una luce tutta sua che tuttavia solo il credente può percepire. "Mi piace il tuo volto", dice uno dei fratelli Karamazov ad Alioscia, "il diavolo ha avuto paura di te, mio puro cherubino". E' dunque un volto, non una dialettica, che Dostoievski oppone all'ateismo. Un "volto": l'icona vivente di Cristo Gesù. Il Che aveva il volto irregolare d'un soriano bello, ironico. Avevamo parlato lunghissime ore, pressoché tutta la notte. Scorreva all'Avana il gennaio tiepido del 1961. Dio, dissi al Che che mi dedicava con una vecchia stilografica il suo libro sulla guerriglia popolare. Dio: ci crede, ci ha mai creduto? Lasciò raffreddare la domanda, poi: "Non mi sono mai posto il problema di Dio: e tuttavia, ecco, siccome sono un argentino provinciale, mezzo spagnuolo e mia madre mi portava a Messa da piccolo, ecco se Dio esiste come mi ha sempre ripetuto mia madre, se Dio esiste, dico, mi piacerebbe pensare che nel suo grande cuore ci sia un posto, piccolo, per il comandante Ernesto Che Guevara". Quando morì per mano di un sergente boliviano ubriaco che aveva schiaffeggiato, il Che (forse) avrà saputo in quel preciso momento che quel posto, per lui, c'era. "Esiste una misura comune fra Dio e l'uomo e solo codesta misura rende possibile la rivelazione di Dio a l'uomo". "E tale miracolo misterioso può accadere in qualsiasi momento, chiunque sia l'uomo, non importa cosa abbia fatto sino alla Rivelazione" (cfr. V. Soloviev: Leçons sur la divino-humanité, Parigi 1991). Ancora un ricordo: Port Said, 1956, Crisi di Suez. Un gruppo di giornalisti noleggiammo una barca per raggiungere via mare Port Said occupata dai Parà britannici del generale Stockwell. All'imbocco del porto ci spararono addosso. Un proiettile centrò la fronte di una donna egiziana alla quale avevamo dato un passaggio. Era con la sua bambina, voleva raggiungere il resto della famiglia. Il proiettile la colpì in fronte facendo spicciare il sangue come da una botte. Teneva per mano la sua bambina. Ci accorgemmo subito che per la donna era finita. Ma la bambina sembrava dormisse. Quando la toccammo capimmo, però, che era morta. Anche lei. Non so come. Forse il suo piccolo cuore spaventato, aveva ceduto, così come a volte cede il cuore dei gattini. Dovemmo faticare per sciogliere l'intreccio delle mani. Olivastre quelle della giovine madre, bianche come la cera quelle della bambina. Ho appena scritto: Come cede il cuore dei gattini, Bogotà, 1959. Esco dall'albergo Tequendama, come oggi il più in della Colombia, nella controra dell'altopiano. Mentre il portiere in livrea s' affannava a fischiare per un taxi, m'accorsi di un fagotto di stracci sull'erba chic dell'ingresso. Era un bambino-randagio. Dormiva. Tornai al tramonto, il bambino era sempre lì. Che fa, dissi al portiere, dorme ancora? Quello s'avvicinò al bambino-randagio: con la punta del piede, delicato, lo mosse. Proprio come si fa coi gattini. "No, concluse, non dorme. E' morto". Morto? "Esactamente señor: de hambre" (le ultime statistiche del FMI ci dicono che, nel mondo, ogni otto secondi muore un bambino. Per fame). Vecchio e stanco nel fisico, non nella mente, non Giobbe bensì Giovanni, il Papa viaggiatore quanto e più di Paolo, ci ha abituati a discorsi dove spesso il messaggio evangelico si intreccia col pronunciamento politico. Il 13 di novembre del 1996, alla conferenza della FAO, in Roma, dopo aver osservato come l'emblema della FAO sia Fiat Panis, frase ch' è il cuore della preghiera "più cara", il Padrenostro: "dacci oggi il nostro pane quotidiano", il Papa ha detto che il problema della fame non si risolve con "restrizioni demografiche". Pur negando "che essere numerosi significa condannarsi ad esser poveri", ha ammesso che "la crescita demografica non può esser illimitata". "Con i suoi interventi l'uomo può modificare le situazioni e rispondere ai bisogni crescenti delle popolazioni". Spesso vittime, per altro, "di embarghi imposti senza discernimento sufficiente", ha scandito chiaramente riferendosi a Cuba, all'Iraq. Già, l'Iraq. 15 di febbraio del 1991: alla Tv di Amman lo speaker piange. Passano sul video le immagini della strage nel bunker "non intelligente" centrato da una implacabile "bomba intelligente". "E' un crimine contro l'umanità, hanno colpito un rifugio con centinaia di donne e di bambini. Fermate il genocidio", singhiozza il conduttore. E' il telegiornale delle ore 19, il più seguito al di qua e al di là del Giordano. La guerra pressoché senza immagini ha ora un'immagine antica: la morte degli innocenti. Da New York Furio Colombo, col quale parlo a lungo, mi dice che la "bomba intelligente", guidata dal laser, ha attraversato due strati spessi di cemento e di acciaio ed è giunta "con tragica esattezza" al punto prestabilito, trovato inopinatamente "pieno di donne e bambini". A Baghdad quell'ordigno diabolicamente perfetto ha ucciso degli innocenti, in America ha sfranto "lo spumeggiare un po' fatuo del linguaggio di guerra" che definisce CD (collateral damage, vale a dire vittime civili) la strage nel bunker. In Italia non compariranno le sequenze più atroci di questo film dell'orrore umano. Il tronco di un ragazzo pietrificato dalla morte subitanea: il capo riverso, la bocca spalancata dal grido dello spasimo definitivo (una volta ancora, come in ogni guerra, ritorna L'Urlo di Munch a far da logo), le mani a cercare le gambe incenerite. E due mani di donna, due mani soltanto, a galleggiare, incrociate, sul grembo sostituito da un grumo di carbone. ("Tu predatore del lutto, uomo", così Elias Canetti diceva dell'orrore del 900, il nostro secolo alla deriva ultima, miserabile, a dispetto del software, dell'internet). Era la Guerra del Golfo: do you remember Desert storm? Lì cominciammo a perdere il cuore, noi dell'Europa illustre, blasfema. Oggi l'ultimo battito di vergogna si chiama Africa dei Grandi Laghi. Mancano mille giorni al 2000, l'anno del Giubileo. Senza più anima, immemore, cattivo, il mondo aspetta stretto fra la paura del castigo e la speranza del perdono. Ma poiché Dio è buono e il suo Figliolo è misericordioso, lo Spirito Santo (forse) ci restituirà la luce e ascolteremo, infine, "un'esile voce di silenzio" (I Re XIX, 11-13) e più non vorticherà nell'aria il polline dell'odio e prenderemo, finalmente, per mano i bambini. Anziché accompagnarli al cimitero, li porteremo ai giardinetti. A prendere un gelato. (CENNI BIOGRAFICI - Igor Man, uno dei più noti giornalisti e scrittori italiani, è nato a Catania, ma è vissuto a Roma dove si è affermato professionalmente. Giovanissimo è entrato al Tempo e nel 1963 è passato a La Stampa dove lavora tuttora come editorialista e inviato speciale)
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