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Quando a un medico è chiesto di sondare un’ anima

Mirella Taranto

Storie di ordinaria immigrazione e di ordinaria malattia, di nostalgia e povertà. Partono i più sani i più forti e spesso spendono la loro salute nelle energie che servono a sopravvivere al “sogno italiano”. "La tubercolosi è la mancanza del permesso di soggiorno, è la polizia che ti prende e ti porta via". Così un immigrato peruviano spiegava a Salvatore Geraci, responsabile del Poliambulatorio Caritas oggi ristrutturato, che cos'era per lui la tubercolosi. Un vuoto, una privazione, un pezzo di se stesso che scompariva. E senza capire come la storia e la vita di chi va via da un Paese si intreccia con il suo disagio e con i significati della sua malattia non c'è cura e la salute diventa un diritto di carta.  E' per questo che sono nati i corsi di medicina delle migrazioni che ormai da anni la Caritas offre a tutti i medici che hanno a che fare con gli immigrati. Per cercare di entrare dentro quel legame stretto tra  disagio e malattia, tra il corpo che si ammala e l'impossibilità di lottare contro la propria condizione di irregolare. E' una medicina che mette in discussione se stessa e il suo bagaglio di certezze per cui non c'è nulla di ovvio, di scontato nel rapporto con il paziente e la decifrazione dei segni della malattia passa necessariamente attraverso un'altra lingua e l'interpretazione della cultura a cui appartiene una persona.  E' una medicina difficile, che si confronta con il significato del corpo che per gli immigrati è un importante segno di confine, con duplice valenza: da una parte è il segno dell'identità, delle radici, dall'altro segna la loro diversità, spezza la catena dell'integrazione. E non è un caso che siano molti gli immigrati che si ammalano di dermatite da stress, una malattia che provoca un bruciore della pelle tale da costringere il paziente a grattarsi fino a sanguinare.  E' una medicina, quella delle migrazioni, che ha bisogno di imparare dai racconti dei pazienti, dal loro difficile percorso, da tutto quello che si sono lasciati in patria. Noi occidentali vogliamo medici che parlino e ci rassicurino. Per molti africani, invece, il medico deve parlare poco e agire con poteri magici. Se parla troppo, perde la sua autorità. E non c'è cura che funzioni senza comprendere questi meccanismi, perché non c'è cura senza una relazione terapeutica. Chi si avvicina alla medicina delle migrazioni, poi, con la speranza di trovare chissà quali malattie esotiche rimarrà deluso. Di diverso c'è soprattutto il mondo di emozioni e di paure, un vissuto diverso che entra nella malattia e pesa. Un peso che il medico deve imparare a condividere, di cui deve in qualche modo farsi carico, perché la cura non è un semplice rimedio, ma un campo in cui mente corpo e cultura si confrontano. Curando una semplice bronchite si può incontrare tutto un patrimonio di valori, di segni e di linguaggi con cui si esprime il dolore. E la malattia, poi, è spesso un momento cruciale. I medici che si occupano di immigrati lo sanno, spesso coincide con il fallimento del progetto migratorio, di quelle speranza di benessere e di serenità, racchiusa in quel pellegrinaggio di sola andata.
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