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Quel vento che continua a soffiare dal Sinai...

Giuseppe De Carli

“Il vento che ancora oggi soffia dal Sinaireca un invito insistente al dialogo fra seguaci delle tre grandi religioni monoteiste nel loro servizio alla famiglia umana. Suggerisce che in Dio possiamo trovare il nostro punto di incontro.”

Papa Woityla come un nuovo Mosé dell’anno Duemila. I paragoni vengono spontanei se si rivedono alla moviola le immagini di Giovanni Paolo II ai piedi del Monte Horeb, al monastero di Santa Caterina, nel “Giardino degli Ulivi”. Già nel 1991, ad una Polonia irrequieta uscita dal tunnel del socialismo reale, Woityla aveva spiegato con ira e veemenza il “decalogo” e tutti avvertimmo la forza di quell’insegnamento perenne, l’impeto di un Papa che metteva in guardia il suo popolo dagli idoli, dalle false divinità che incatenavano l’uomo ad una più subdola schiavitù. Al Sinai, di contro, non c’erano, sabato 23 febbraio, le folle osannanti o contrite. Regnavano sovrani il silenzio e una natura forte e minacciosa. Un deserto inospitale, un panorama lunare, pietre che da millenni gridano il loro muto tormento. Eppure è qui che Dio si è manifestato, nel “roveto ardente” ; ha stipulato un “patto” con gli israeliti in fuga dal faraone, dando loro le “tavole della legge”. Percorriamo i pochi chilometri che separano l’aeroporto militare di Santa Caterina all’antico monastero e sembra di inoltrarci in un mondo sconosciuto. Anzi, quelle rocce striate di rosso e di arancione sono una metafora, appunto, che ci porta a riconoscere l’esistenza, prima che su tavole di pietra, di una morale di valori assoluti conficcata nel cuore dell’uomo, assoluti perché non riconducibili ad ideologia storiche, ma capaci di traguardarle tutte. “Mosé, non avvicinarti. Togliti i sandali dai piedi perché il luogo dove tu stai è terra santa”. Non arriva l’occhio della telecamera fino alla cappellina inglobata dietro l’altare della basilica della Trasfigurazione. Papa Woityla ripete il gesto e si toglie le scarpe. è il luogo della “teofania” di Dio. C’è da tremare se si riflette sul fatto inaudito che in quei pochi metri quadrati, il Dio infinito si è rivelato, rivelando “il nome che non è alcun nome! Io Sono Colui che Sono: l’abisso divino nel quale essenza ed esistenza sono una cosa sola”. è come se Giovanni Paolo II, con queste parole, percepisca il mistero, l’oscurità luminosa, la luce che si fa tenebra, la gloria che risplende sotto il velo degli enigmi. Improvvisamente ci sentiamo tutti parte, a cominciare dal Papa , monaci, seguito vaticano, giornalisti, fedeli della diocesi di Ismailia, copti ortodossi e cattolici, persino soldati che presidiano spettrali gli anfratti rocciosi, parte di una sacra rappresentazione consegnata con i suoi ritmi, i canti, la liturgia non al tempo ma all’eterno. “Il vento che ancora oggi soffia dal Sinai reca un invito insistente al dialogo fra seguaci delle tre grandi religioni monoteiste nel loro servizio alla famiglia umana. Suggerisce che in un Dio possiamo trovare il nostro punto di incontro: in Dio, l’Onnipotente e Misericordioso, Creatore dell’universo e Signore della storia, che alla fine della nostra esistenza terrena ci giudicherà con perfetta giustizia”. La voce di Papa Woityla annuncia una svolta epocale, l’avvento di un mondo senza barriere, di un mondo pacificato, racchiude tutte le voci, si fa supplica, in nome di ebrei, cristiani e musulmani, supplica orante davanti alla maestà di Dio che ha posto la sua tenda fra noi. Sulla via del ritorno nessuno, sul bus egiziano, ha voglia di commentare. Si è come stravolti dalle emozioni. Una collega  americana vicino a me recita una preghiera. Penso a Mosé, all’uomo del deserto, di tutti i deserti, all’uomo titubante, di tutte le nostre domande cariche di troppi orgogliosi interrogativi. Al Mosé che non vedrà, se non dal Monte Nebo, la Terra Promessa. La morte del patriarca è descritta nel capitolo 34 dal Deuteronomio. Una descrizione umanissima, un piccolo capolavoro letterario : “E Jahvé gli mostrò tutto il Paese e  gli disse : questo è il Paese per il quale ho giurato ad Abramo, Isacco e Giacobbe : io lo darò alla tua discendenza. Te l’ho fatto vedere con i tuoi occhi ma tu non vi entrerai. Mosé, servo di Jahvé, morì, qui nella terra di Moab, ma fino ad oggi nessuno ha conosciuto la sua tomba. Mosé aveva 120 anni quando morì : il suo occhio non era spento, la sua freschezza non era svanita.”

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