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Il Giubileo viaggio nella storia, 1390 Il Giubileo di Maria

A cura di Mario Sensi

La cadenza cinquantennale del Giubileo ebraico, reintrodotta con l’ottica cristiana da Clemente VI con il Giubileo del 1350, fu subito sconvolta dal grande Scisma di Occidente (1378-1417). Il Vallombrosano Giovanni delle Celle, nella lettera dal­l'emblematico  titolo -Lo isconforto che fa don Giovanni a' semplici e sciocchi i quali, senza matura considerazione, si met­tono in cammino del Santo Sepolcro- testo scritto nell'ultimo quarto del secolo XIV,  così cerca di scoraggiare Domitilla, una giovane che -ispirata da santa Caterina d'Alessandria-  aveva  preso la risoluzione di recarsi, insieme ad altre, in Terra Santa: "risponderotti, che, s'ella [s. Caterina] a ciò ti conforta, perché troviate Cristo, io questo nego con tutti i santi, che di ciò par­lano. In prima dice Cristo che il Regno di Dio è dentro di noi [...] credi a san Girolamo [...] altra terra di ripromissione è da cercare che quella di Gerusalem [...] Forse dirai:- Io voglio an­dare per lo perdono. O perché vogli andare a rischio d'essere cibo de' pesci del mare [...] quando tu puoi avere il perdono nel paese tuo? [...] Or non è Roma piena di perdonanze ? Che dun­que stoltitia è la tua, volere con tanti pericoli quello che tu puoi avere con tanta agevolezza ? [...] se tu ora così imperfetta v'an­dassi, perderesti quel poco che tu hai [...] il diavolo non udì mai predica che più gli piaccia che quella del passaggio [...] pe­rocché migliaia di donne onestissime farà meretrici e migliaia di giovani che portano il fiore della veriginitade la lasceranno tra via. Mento se queste cose non intervennono, quando s'andò a Roma per lo Cinquantesimo e s'io non udì da uno masnadiere: noi facemmo quello strazio delle belle donne che s'elle fossono state pecore. Oh perdonanza di cammino sventurato!  Andava la donna per mondarsi e tornava immonda". Giovanni delle Celle, in questo scritto,  si ricollega ad un motivo assai antico che risale a Gregorio di Nissa e che, attra­verso s. Girolamo e s. Bernardo, viene riproposto dalla spiritua­lità renano-fiamminga: ai valori tradizionali del pellegrinaggio -che comporta l'uscire dalla propria terra- il monaco vallom­brosano contrappone l'uscire da sé per compiere un pellegri­naggio interiore: "dice Cristo che il regno di Dio e dentro di noi!”. Quella che propugna don Giovanni il quale, non molti anni prima, si era fatto lui pure pellegrino per andare a Roma per il Cinquantesimo -il Giubileo del 1350-  è una pietà essen­zialmente ascetica, tutta tesa a una continua conversione inte­riore, per unirsi sempre più strettamente a Gesù. Si trattò di una svolta, dovuta a molteplici fattori, che mise in crisi il pellegri­naggio, non però quello giubilare. Un secolo critico il Trecento: nazionalismo e particolarismo soppiantano l'idea universale; tramonta l'ideale di unità politica della cri­stianità, a favore dell'unità politica nazionale; all'unità dell'im­pero si va così sostituendo la molteplicità delle nazioni. Nella vita religiosa ed ecclesiastica i valori di comunità e di tradizione vengono scavalcati dall'attività individuale  e personale: ad una mistica piena di nobiltà e di profondità interiore che attrasse e affascinò gli animi di molti, subentrò la Devotio moderna con l'imitatio Christi. E‘ questo il contesto in cui Gregorio XI, in previsione del terzo Giubileo che si sarebbe dovuto celebrare allo scadere del secolo, emanò il 29 aprile 1373 la bolla 'Salvator noster Dominus'. Scopo di questa bolla non fu quello di mutare la scandenza del Giubileo -fissata da Clemente VI di cinquant'anni  in cinquant'anni - né tanto meno quello di indire il prossimo Giubileo -per il quale del resto mancavano ben 27 anni-  bensì quello di stabilire che,  per ottenere l'indulgenza di detto Giubileo, si doveva  visitare anche la chiesa di S. Maria Maggiore, "in considerazione della parte singolarissima che la santissima Vergine ha avuto nell'opera della nostra salvezza eterna". Questa basilica, eretta sul colle Esquilino, la quarta di quelle patriarcali, era detta anche Liberiana perché identificata con quella fatta costruire da papa Liberio (357-366) nel punto indicatogli da una visione e da una miracolosa nevicata nella prima settimana di agosto, intorno all'anno 360; da qui anche l'appellativo di S. Maria della Neve,  evento di cui ancor oggi si fa memoria il 5 agosto, nella cappella Borghese, con la sugge­stiva cerimonia della pioggia di petali di rosa. In realtà S. Maria Maggiore -cioè la prima fra le numerose chiese mariane pre­senti a Roma- era stata fondata al tempo di Sisto III (432-440), subito dopo il Concilio di Efeso (431) che riconobbe alla Madonna il titolo di Madre di Dio. Sotto Niccolò IV (1288-1292) si rifece l'abside e la facciata fu decorata,  a mosaico, con il Cristo in Maestà  fra gli angeli e i quattro evangelisti,  Madonna e santi (opera firmata da Filippo Rusuti) e con scene della leggenda di fondazione della basilica: visione di papa Liberio; la Madonna annuncia il miracolo a Giovanni, il patrizio romano che pagò le spese della basilica Liberiana; Giovanni narra il fatto al papa; Liberio traccia il piano della basilica. All'interno della basilica, lunga 86 metri e divisa in tre navate, si trovava  l'oratorio del Presepe, con l'importante reliquia della grotta Natività e della presunta culla di Gesù Bambino; mentre altre reliquie erano conservate in due tabernacoli cosmateschi,  posti quasi al termine della navata centrale. Nella navata me­diana,  lungo i muri laterali, sopra le trabeazioni, 36 riquadri a mosaico con scene del Vecchio Testamento, scene idealmente collegate al mosaico dell'arco trionfale, in fondo alla navata,  con  fatti dell'infanzia di Cristo e l'iscrizione dedicatoria di Sisto III (sec. V). Mentre  la semicalotta dell'abside è decorata a mosaico col Trionfo di Maria: il Redentore, seduto in trono con la Madre, che incorona, opera di Iacopo Torriti, che vi si firmò nel 1295. Nella cappella Paolina o Borghese si venerava  infine un'i­cona duecentesca della Vergine detta Salus Populi Romani che annualmente,  il 15 agosto, ma anche in occasione di gravi ca­lamità, veniva  visitata dall'acheropita del Salvatore, icona quivi recata processionalmente dallo stesso pontefice e, per il resto dell’anno, custodita nel Sancta Sanctorum, la cappella dei papi posta all’interno del Patriarchio. La basilica di S. Maria Maggiore, la più antica fra le chiese di Roma intitolate a Maria Madre di Dio, con una icona dall'emblematico titolo di Maria Salus Populi Romani e con importanti reliquie mariane, dove la decorazione era tutta incentrata sulla Madonna, non poteva non candidarsi a santuario mariano per eccellenza della cristianità occidentale. Ma la decisione di papa Gregorio XI  di inserire questa basilica nel circuito del pellegrinaggio giubilare è indubbiamente da mettere anche in relazione con la proliferazione -proprio in quegli anni, funestati dalla peste - di santuari mariani dovuta al ricorso, alla Madonna, unica ancora di salvezza. Dopo circa 70 anni di cattività  avignonese,  nel 1376 Gregorio XI riportava la sua sede a Roma: due anni dopo (1378) però moriva lasciando sia il papato, sia la Chiesa in una pro­fonda crisi, quella che segnò la fine della Chiesa medievale e della medievale societas christiana. I trasteverini avevano gri­dato ai pochi cardinali in conclave: "Romano lo volemo, od al­manco italiano". Fu eletto Bartolomeo da Prignano, arcivescovo di Bari e suddito della regina di Napoli, che prese il nome di Urbano VI (18/4/1378). Passati alcuni giorni il neo eletto pon­tefice cominciò a comportarsi in modo del tutto privo di equili­brio: brusco e orgoglioso, privo di tatto e soprattutto cocciuto, ben presto finì per scontentare molti uomini di curia. I cardinali francesi poi, nella speranza di ritornare ad Avignone, agli inizi dell'estate, adducendo motivi di salute, cominciarono a ritirarsi gradualmente ad Anagni. Quasi contemporaneamente comincia­rono a muoversi nella stessa direzione anche alcuni laici, in primo luogo i rappresentanti di Giovanna I di Napoli e soprat­tutto Nicola Spinelli da Giovinazzo il quale, venuto con una de­legazione a Roma, verso la metà di maggio per rallegrarsi col papa,  fu accolto con poca cortesia e con parole offensive. Di lì a poco Onorato Caetani, conte di Fondi, si vide negare da Urbano VI il rimborso di un prestito fatto alla Sede apostolica e per di più fu anche destituito dal suo incarico di amministratore. Così il conte di Fondi e Nicola Spinelli divennero i nemici irriducibili del papa e fra i primi artefici dello scisma che si maturò nei mesi successivi quando, da Anagni, i cardinali dissidenti invia­rono una lettera al papa e un'enciclica ai fedeli di tutto il mondo dichiarando che l'elezione di Urbano VI era invalida perché estorta dalle pressioni della folla. E nonostante che un consilium di famosi giuristi (8 aprile 1378) si era in precedenza pronunciato per la validità giuridica dell'elezione di Urbano VI, i cardinali dissidenti passarono alla contro-elezione di Roberto da Ginevra, che prese il nome di Clemente VII (20 settembre 1378) e si affrettò a trasferirsi ad Avignone. Lo scima ebbe come conseguenza la spartizione dei fedeli in due e persino tre obbedienze, con doppia e triplice gerarchia, con grave turba­mento nell'animo dei migliori fedeli. Sia Urbano VI, sia Clemente VII cercarono di accaparrarsi  il riconoscimento da parte delle signorie italiane e dei sovrani degli stati europei.  Inizialmente i sovrani, dinanzi la frattura al vertice della Chiesa, scelsero la via della neutralità, divenendo così arbitri della situazione religiosa. A tal fine fecero anche uso del placet regium per il controllo della diffusione dei do­cumenti papali, come l'exequatur per la conferma regia alla collazione dei benefici: un'interferenza di natura giurisdizio­nalista che consacrava il principio che al principe spetta il bo­num commune del popolo, ivi compresa la religione dei sudditi. Duplicatasi la corte papale -una a Roma, l'altra ad Avignone-  si raddoppiarono le spese e il peso fiscale sulla cristianità si ag­gravò sempre di più. Ambedue i papi cercarono di ingrandire le proprie obbedienze nominando uomini del proprio partito. Certi ordini religiosi -ad esempio, francescani, domenicani, carmelitani-  furono lacerati in due partiti con altrettanti mini­stri generali e relativo consiglio. Nella cristianità poi ci fu un generale smarrimento: persino quelli che poi la Chiesa elevò al­l'onore degli altari, si schierarono -in piena buona fede- chi con il papa di Roma, chi con quello di Avignone. Nessuno aveva elementi sufficienti per giudicare con sicurezza chi fosse il le­gittimo papa; mentre pseudo-profeti e visionari preannuncia­vano eventi apocalittici, richiamandosi alle profezie gioachi­mite. L'imminente fine del secolo e la peste, che periodicamen­tre tornava a mietere vittime, diedero vigore a questa epidemia profetica. Nel frattempo in Inghilterra si stava diffondendo il movi­mento eretico di Giovanni Wiclif il quale, tra l'altro, sosteneva che potere temporale e ricchezze sono una rovina per la Chiesa perché inconciliabili con la dottrina di Cristo e degli apostoli. La Chiesa -egli sosteneva- deve essere povera e la proprietà  eccle­siastica deve passare alla nazione la quale deve sostenere il clero; la raccolta di offerte per indulgenze è una simonia. Passò inosservato l'anno 1375, finché, in pieno scisma, Urbano VI, con bolla 'Salvator noster Unigenitus' dell'8 aprile 1389, per compiacere i Romani, stabilì che l'intervallo fra un anno santo e l'altro fosse di trentatré anni, in riferimento agli anni di vita terrena di Gesù Cristo e indisse il primo Anno della Redenzione per il 1390, stabilendo -come già decretato dal suo predecessore- che, oltre alle basiliche di S. Pietro, di S. Paolo e di S. Giovanni in Laterano, venisse visitata anche quella di S. Maria Maggiore. Perduto l'originale -e quindi il testo completo- ci sono giunti transunti con la parte essenziale del documento, dove si spiegano le ragioni del provvedimento che si riassumono nel­la brevità della vita umana e nel bene delle anime: "prendendo noi in considerazione come l'età media degli uomini diventi di giorno in giorno più breve e in modo più esteso del solito, e desiderando che siano quanto più numerosi coloro che divengono partecipi della ricordata indulgenza, non pervenendo parecchi al [loro] cinquantesimo anno [d'età] per la brevità della vita umana [...] e affinché i fedeli abbiano mag­giormente memoria del medesimo Salvatore e di quanto fece per la salvezza dell'uomo e insegnò con le parole e gli esempi [...] riduciamo il perido di intervallo all'anno trentesimo terzo". Una tale decisione avrebbe dovuto ribaltare l'idea di fondo che aveva regolato i due precedenti giubilei, trasfor­mando il Giubileo in una devozione cristocentrica, con annessa indulgenza plenaria. Ma così non avvenne e, per di più, l'inizia­tiva irritò il papa avignonese Clemente VII il quale, un mese prima del­l'apertura,  proibì a tutti i fedeli della sua obbedienza di andare alle tombe degli apostoli. Gli fece eco Carlo VI, re di Francia che,  nel 1400, prese provvedimenti  analoghi. La proclamazione dell’Anno della Redenzione fu uno degli ultimi atti di Urbano VI, poco prima di morire (+15 ottobre 1389), per cui a celebrarlo fu il suo successore, il cardinal Pietro Tomacelli, di nobile fa­miglia napoletana, che prese il nome di Bonifacio IX (1389-1404). L'anno santo era già nel terzo mese quando, il 20 marzo Bonifacio IX, inviò la lettera 'Dudum siquidem' al vescovo Camerino, nunzio pontificio nella Marca Anconetana, dandogli facoltà di concedere ad alcuni religiosi e a laici, impediti di re­carsi a Roma, di poter lucrare il Giubileo restando in patria. Stesse le facoltà concesse, con lettera 'Dudum felicis recorda­tionis' dell'11 giugno, al cardinal Bartolomeo, nunzio pontificio nell'Italia settentrionale, il quale era stato richiesto "da alcuni cittadini e abitanti della città e diocesi di Genova",  devoti alla Chiesa romana. Bonifacio IX, con questa lettera, confermò le di­sposizioni date da Urbano VI: per conseguire l’indulgenza giubilare il fedele doveva visitare le quattro basiliche, di cui sopra, "se ro­mano al minimo trenta giorni continui o saltuari, almeno una volta al giorno; ma se fosse pellegrino o forestiero, allo stesso modo per quindici giorni”. Quindi, riprendendo la prassi instau­rata da Clemente VI, in forza della sua "plenitudo apostolicae potestatis", estese l'indulgenza a trecento genovesi, impediti di venire a Roma e scelti dal Legato,  ma a tre condizioni: che detti fedeli si fossero recati da un confessore per farsi commutare il pellegrinaggio "in altre opere di pietà";  avessero poi sollecita­mente inviato a Roma "le offerte che avrebbero portato alle predette basiliche e chiese" e infine che, al posto della visita alla basiliche romane, avessero visitato, "entro l'anno, almeno una volta al giorno, alcune altre chiese da indicarsi dai detti confessori". Nel frattempo, prima ancora che il Giubileo fosse stato aperto, il pontefice, da poco eletto,  aveva  concesso detta in­dulgenza giubilare al duca di Baviera, insieme a sua moglie e a tutta la famiglia. Quindi, a Giubileo ormai chiuso, anche altri fe­deli, che non si erano potuti recare a Roma, cominciarono a implorare l'estensione, alle loro diocesi, dell'indulgenza plena­ria, da lucrarsi con la visita di determinate chiese locali. Perugia fu tra le prime diocesi; l'ottenne nel 1391. Quindi fu la volta di vescovi e principi di regioni sempre più lontane. Così, nel 1393, Venceslao ottenne per Praga indulgenze giubilari valide sei mesi; l'anno successivo conobbero simili privilegi i fedeli di Colonia e Magdeburgo. Mentre, in Spagna, i rappresen­tanti di Bonifacio ebbero l'ordine di offrire l'indulgenza a tutti coloro che gli avessero fatto professione di obbedienza. A stabilire l’entità dell’offerta da versare per la commutazione del pellegrinaggio romano con un pellegrinaggio locale furono speciali commissari, collettori di indulgenze, con il mandato di tassare in base alle possibilità economiche del penitente. L’operazione continuò anche a Giubileo concluso: non mancarono abusi e falsi collettori; e per le transazioni finanziarie di questo Giubileo si ricorse a banchieri di corte, come i Medici e i Guinigi che seppero trarne grossi vantaggi. Ancorché molti ritenevano che Giubileo valido sarebbe stato quello da tenersi nel 1400, in conformità alla bolla 'Unigenitus', questa perdonanza, celebrata a mezzadria,  fu tut­tavia un vero successo: accorsero pellegrini dalla Germania, Ungheria, Polonia, Inghilterra. Si notarono anche eminenti per­sonalità, come Alberto d'Este, marchese di Ferrara con un se­guito di quattrocento nobili venuti a Roma a piedi e modesta­mente vestiti,  in segno di penitenza. Si mossero incontro, fuori le mura della città,  per accogliere questi pellegrini ben cinque cardinali e il gran Maestro dei Cavalieri di Gerusalemme i quali, sin da un miglio da Roma, precedettero il corteo. A fronteggiare la marea di pellegrini fu tuttavia una città profondamente decaduta  e con non più di 25. 000 abitanti. Molte le aree disabitate che si spingevano fino al Campidoglio e lo stesso abitato versava  in uno stato di degrado che cozzava con il ruolo di capitale della cristianità. Le stesse chiese e gli stessi conventi romani, nonostante le loro vaste proprietà, non erano più in grado, a motivo dei gravami, di provvedere  neppure alle necessarie riparazioni. Il pericolo della peste, sempre in agguato,  fece poi sì che il pontefice, per prevenirla, il 31 gennaio 1390 diminuì da due a una le settimane di permanenza necessarie al pellegrinaggio stabilito per le quattro basiliche. Nonostante questa e altre disposizioni igienico-sanitarie la peste scoppiò dopo Pentecoste,  costringendo il papa con la curia a fuggire a Rieti.  Nonostante lo stato di abbandono, affluirono abbondanti elemosine: si calcola che siano stati incamerati oltre centomila fiorini d'oro che rinsanguarono così notevol­mente le stremate finanze ecclesiastiche.

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