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Anche nelle carceri il tempo è di Dio

Mario Cicala

Nell'imminenza della sua morte in croce Cristo profetizza: "quando sarò elevato da terra attirerò tutti a me" (Gv. 12,32). L'amore del Figlio dell'uomo chiama tutti ed in tutte le circostanze della vita. Chiama quindi anche coloro che si trovano nelle carceri ed in particolare coloro che vi si trovino per una qualche loro colpa e responsabilità, che debbano ripetere le parole del "buon ladrone": "patiamo il giusto per le nostre azioni". Ed il Santo Padre sottolinea che "il tempo trascorso in carcere è un tempo che va offerto a Dio come occasione di verità, di umiltà, di espiazione e anche di fede". Il messaggio di Cristo, reso esplicito dall'elogio che Egli rivolge ai giusti nell'ultimo giorno" ero carcerato e siete venuti a trovarmi" coinvolge ciascuno di noi non meno dei carcerati; ed attraverso i singoli è coinvolta, la società tutta, chiamata ad atti concreti di solidarietà e di recupero nei confronti dei carcerati, chiamata a, secondo le parole del Pontefice, "predisporre" (per i detenuti) cammini di redenzione e di crescita personale e comunitari improntati alla responsabilità". Fondamento di questa solidarietà è la consapevolezza del comune stato di peccatori e figli di Dio, tutti ugualmente bisognosi della misericordia del Padre. Con le parole "chi è senza peccato scagli la prima pietra" Cristo non giustifica l'adulterio. Le colpe degli altri non cancellano la colpa individuale, Cristo pone invece tutti " a cominciare dai più anziani" ed autorevoli di fronte ad un cammino di conversione di cui la rinuncia alla lapidazione della adultera è solo il primo passo. Certo il pentimento è un atto intimo ed individuale dell'animo che nessuna autorità umana può imporre, o anche solo accertare. Ma il sistema punitivo e carcerario debbono rispettare la dignità dell'uomo di guisa che "la punizione non risulti troppo grave e il tuo fratello non resti infamato ai tuoi occhi" (Dt. 25,3). La pena detentiva per favorire la rieducazione se non la redenzione, deve comportare un'attività lavorativa, un tenore di vita non degradante, "regolari contatti con la famiglia", la possibilità di un minimo di intimità e di isolamento rispetto al resto dei condannati, in modo che - per un verso - non sia ostacolata la socializzazione, ma - per altro verso - sia impedito il formarsi di una comunità dominata dai più violenti e prepotenti. Ed il lavoro e la rieducazione possono condurre a riduzioni di pena che sollevino dal tormento del carcere coloro che non costituiscono più un pericolo, offrendo loro nel contempo un efficace sostegno "nel nuovo inserimento sociale". Tutto questo non è - come sottolinea il Santo Padre - utopia ma speranza cristiana di uno sviluppo sociale in cui "una riduzione, pur modesta delle pene" costituirebbe non degno di debolezza, ma di clemenza; perché si realizzi la parola di Paolo: "certo, ogni correzione, sul momento non sembra causa di gioia, ma di tristezza: dopo però arreca un frutto di pace e di giustizia a quelli che per suo mezzo sono stati addestrati" (Ebrei 12, 11).

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