UFFICIO DELLE CELEBRAZIONI LITURGICHE
DEL SOMMO PONTEFICE
ELEMENTI DI
SPIRITUALITA’ LITURGICA
Monache Agostiniane di Montefalco
On line, 20 novembre 2020
L’origine e il fondamento della riflessione
Quando leggiamo il libro dell’Apocalisse, al termine del terzo
capitolo, laddove si conclude l’ultima delle sette lettere
indirizzate alle Chiese dell’Asia Minore, ci è dato di contemplare
un’immagine molto suggestiva e così descritta: “Ecco: sto alla porta
e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io
verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me. Il vincitore lo farò
sedere con me, sul mio trono, come anche io ho vinto e siedo con il
Padre sul suo trono” (Ap 3, 20-21).
L’immagine citata ha una dimensione chiaramente liturgica.
L’affermazione non deve sorprenderci. Sappiamo, infatti, che
l’Apocalisse è un testo squisitamente liturgico in tutto il suo
svolgimento, fin dall’inizio. Basti ricordare il momento in cui
Giovanni ha la visione inaugurale: “nel giorno del Signore” (Ap
1, 10). Quasi certamente, dunque, una visione avuta nel contesto
della celebrazione eucaristica domenicale. D’altra parte, le stesse
lettere alle sette Chiese si configurano come un esteso esame di
coscienza, nel quale è possibile individuare un richiamo all’atto
penitenziale della Santa Messa.
Torniamo, ora, all’immagine: “Ecco: sto alla porta e busso”. Il
soggetto protagonista di quanto avviene è il Signore Gesù, risorto
da morte, principio e fine della storia, Sposo della Sua Chiesa.
Egli bussa alle porte del nostro cuore per potervi entrare, così
da introdurci nella comunione che salva e dona la vera Vita,
nell’esperienza del Suo Amore che è Verità e immette nella Via che
approda alla meta dell’eternità beata in Dio.
In questa immagine, che l’Apocalisse ci offre, è presente il
mistero esaltante della liturgia della Chiesa: mistero di salvezza
donato a noi nell’oggi del nostro tempo, mistero di redenzione
attuale per la nostra vita, mistero del Risorto presente a noi e
operante per noi fino alla fine del mondo.
Stando ancora al testo di san Giovanni, si può affermare che la
liturgia della Chiesa è il mistero della nostra partecipazione alla
vittoria di Cristo sul peccato e sulla morte, inserimento
progressivo nella realtà della Pasqua di Gesù, principio di vita
nuova e primizia della gioia del Paradiso.
Quanto fin qui detto non è ancora tutto. L’immagine giovannea,
infatti, offre un ulteriore dettaglio capace di introdurci nella
realtà liturgica che in essa è adombrata e significata: “Se qualcuno
ascolta la mia voce e mi apre, io verrò da lui, cenerò con lui ed
egli con me”. Non è evidente? Il mistero della salvezza viene a noi
per il tramite della parola del Risorto e per il tramite della
comunione al Suo Corpo e al Suo Sangue.
La Costituzione del Concilio Vaticano II sulla sacra Liturgia si
esprime al riguardo in questi termini: “Le due parti che
costituiscono in certo modo la Messa, cioè la liturgia della parola
e la liturgia eucaristica, sono congiunte tra loro così strettamente
da formare un solo atto di culto” (Sacrosanctum Concilium,
56). La Messa, che è l’atto liturgico per eccellenza e da cui tutti
gli altri atti liturgici scaturiscono, è costituita da questa
duplice mensa, nella quale siamo invitati a divenire partecipi del
mistero pasquale, della vita nuova dei figli di Dio in Cristo.
L’Apocalisse, quindi, in estrema sintesi ma con grande chiarezza,
ci offre allo stesso tempo una bellissima descrizione della liturgia
e i suoi contenuti fondamentali. Se la liturgia, infatti, è la
grazia della partecipazione alla vita del Signore morto e risorto,
al Suo sacrificio redentore, una tale partecipazione salvifica e
santificante si realizza in virtù della nostra comunione alla Sua
Parola, al Suo Corpo e al Suo Sangue.
Alcuni elementi di spiritualità liturgica
Ci domandiamo, adesso: quali elementi di spiritualità liturgica
emergono da quanto abbiamo affermato? Proviamo a individuarne almeno
alcuni.
1. La vita nuova in Cristo
Vivere la liturgia significa rimanere afferrati da Cristo e
crescere nel desiderio di un’appartenenza a Lui sempre più
totalizzante. In questo senso, un’autentica spiritualità liturgica
non può che condurre a una vera passione di amore per Gesù,
incontrato come il Salvatore che dona la vita nuova della grazia, la
Sua stessa vita.
Ecco il motivo per cui si addice, in modo del tutto singolare,
all’esperienza liturgica quanto scrive san Paolo nella lettera ai
Filippesi: “Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un
guadagno” (1, 21). Vivere e morire. Si vuole vivere, della vita di
Gesù. Si vuole morire, morendo al mondo e a ciò che, anche in minima
parte, possa separare dalla vita di Gesù.
San Bernardo, nei Sermoni sul Cantico dei Cantici, scrive
a proposito della relazione dell’anima con il Signore:
“Transformamur cum conformamur” (Siamo trasformati quando siamo
conformati). Vivere la liturgia significa proprio lasciarsi
trasformare dall’opera della grazia, in modo tale da rimanere sempre
più conformati a Cristo e alla Sua vita.
Dobbiamo, pertanto, affermare che la nostra partecipazione alla
liturgia della Chiesa è vera se, ogni volta e in modo sempre più
profondo, possiamo dire: “Cristo è tutto per noi”, secondo la bella
espressione di sant’Ambrogio (La verginità, 99).
Questo primo elemento di spiritualità liturgica è ben custodito e
animato dal rito che, per il tramite dei suoi molteplici e santi
segni, riconduce continuamente a Colui che ne è il primo e più
importante protagonista, come afferma la già citata
Sacrosanctum Concilium: “Per realizzare un'opera così grande, Cristo è sempre
presente nella sua Chiesa, e in modo speciale nelle azioni
liturgiche. È presente nel sacrificio della Messa, sia nella persona
del ministro, essendo egli stesso che, «offertosi una volta sulla
croce, offre ancora se stesso tramite il ministero dei sacerdoti»,
sia soprattutto sotto le specie eucaristiche. È presente con la sua
virtù nei sacramenti, al punto che quando uno battezza è Cristo
stesso che battezza. È presente nella sua parola, giacché è lui che
parla quando nella Chiesa si legge la sacra Scrittura. È presente
infine quando la Chiesa prega e loda, lui che ha promesso: «Dove
sono due o tre riuniti nel mio nome, là sono io, in mezzo a loro»
(Mt 18,20)” (n. 7).
Tra i segni liturgici che hanno valenza cristologica, in realtà
tutti l’hanno direttamente o indirettamente, segnalo solo l’altare.
Per quale motivo il celebrante bacia l’altare all’inizio e alla fine
di ogni celebrazione? Per quale motivo l’altare viene incensato
all’inizio dei riti di introduzione e all’inizio della liturgia
eucaristica? Perché davanti a esso ci si inchina con devozione e
rispetto? Perché, ancora, l’altare è rivestito della tovaglia,
adornato di fiori, illuminato dalle candele? Perché su di esso è
collocato il crocifisso? Tutto questo avviene esattamente perché
l’altare è segno di Cristo, come afferma il V Prefazio pasquale:
“…donandosi per la nostra redenzione [Cristo] divenne altare,
vittima e sacerdote”.
2. Nel cuore della Santissima Trinità
In ragione della sua dimensione cristologica, la sacra liturgia
introduce al cuore del mistero della Santissima Trinità.
Sappiamo che la storia della salvezza, nel suo discendere da Dio
a noi, risulta essere un dono di amore che ha origine nel Padre, si
rivela in pienezza nel Figlio fatto uomo per noi, raggiunge gli
uomini e le donne di ogni tempo in virtù della potenza dello Spirito
Santo. Sappiamo, anche, che la storia della salvezza, nel suo
ascendere da noi a Dio, risulta essere una risposta all’amore che
avviene nello Spirito Santo e, per il tramite del Figlio di Dio
morto e risorto per noi, è presentata al Padre.
Nella liturgia prende forma propriamente, in modo rituale, la
discesa e ascesa della salvezza. Ciò che si è realizzato nella
storia è reso attuale nell’oggi della celebrazione liturgica,
presenza operosa dell’amore trinitario e possibilità a noi data per
accogliere e rispondere a un tale infinito amore. Al riguardo, si
pensi, a titolo esemplificativo, alla conclusione della preghiera
Colletta, rivolta al Padre, per Cristo, nello Spirito: “Per il
nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna
con te, nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei
secoli”.
Un’autentica spiritualità liturgica, di conseguenza, non può che
essere anche trinitaria, conducendo a un’esperienza sempre più
avvincente dell’infinito amore che è Dio, Padre e Figlio e Spirito
Santo, e animando il desiderio crescente di rendere la propria vita
“una lode della gloria di Dio”, come era solita scrivere santa
Elisabetta della Trinità. La sua celebre elevazione alla Santissima
Trinità potrebbe essere un modo adeguato di introdurci alla
celebrazione liturgica come anche di prolungarla.
“O mio Dio, Trinità che adoro, aiutami a dimenticarmi interamente
per stabilirmi in Te, immobile e quieta come se la mia anima fosse
già nell’eternità. Che nulla possa turbare la mia pace né farmi
uscire da te, o mio Immutabile, ma che ogni istante mi porti più
lontano, nella profondità del tuo Mistero. Pacifica la mia anima,
fanne il tuo cielo, la tua dimora amata e il luogo del tuo riposo.
Che io non ti lasci mai solo, ma che sia là tutta intera, tutta
desta nella mia fede, tutta adorante, tutta abbandonata alla tua
azione creatrice.
O mio Cristo amato, crocifisso per amore, vorrei essere una
sposa per il tuo Cuore, vorrei coprirti di gloria, vorrei amarti…
fino a morirne! Ma sento la mia impotenza e ti chiedo di «rivestirmi
di te», di identificare la mia anima a tutti i movimenti della tua
anima, di sommergermi, d’invadermi, di sostituirti a me, affinché
la mia vita non sia che un’irradiazione della tua. Vieni in me come
Adoratore, come Riparatore e come Salvatore. O Verbo eterno, Parola
del mio Dio, voglio passare la vita ad ascoltarti, voglio farmi
tutta docilità per imparare tutto da te. Poi, attraverso tutte le
notti, tutti i vuoti, tutte le impotenze, voglio fissarti sempre e
restare sotto la tua grande luce; o mio Astro amato, affascinami,
perché io non possa più uscire dallo splendore dei tuoi raggi.
O Fuoco consumante, Spirito d’amore, «scendi in me», affinché si
faccia nella mia anima come un’incarnazione del Verbo: che io sia
per lui un’umanità aggiunta nella quale egli rinnovi tutto il suo
Mistero. E tu, o Padre, chinati sulla tua povera piccola creatura,
«coprila della tua ombra» e non vedere in lei che il «Diletto nel
quale hai posto tutte le tue compiacenze» (Scritti,
Postulazione Generale dei Carmelitani Scalzi, pp. 605-606).
O miei Tre, mio Tutto, mia Beatitudine, Solitudine infinita,
Immensità in cui mi perdo, mi consegno a voi come una preda.
Seppellitevi in me perché io mi seppellisca in voi, in attesa di
venire a contemplare nella vostra luce l’abisso delle vostre
grandezze”.
La sintesi propriamente liturgica di questa splendida elevazione
è la cosiddetta “dossologia” al termine della preghiera eucaristica,
quando il celebrante, a nome dell’intera assemblea, alzando con le
mani la patena e il calice, con il Corpo e il Sangue del Signore,
dice o canta: “Per Cristo, con Cristo e in Cristo, a te, Dio Padre
onnipotente, nell’unità dello Spirito Santo, ogni onore e gloria per
tutti i secoli dei secoli”.
3. Il canto della sposa
La dimensione tipicamente dialogica della liturgia ci consente di
illustrare un altro elemento essenziale della spiritualità
liturgica. In effetti, ogni celebrazione introduce nella relazione
sponsale che la Chiesa vive, nella gioia e nella gratitudine, con il
Suo Signore. Che cosa è la liturgia se non un dialogo di amore?
L’amore che lo Sposo riversa sull’amata e l’amore che la Sposa
desidera, in risposta, cantare all’Amato.
Quanto è importante, allora, essere attivamente partecipi in
questo dialogo dell’amore! Sia che si ascolti e sia che si risponda,
sia che si preghi con la parola e sia che si preghi con il canto, il
nostro cuore è chiamato a entrare in intima comunione con il cuore
della Chiesa. Nostra deve diventare la parola della Chiesa, nostro
deve diventare il silenzio della Chiesa, nostro deve diventare tutto
quello che la Chiesa vive nel dialogo liturgico dell’amore.
Può essere interessante, al riguardo, ricordare che la preghiera
liturgica non si esprime mai al singolare ma sempre al plurale.
Anche quando è previsto che la preghiera sia formulata dal solo
celebrante, tale preghiera non si esprime in forma individuale ma in
forma comunitaria. In tal modo, con la preghiera liturgica, veniamo
introdotti nel “noi” della Chiesa e sottratti alla nostra
soggettività individuale. E’ con la Chiesa che dialoghiamo con il
Signore, è nella Chiesa che entriamo in relazione orante con il
nostro Salvatore, è in virtù della nostra appartenenza alla Chiesa
che ci rivolgiamo alla Santissima Trinità.
Vivere la liturgia significa fare esperienza della Chiesa, quale
sacramento di salvezza e voluta dal Signore che ha dato se stesso
per lei, al fine di renderla santa e immacolata. Non vi è, forse,
“luogo” più adatto della celebrazione liturgica per avvertire la
bellezza della Chiesa, sentirsi parte di essa e della sua vita,
ammirare la fantasia dell’amore del Signore dal cui Cuore squarciato
la Chiesa è scaturita.
Un’autentica spiritualità liturgica, pertanto, sarà sempre anche
ecclesiale, nel senso che si nutrirà di amore per la Chiesa, farà
propria la parola della Chiesa, assumerà i sentimenti della Chiesa,
sperimenterà la gioia di una famiglia che, in Dio, non solo
attraversa la storia, ma è già anche approdata alla sponda
dell’eternità beata e dona la ricchezza inestimabile della comunione
di santi a noi ancora pellegrini sulla terra.
Siamo Chiesa soltanto nella misura in cui, in virtù della
liturgia, accogliamo la salvezza in Cristo morto e risorto ed
entriamo in comunione con il Suo mistico Corpo, che è popolo
itinerante nel tempo ma anche Città di Dio stabilmente insediata nei
Cieli.
4. Le ragioni della speranza
Sarebbe suggestivo fare una ricerca terminologica, al fine di
verificare quante volte e in quante occasioni la preghiera liturgica
usa la parola “speranza”. Qui ci basti ricordare un testo che è noto
e che ritorna a ogni celebrazione eucaristica. Mi riferisco
all’embolismo, a quella breve orazione che segue il Padre nostro,
all’interno dei Riti di comunione. Ecco le parole del celebrante:
“Liberaci, o Signore, da tutti i mali, concedi la pace ai nostri
giorni; e con l'aiuto della tua misericordia, vivremo sempre liberi
dal peccato e sicuri da ogni turbamento, nell'attesa che si compia
la beata speranza, e venga il nostro Salvatore Gesù Cristo”.
Come si può notare, il testo della preghiera conosce una tensione
interna, tutta orientata alla beata speranza e alla venuta del
Signore. D’altra parte, la liturgia si distende tra un tempo
passato, un tempo presente e un tempo futuro. Si pensi
all’acclamazione che segue il racconto dell’istituzione, con la
consacrazione delle specie eucaristiche: “Annunziamo la tua morte,
Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua
venuta”. La nostra fede è radicata nel passato, in un fatto accaduto
nella storia: la morte del Signore; è vissuta nel presente, immersa
nella risurrezione di Gesù, il Redentore nel quale siamo salvati; è
rivolta al futuro, al ritorno glorioso del Risorto, Principio e Fine
di ogni cosa.
La liturgia, dunque, educa alla speranza. Non solo perché la
richiama continuamente quale elemento essenziale della fede, ma
anche perché ne dona le ragioni. E le ragioni sono che Gesù è
risorto, che in Lui sono vinti il peccato e la morte e ci sono
aperte le porte del Paradiso, che il Cielo di Dio ora tocca la terra
degli uomini e, di conseguenza, anche questa terra può essere
migliore, che Dio è alleato dell’umanità nel condurla alla pienezza
della vita e della gioia.
Vivere la liturgia, quindi, significa accrescere la speranza e
divenire testimoni di speranza. La medicina moderna è arrivata a
diagnosticare alcune malattie di una persona, osservando il fondo
dell’occhio. Anche le malattie dell’anima si riflettono
immediatamente negli occhi. La malattia della disperazione può
riflettersi nei nostri occhi. La vera medicina per guarire da una
tale malattia la troviamo nella liturgia che, donandoci le ragioni
vere della speranza, è capace di donarci anche uno sguardo nuovo,
ricco di speranza e annunciatore di speranza.
Scrive san Gregorio di Nissa: “Il cristiano deve ricordarsi di
ciò che avverrà”. Siamo nel cuore della fede. La liturgia ci aiuta a
rimanere nel cuore della fede e a conservare, la memoria viva di ciò
che avverrà. Anche questa è spiritualità liturgica.
5. La testimonianza del Risorto
Tutti conosciamo bene la parole con le quali si conclude la
celebrazione eucaristica. Come capita spesso, anche queste parole
sono entrate così abitualmente nell’uso che si corre il rischio di
smarrire il significato pregnante che esse hanno. Le parole sono
apparentemente semplici: “La Messa è finita. Andate in pace”. In
realtà, dietro la semplicità della formulazione, dobbiamo fare
memoria dell’eco evangelica che in esse troviamo.
Prima dell’Ascensione al cielo, infatti, Gesù si rivolge ai
discepoli per inviarli in qualità di annunciatori del Vangelo fino
ai confini della terra: “Andate in tutto il mondo e predicate il
vangelo a ogni creatura” (Mc 16, 15).
Dopo questo richiamo alla parola del Signore, ritorniamo al breve
testo liturgico. Ci accorgiamo che anche in questo breve testo è
usata la parola “andate”. Evidentemente, quindi, questa parola non
ha solo il significato di indirizzare verso l’uscita del luogo
sacro, ma anche di indicare una missione che inizia al termine della
celebrazione liturgica.
La conclusione della Messa, infatti, segna l’inizio della
missione nel mondo, l’inizio della testimonianza del Risorto nei
luoghi della vita quotidiana. Il dono della salvezza in Cristo che è
stato accolto nel rito liturgico ora deve essere trasmesso senza
indugio ai crocicchi delle strade, laddove l’umanità vive, gioisce e
soffre.
Un’autentica spiritualità liturgica, pertanto, si caratterizza
anche per un afflato missionario e per una santa inquietudine in
relazione alla comunicazione universale di Gesù, unico e vero
Salvatore del mondo.
Vale la pena, in questo contesto, ricordare quanto san Giovanni
Paolo II scrisse nella Lettera Enciclica
Redemptoris missio:
“La missione è un problema di fede, è l’indice esatto della nostra
fede in Cristo e nel suo amore per noi” (11). E’ lecito affermare
che la liturgia è vissuta pienamente e nella verità se, in virtù
della fede con la quale è celebrata, determina anche un di più di
slancio missionario.
Ascoltiamo ancora san Giovanni Paolo II, nella stessa Enciclica:
“Prima ancora di essere azione, la missione è testimonianza e
irradiazione” (Redemptoris missio, 26). L’invio ad andare,
che riecheggia nella celebrazione liturgica, ha la sua prima e
feconda espressione nella luce che caratterizza chi a quella
celebrazione ha partecipato. Vivere, dunque, nella verità
l’esperienza liturgica si trasformerà sempre anche in un supplemento
di irradiazione evangelica di cui si diventerà capaci per grazia.
Non si dimentichi, in questo contesto, che la forma più alta di
irradiazione e di testimonianza resa al Signore è quella della
carità. Una partecipazione alla liturgia della Chiesa che non
comportasse un accrescimento della carità susciterebbe qualche
perplessità. Come ci si può incontrare con l’amore di Dio in Cristo,
con la carità del Cuore di Gesù per la quale Egli ha dato la vita
sulla croce per noi, e non vivere nella carità? Come è possibile
comunicare al Corpo e al Sangue del Signore, fuoco di carità a noi
donato, e poi conservare un cuore incapace di donazione? Dalla
liturgia non può che scaturire una più grande carità. D’altra parte,
non vi potrebbe essere carità senza il radicamento della propria
vita nella liturgia e nella preghiera, dal momento che la carità è
l’amore stesso di Dio riversato nei nostri cuori.
Un episodio della vita di santa madre Teresa di Calcutta,
ricordato dal cardinale Angelo Comastri, può essere di aiuto a non
smarrire la relazione intima che lega liturgia e carità, preghiera e
carità: “Madre Teresa con le sue ruvide mani strinse la corona del
rosario, che non abbandonava mai. Poi mi fissò con i suoi occhi
pieni di luce e di amore e mi disse: «Non basta, figlio mio! Non
basta, perché nell’amore non ci si può ridurre al minimo
indispensabile: l’amore è massimalista!». Non compresi subito il
senso delle parole di madre Teresa e, quasi per giustificarmi,
risposi: «Madre, ma io da lei mi aspettavo che mi chiedesse: quanta
carità fai?». Rivedo il volto di madre Teresa, che improvvisamente
diventa serio e poi con parole ferme mi dice: «E tu credi che io
potrei fare la carità, se non chiedessi ogni giorno a Gesù di
riempirmi del suo amore? E tu credi che io potrei camminare per le
strade e cercare i poveri, se Gesù non mi mettesse dentro l’anima il
fuoco della sua carità?». Mi sentii tanto piccolo e guardai madre
Teresa con profonda ammirazione e con il desiderio sincero di
entrare nel mistero della sua anima piena di Dio. Quasi sillabando
le parole, ella aggiunse: «Leggi bene il Vangelo e vedrai che Gesù,
per la preghiera, sacrificava anche la carità. E sai perché? Per
insegnarci che, senza Dio, siamo troppo poveri per poter aiutare i
poveri!” (Dio scrive diritto, San Paolo, p. 79).