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Paola Elisabetta Cerioli (1816-1865) foto Paola Elisabetta Cerioli, nata nel 1816, ha vissuto docile ed obbediente in famiglia a Soncino di Cremona fino a undici anni circa. Poi, per quasi cinque anni, è stata inviata lontano da casa a studiare presso un educandato di Suore animate dalla spiritualità salesiana che si trovava ad Alzano di Bergamo. Nella sofferenza e nella solitudine ha imparato presto ad affidarsi a Dio. Ritornata ai luoghi natii si è docilmente e liberamente disposta ai voleri dei genitori. A diciannove anni è andata, così, sposa a un uomo di cinquantotto anni residente a Comonte di Seriate (BG). Insieme hanno dato la vita a quattro bambini, tre dei quali morti prestissimo. Uno di loro, Carlo, è vissuto fino a sedici anni facendo esplodere in lei la gioia e l'amarezza di una maternità conculcata. Il matrimonio vissuto in mezzo a solitudine e devozione è terminato presto in modo liberatorio e problematico insieme. Infatti, rimasta vedova del marito, all'età di trentanove anni è entrata in una profonda crisi esistenziale che l'ha spinta a cercare più in profondità ed oltre i lutti patiti il significato di ciò che le era accaduto e di ciò che Dio le chiedeva. Un faticoso ed esigente discernimento - guidata, prima da Mons. Alessandro Valsecchi e, poi, anche dal grande Vescovo di Bergamo Pietro Luigi Speranza -, la sospinse ad affidarsi al Signore con rinnovato entusiasmo, mentre sentiva intrinsecamente rivitalizzato il proprio desiderio di maternità tenuto vivo in lei dalle parole profetiche del figlio Carlo che morente le aveva detto: «Mamma non piangere per la mia prossima morte, perché Dio ti darà tanti altri figli» (A. Longoni, Memorie della vita, in Opera Omnia, vol. VII, Bergamo 2001, p. 84). Docile alla guida del paziente ed illuminato direttore spirituale elabora positivamente le proprie tragedie e si consegna alla fede, alla speranza ed alla carità: «Prego Monsignore che mi benedica che sono anch'io sua pecorella traviata sì, ma piena di buoni desideri di riparare a una vita fredda ed indifferente al servizio di Dio, ora che il Signore mi ha castigato con la maggiore delle disgrazie» (P. E. Cerioli, Lettere, in «Opera Omnia», vol. III, Bergamo 2001, p. 40). Così in uno slancio di carità inusitato, che la spingeva ogni giorno a soccorrere i bisognosi ed i malati del suo circondario, mentre contempla la misteriosa figura evangelica dell'Addolorata e si sente guidata dalla forza protettiva di San Giuseppe, comprende che la rivelazione racchiusa nelle parole del figlio Carlo ha una straordinaria attuazione nel mistero della Santa Famiglia di Nazaret dove Maria e Giuseppe cooperano in modo mirabile al piano salvifico del Padre celeste facendosi prolungamento terreno della sua maternità e paternità salvifica ed universale. Lei stessa, infatti, ci lascia questa testimonianza: «Queste parole anziché confortare il mio cuore straziato me lo strinsero facendomele interpretare in senso opposto ed ignorando come quell'anima innocente aveva penetrato negli arcani di Dio». (A. Longoni, Memorie della vita, in Opera Omnia, vol. VII, Bergamo 2001, p. 42). Questa contemplazione lentamente trasforma la sua azione caritativa e di soccorso indirizzandola verso i bambini più soli ed abbandonati e diventa progetto da realizzare con alcune compagne e compagni di apostolato per dare avvenire a chi, senza una dignitosa famiglia, è privo di avvenire (esperienza del Gromo). Insieme al soccorso, Madre Cerioli, ha subito percepito la forza educativa della famiglia e dell'istruzione nei confronti dei figli: «Si faccia stretto dovere di rileggere frequentemente l'istruzione apposita sul modo di educare le Figlie di San Giuseppe, per non errare in un punto di tanta importanza qual è quello di accudire rettamente e saviamente alla doppia sua missione di maestra e di madre, allevando ed educando quelle figlie, al bene delle quali è destinato l'istituto» (P. E. Cerioli, Direttorio dell'Istituto delle Suore della Sacra Famiglia di Bergamo (1906), in Le Regole, «Opera Omnia», vol. I, Bergamo 2001, p. 344‑345). Le sue Case e le sue Scuole nacquero e si svilupparono con l'intenzione di promuovere la crescita dell'intera società a partire proprio dalla famiglia. Nello stesso tempo che ella si preoccupava delle sue realizzazioni educative era molto attenta al problema della povertà e delle carenze dei bambini privi di famiglia. Il 24 dicembre 1865, dopo un decennio di vita intensa e laboriosa, muore a meno di cinquant'anni avendo appena avviato la sua Istituzione femminile e maschile in favore dei bambini più «negletti» e «derelitti» della società del suo tempo. Assumendo un po' da vicino la sua vicenda spirituale ciò che noi possiamo oggi cogliere come suggestivo per la nostra testimonianza di fede è la sua grande coerenza di vita cristiana e il modo con cui si è affidata alla esigente provvidenza che le richiedeva un inusitato coraggio a corrispondere a ciò che le veniva offerto come attuazione sorprendente dei suoi più profondi desideri (essere madre). È insomma lo spazio che ha saputo offrire all'azione misteriosa e veemente dello Spirito che l'ha guidata ad un'interpretazione della vita generosa, ottimistica e per gli altri. Il proposito della Fondatrice di mediare la paternità‑maternità benefica di Dio per i figli abbandonati dei poveri contadini del suo tempo ha un sostanziale riferimento alla Santa Famiglia di Gesù, Giuseppe e Maria. Tale riferimento non dipende da una riflessione teologica sulla famiglia di Nazaret da parte della Cerioli, ma dal suo vissuto pratico personale e da quello di ampi strati della Chiesa del suo tempo e dei suoi luoghi. Come, infatti, abbiamo già osservato, ad accompagnare e guidare il discernimento spirituale e vocazionale della Fondatrice è il proprio desiderio di maternità che, nella fede e nella contemplazione dell'Addolorata ai piedi della croce, deve diventare nuova (carismatica) cioè secondo le intenzioni dello Spirito. Ma questa maternità, prima quasi dedotta da quella di Maria, è poi irresistibilmente collegata alla paternità di Giuseppe in ragione della presenza dei «pegni» - le figlie di San Giuseppe - che il Padre le andava affidando come tesori da custodire e da amare. Con questo riferimento, che implica uno sviluppo per gradi e che si costituisce nel tempo, la Cerioli, in conseguenza del proprio cammino di fede, vuole far capire che le famiglie più vere sono quelle in cui i legami più autentici vanno ricercati nella fede più che nella parentela (Mc 3, 31‑35). Del resto, come si sa, tutto il discorso sulla sterilità e sulla verginità fatto dalla Bibbia, dall'Antico Testamento fino a Gesù Cristo, è un invito a riconoscere come figli più autentici non tanto quelli che sono generati dalla carne, ma coloro che sono dati anche fuori dalla propria generazione; quelli che Dio ti dà scegliendoli per te. Non sono soltanto quelli che si generano fisiologicamente, ma quelli che si rigenerano con l'amore (Gv 1, 12‑13). Naturalmente la contemplazione della famiglia di Nazaret suggerisce l'accettazione di un modello di generazione, di paternità, di maternità e anche di figliolanza totalmente atipici, propri solo della fede. Essi, su tale piano, permettono a colui che non intende costringersi nelle sole modalità di generazione carnale e sessuale, di aprirsi a nuovi orizzonti e a nuove passioni per l'umanità proprio mediante una straordinaria energia rigeneratrice. In tal senso il modello della Santa Famiglia diventa un riferimento che apre alla speranza non soltanto colui che è vedovo o sterile o incapace di creatività, ma soprattutto colui che riceve il compito vocazionale affascinante ed impegnativo di creare condizioni sempre più efficaci all'affermazione della paternità‑maternità di Dio per sé e per l'avvenire di chi è senza futuro. Questo progetto vocazionale esige l'accettazione gioiosa e rigorosa di vivere la povertà totale della Santa Famiglia: «Eccoci a Betlem! O felice Betlem! Qui Sorelle entriamo rispettosamente in quest'umile Grotta soggiorno dell'Uomo Dio. Non temete, qui tutti hanno libero l'accesso. Qual bontà. Prostriamoci in silenzio in un angolo di questo luogo, e miriamo con rispetto questi tre Personaggi del Cielo, e con la luce di quell'abbagliante splendore che per ogni parte illumina la cara Capanna, meditiamo attentamente quant'Essi qui fanno, qui dicono, qui succede... perché da questi primi esempi devono formare il loro spirito le Suore della Sacra Famiglia. Povertà, ecco quanto da prima colpisce i nostri sguardi... O povertà quanto sei grande; quanto sei onorata ora che ti scelse per compagna un Dio Bambino!» (P. E. Cerioli, Regole, in «Opera Omnia», vol. I, Martinengo‑BG, 2002, p. 123). Povertà che non è principalmente la povertà di mezzi, dei quali in certo qual modo, Gesù, Giuseppe e Maria potevano anche disporre, ma anzitutto è la rinuncia a gestire gli affetti, per altro insopprimibili, in modo personale per lasciare che sia Dio a regalarti quelli che lui vuole. La Famiglia di Nazaret è povera proprio perché accetta di essere famiglia nel modo che lo rivela e lo richiede Dio. È povera perché accetta di vivere il tipo di familiarità che è richiesta da questa famiglia particolare. Come aveva ben compreso la Fondatrice che amava ripetere alle sue suore: «Amiamole queste povere figlie (le bambine orfane), e siamole in luogo di padre, madre, fratelli che Dio loro ha tolti per mettere noi in loro luogo» (P. E. Cerioli, Regole, in «Opera Omnia», vol. I, Martinengo‑BG, 2002, p. 115). Il riferimento pratico ed umile alla Santa Famiglia, oggi come allora, dalla Cerioli è suggerito per soccorrere l'abbandono e la solitudine e perché possiamo affrontare grandiosi interrogativi: che cosa rivela di sé Dio nel mistero coniugale della Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe? Quale volto della divinità è offerto nel mistero di questa famiglia? Quale identità vi è espressa per la vocazione del religiosa della Sacra Famiglia? L'immagine che traspare nel fatto che il Figlio eterno della Madre Maria accolto, fatto oggetto di premure, cresciuto e abilitato al compito affidatogli dal Padre, è quella di un Dio che per puro amore «ha deciso di non risparmiare per sé il proprio Figlio ma di consegnarlo per tutti» (Rm 8, 32). Il mistero della Santa Famiglia trasmette in modo denso ed incisivo la verità che la paternità divina riprodotta umanamente in Giuseppe ha la natura anche della maternità espressa da Maria; e cioè che essa si può anche chiamare ricreazione generativa con l'amore, con la premura, con la generosità e con il dono di sé. «Guardate, dunque, l'impegno e l'alacrità che dovete avere: - ammoniva la Cerioli - si tratta niente meno di dare alle vostre figlie direi (se non incorro in errore) una seconda creazione e più eccellente alla prima!» (P. E. Cerioli, Regole, in «Opera Omnia», vol. I, Martinengo‑BG, 2002, p. 211) Così nel mistero della Santa Famiglia è definita e codificata per sempre l'identità più profonda del religiosa della Sacra Famiglia che diventa proposta spirituale per tutto il popolo di Dio. Questi, ma in particolare i religiosi e le religiose discepoli della Cerioli sono fermamente uniti a Gesù, Maria e Giuseppe per servire la Trinità donandole tutto se stessi in sacrificio e dedicando ogni sforzo ad annunciare che è autentica benedizione per gli uomini procurare la vita divina a tutti e in particolar modo ai piccoli senza avvenire. Questo sacrificio di dedicare tutto se stessi per la gloria di Dio risplendente in modo insuperato «nell'uomo vivente» era una implorazione che la Cerioli faceva recitare proprio all'atto della Professione religiosa: «Io N. N. per unirmi sempre più strettamente alla Sacra Famiglia del Figliolo di Dio fatto Uomo Gesù Cristo, Signor nostro, e per mettermi maggiormente all'impegno di servire alla Sua Divina Maestà ed imitare le virtù che risplendettero nelle Auguste Persone della Santa Famiglia, ed a me sono più necessarie, qui prostrata alla presenza della Santissima Trinità, e alla presenza di Gesù, di Maria Santissima, di San Giuseppe e del mio Angelo Custode, per la pura gloria di Dio, faccio Voto di Povertà, Castità, ed Ubbidienza per un anno giuste le Regole e pratiche di questo Istituto, riconosciuto dal Vescovo». Omelia di Giovanni Paolo II |