Come si diffonde il messaggio biblico

La parola comunica
ma l'immagine corre


Si è concluso a Padova il convegno "Bibbia e immagini:  tradizioni, letture o tradimenti?" organizzato dalle associazioni Biblia e Bibbia aperta. Pubblichiamo stralci della lectio magistralis.

di Timothy Verdon

Intorno alla questione della liceità o meno dell'uso di immagini plastiche o pittoriche per comunicare i contenuti dei testi sacri giudeo-cristiani si sono combattute lunghe e sanguinose guerre. Nel corso dei secoli ci si è chiesto se l'immagine non sia per definizione già "infedele" alla Bibbia, un tradimento del Dio che nella Torah proibì la fabbricazione di idoli e che perfino all'amico Mosè rifiutò di mostrarsi visivamente, spiegando che "l'uomo non può vedermi e vivere".
Prima di incamminarsi su un terreno così scosceso, è bene però ricordare un fatto ovvio:  la stessa comunità di fede che negli ultimi due millenni ha provveduto a diffondere la cultura biblica, la Chiesa cristiana nelle sue molteplici ramificazioni, per la maggior parte di questo tempo ha accettato la liceità delle immagini, considerandole importanti nell'esperienza dei credenti.
Soprattutto nel cristianesimo bizantino, lacerato dalla disputa iconoclasta del primo millennio, rimane profonda la convinzione dell'importanza dell'icona sacra, come suggeriscono le numerose raffigurazioni del trionfo dell'iconodulia nella vita della Chiesa in cui regnanti, prelati e monaci venerano l'icona di Maria odegìtria. Maria odegìtria:  colei che, indicando Cristo fisicamente presente nel mondo come "la via", in qualche modo riassume la funzione dell'arte, che indica in termini analogamente fisici Colui che, incarnandosi, è diventato "icona del Dio invisibile", come la lettera ai Colossesi chiama Cristo (Colossesi, 1, 15).
Dall'accettazione delle immagini da parte di molte famiglie di fede cristiana e dalla committenza ufficiale dei grandi progetti nascono poi due conseguenze ermeneutiche:  i soggetti biblici, anche se veterotestamentari, vengono normalmente letti prima nell'ottica cristiana e poi specificamente nell'ottica ecclesiale. La preoccupazione di rappresentare il "senso originario" del testo  biblico  è infatti moderna, non antica.
Certo, il solo fatto di una bimillenaria tradizione iconografica non risolve la questione teologica, riaperta all'interno dello stesso cristianesimo alla Riforma. Tuttavia la tradizione si offre come una componente del dibattito, e conduce a un distinguo essenziale per ogni riflessione sul rapporto tra Bibbia e immagini cristiane:  il cristianesimo non è in primo luogo una "religione del libro". Nel tempo del loro pellegrinaggio terreno, i cristiani si servono di testi sacri ispirati, ma il cristianesimo in realtà crede nel Verbo divino che in Gesù Cristo "si fece carne" (Giovanni, 1, 1.14), e insegna che la carne di Cristo costituisce una via privilegiata verso la salvezza (Ebrei, 10, 20).
"Carnali" e "corporei" sono anche l'immaginario, il linguaggio e la ritualità dei cristiani, i quali concepiscono la comunità come un corpo che "pur essendo uno, ha molte membra (...) tutte le membra, pur essendo molte, sono un solo corpo" (1 Corinzi, 12, 12; cfr. Romani, 12, 4-5), e associano i templi col corpo del salvatore risuscitato dai morti, secondo il suo insegnamento (cfr. Giovanni, 2, 21). Uno scrittore cristiano dei primi secoli, Vincenzo di Lerins, spiega perfino l'elaborazione teologica della fede con la metafora del corpo umano che, pur rimanendo se stesso,  cresce dall'infanzia all'età matura.
Data quest'enfasi corporea, non stupisce che il cristianesimo abbia fatto ampio uso delle arti, servendosi di riti, canti, poesia, pittura e architettura come di un "catechismo".
Si tratta di strumenti che, da una parte - nell'appello sensorio - sono connaturati all'annuncio di un Verbo incarnato, mentre dall'altra - nella loro trasfigurazione del dato materico - esaltano la vocazione spirituale della materia. Soprattutto l'arte visiva è servita a questi scopi:  i mosaici e dipinti murali o su tavola o tela, le sculture in  bronzo, pietra o legno che popolano le chiese cristiane anche quando i riti finiscono e cessano i canti.
Tale preminenza del visivo chiosa una precisa lettura degli scritti sacri giudeo-cristiani, che similmente caratterizzano l'anelito verso Dio in termini di visio. Sia l'Antico che il Nuovo Testamento sottolineano, voglio dire, l'umana brama di vedere Dio senza mediazioni:  "Mostrami la tua gloria!", Mosé gli chiese, rimanendo tuttavia deluso quando l'Altissimo rispose:  "Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restar vivo" (Esodo, 33, 18.20).
Nel sistema di fede cristiano, questa brama di vedere Dio viene finalmente soddisfatta nella persona di Cristo stesso, e all'affermazione "il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi"; "chi vede me vede Colui che mi ha mandato" e "chi ha visto me ha visto il Padre" (Giovanni, 12, 45 e 14, 9), e un altro scritto giovanneo afferma che in lui, Cristo, "la vita si è fatta visibile, noi l'abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi" (1 Giovanni, 1, 2) - visibilità, questa, sintetizzata nel già citato testo paolino che asserisce che Cristo "è l'icona (l'immagine) del Dio invisibile" (Colossesi, 1, 15).
Riassumendo questi passi scritturistici, un padre della Chiesa, san Giovanni Damasceno, spiegherà l'uso cristiano delle immagini dicendo che "un tempo, non si poteva fare immagine alcuna di un Dio incorporeo e senza contorno fisico (...), ma ora Dio è stato visto nella carne e si è mescolato alla vita degli uomini, così che è lecito fare un'immagine di quanto è stato visto di Dio".
Scrivendo nel contesto dell'interdizione delle immagini da parte dell'imperatore di Bisanzio, l'iconoclasta Leone iii nel 730, questo autore - nato cristiano in una Damasco già allora sotto controllo musulmano - riafferma il nesso tra l'Incarnazione del Verbo e l'uso delle immagini, soprattutto quelle che raffigurano Cristo stesso.
L'affermazione teologica che in Gesù Cristo "il Verbo si fece carne" appartiene a uno solo dei vangeli, quello di Giovanni, considerato l'ultimo nell'ordine di stesura (cfr. Giovanni, 1, 14). Ma la realtà percepibile, quasi palpabile, in tutti e quattro i testi evangelici è di un messaggio verbale così concreto e incisivo da diventare, nella vita dell'ascoltatore o lettore, presenza personale. Soprattutto la figura dello stesso Gesù emerge dalle pagine del Nuovo Testamento con forza, toccando l'immaginario umano in un modo nuovo, vitale e illuminante, come precisa ancora il vangelo giovanneo, affermando che "in lui era la vita e la vita era la luce degli uomini" (Giovanni, 1, 4). Un altro testo giovanneo aggiunge che nell'incarnazione del Verbo "la vita infatti si manifestò, noi l'abbiamo veduta e di ciò diamo testimonianza" (1 Giovanni, 1, 2), lasciando capire che questa presenza di Cristo nei vangeli non è solo un fatto intellettuale - un'intuizione etica o morale - bensì l'esperienza visiva di una persona che vuole essere vista.
Ecco perché, trattando del compito di testimoniare oggi Colui che è visibile nei vangeli, Giovanni Paolo II parlava della "immagine del Cristo docente, maestosa insieme e familiare, impressionante e rassicurante (...) disegnata dalla penna degli evangelisti e spesso evocata in seguito dall'iconografia sin dall'età paleocristiana, tanto è seducente" (Catechesi tradendae, 1).
Come suggeriscono le parole "in seguito" nel testo di Giovani Paolo II, il passaggio da un'immagine letteraria "disegnata dagli evangelisti" a immagini pittoriche e plastiche ha richiesto molto tempo:  infatti fu solo nel iv-v secolo che l'arte cristiana riuscì a definire un linguaggio tutto suo, svincolato dal sistema formale dell'arte classica. Per la tradizione popolare, invece, le due realtà - l'immagine letteraria e quella artistica - sarebbero nate insieme, almeno nel caso di uno degli evangelisti, Luca, il quale (secondo la tradizione) era pittore.
È questo il senso della tela del maestro cretese emigrato in Spagna nel 1576, Domenico Theotocopoulos noto come El Greco, in cui il libro che l'evangelista ci mostra è adorno di un'immagine a tutta pagina della Madonna col Bambino. Il santo ha in mano un pennello, non una penna da scrivano, e l'immagine, posta a destra dell'apertura, in effetti attira l'attenzione più della pagina scritta, a sinistra:  leggiamo da sinistra a destra, e così qui l'immagine diventa in qualche modo la "meta" della nostra lettura, come se, leggendo, le parole si fossero "incarnate" davanti ai nostri occhi!
All'epoca dell'esecuzione della tela poi - come del resto oggi - la consuetudine editoriale era di situare eventuali illustrazioni a sinistra, non a destra del testo, così che l'inversione di questa prassi sottolinea l'importanza dell'immagine, in qualche modo maggiore dello stesso testo. Nel suo Compendio del Catechismo della Chiesa cattolica pubblicato nel 2005, il cardinale Joseph Ratzinger, considerando il potenziale pastorale delle immagini, ipotizzava che "oggi più che mai, nella civiltà dell'immagine, l'immagine sacra possa esprimere molto di più della stessa parola, dal momento che è oltremodo efficace il suo dinamismo di comunicazione e di trasmissione del messaggio evangelico".
L'idea che in ultima analisi l'immagine sia più pregnante che il testo scritto è antica nel cristianesimo, che considera la Bibbia un'espressione temporanea e parziale di qualcosa che in cielo si conoscerà meglio mediante la contemplazione diretta di Dio, la visio beatifica.
La parola elabora un pensiero complesso per una serie di passaggi logici che richiedono tempo e spazio, in cui facilmente s'indeboliscono l'attenzione e la capacità analitica dell'ascoltatore o lettore; l'immagine invece comunica con immediatezza e drammaticità. Per far capire che "l'unico scopo del Figlio di Dio nel nascere era di rendere possibile la crocifissione", l'anonimo autore della cosiddetta "Croce di Pasquale I" ha  sistemato una serie d'immagini relative  all'incarnazione,  nascita e infanzia  di Gesù su un supporto cruciforme.
Questo spettacolare oggetto conservato nel Museo Sacro della Biblioteca Vaticana è un capolavoro di smalto cloisonné su lamina d'oro realizzato forse da un maestro siriaco attivo a Costantinopoli nei primi decenni del ix secolo. Il programma iconografico è focalizzato sul mistero natalizio, organizzandone i sette episodi maggiori nei bracci e al centro della croce, così che l'Annunciazione, la Visitazione, la Natività, l'Adorazione dei Magi, la Presentazione al Tempio, la Fuga in Egitto e il Battesimo di Cristo sono messe in rapporto alla futura morte del Salvatore!
Ma c'è di più, perché ciò che abbiamo chiamato "croce" è in verità una stauroteca - un contenitore per frammenti della vera croce - e così l'impatto dell'oggetto non era solo intellettuale ma anche viscerale:  sapendo che l'oggetto cruciforme conteneva il legno su cui Cristo era morto, il credente contemplava queste scene della sua nascita con profonda commozione; non a caso il centro, corrispondente alla testa di Cristo in un crocifisso, è occupato dalla Natività stessa, col bambino in una  mangiatoia  allusiva alla futura offerta  del  piccolo  corpo come alimento.
L'allusione scritturistica è facilmente decifrabile:  la Croce di Pasquale i è infatti una sintesi visiva del passo della Lettera agli Ebrei (10, 5-10), dove l'autore afferma che "entrando nel mondo, Cristo dice (al Padre):  Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato... allora ho detto:  "Ecco, io vengo - poiché di me sta scritto nel rotolo del libro - per fare, o Dio, la tua volontà""; l'autore precisa infine che "mediante quella volontà siamo stati santificati per mezzo dell'offerta del corpo di Gesù Cristo".
L'immagine comunica tutto questo con la sola giustapposizione della croce e la natività.



(©L'Osservatore Romano 18-19 maggio 2009 2009)
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