Il sacrificio glorioso dell'Eucaristia

Un amore paziente
e intramontabile


di Inos Biffi

L'Eucaristia è il sacramento del sacrificio di Gesù Cristo. Per comprenderla occorre richiamare insieme l'Ultima Cena e l'immolazione della croce con la sua dimensione di gloria. Nell'Ultima Cena Gesù porta a compimento l'antica Pasqua ebraica e la converte nella Pasqua cristiana, dove alla consumazione dell'antico agnello subentra quella del suo "Corpo dato", e il calice del vino è sostituito dal calice del suo "Sangue versato", suggello della nuova alleanza (Luca, 22, 19-20).
Nasce, così, il sacramento della "cena del Signore" (I Corinzi, 12, 20), che i discepoli consumeranno in memoria di lui e secondo il suo mandato:  "Fate questo in memoria di me" (Luca, 22, 19).
Ma, se nell'Ultima Cena il pane spezzato e offerto da Gesù è il suo "Corpo dato", e il calice da lui fatto passare è il calice del "sangue versato" vuol dire che gli apostoli prendono già parte al suo sacrificio, oggettivamente presente in forma "profetica". Storicamente esso non era ancora avvenuto:  quella era la "notte in cui veniva tradito" (1 Corinzi, 11, 23); l'immolazione di Gesù sarebbe venuta successivamente sul Calvario.
Ed è puntualmente questa immolazione in croce che si deve considerare per comprendere sia la "realtà" del rito eucaristico istituito nella cena pasquale ardentemente desiderata (Luca, 22, 14), sia la ragione della sua ripresentazione sacramentale. Per questo è guida ispirata particolarmente la splendida e acuta Lettera agli Ebrei, con la sua dottrina sulla "perfezione" del sacrificio di Cristo:  una dottrina che la teologia forse non ha sufficientemente e coerentemente illustrato.
L'immolazione della croce scioglie e consuma il valore transitorio di tutti i sacrifici levitici, per imporsi e risaltare come il sacrificio perfetto e intramontabile. I primi erano precari e destinati a ripetersi:  I sacerdoti che li compivano erano, infatti, segnati dalla mortalità (per cui dovevano essere sostituiti) e insieme dalla debolezza (per cui quei sacrifici si esaurivano e dovevano essere ripetuti). Erano sacrifici imperfetti, privi di valore permanente:  incapaci di operare una purificazione definitiva, si stemperavano nel tempo.
Al contrario, il sacerdote della nuova alleanza, Gesù Cristo, non è attraversato dalla mortalità, non è affetto da debolezza, non è compromesso con il peccato, che, per il suo ripetersi, richiede il rinnovarsi del sacrificio di purificazione.
Gesù è un sacerdote - si legge nella Lettera agli Ebrei - "santo, innocente, senza macchia, separato dai peccatori ed elevato sopra i cieli; egli non ha bisogno ogni giorno, come gli altri sommi sacerdoti, di offrire sacrifici prima per i propri peccati e poi per quelli del popolo, poiché egli ha fatto questo una volta per tutte, offrendo se stesso" (Ebrei, 7, 26-27). Nella nuova alleanza il primo sacrificio è abolito e ne è stabilito uno "nuovo" (10, 9), e sia il sacerdote sia il sacrificio risultano perfetti e non passano.
Immolando se stesso, Gesù, Sommo Sacerdote, Figlio di Dio, conferisce alla sua offerta, che non è più carnale ma "spirituale", un valore che non si consuma. Essa non è composta di puri elementi storici per loro natura destinati a passare, ma è in grado di oltrepassare la momentaneità:  "Noi siamo stati santificati, per mezzo dell'offerta del corpo di Gesù Cristo, fatta una volta per sempre" (Ebrei, 10, 10).
Questa offerta è dunque inestinguibile, non "catturata" e non prigioniera di un momento del tempo, bensì comprensiva e aperta su tutti i tempi e su tutti i luoghi. Noi diremmo:  sempre "attraente" e "trascendente" in quanto procurata da Cristo con "il proprio sangue".
Rileggendo e trasformando la liturgia del giorno dell'espiazione, l'autore della Lettera agli Ebrei afferma:  "Cristo, venuto come sommo sacerdote di beni futuri, attraverso una Tenda più grande e più perfetta, non costruita da mano di uomo, cioè non appartenente a questa creazione, non con sangue di capri e di vitelli, ma con il proprio sangue entrò una volta per sempre nel santuario, procurandoci così una redenzione eterna" (9, 11-12).
"Cristo non è entrato in un santuario fatto da mani d'uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore, e non per offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote che entra nel santuario ogni anno con sangue altrui" (Ebrei, 9, 24-25); egli "una volta sola, alla pienezza dei tempi, è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso" (v. 26).
Quello di Cristo appare, così, un sacrificio "celeste", ossia un sacrificio perennemente presente dinanzi a Dio, un'offerta permanente, che i sacrifici terrestri solo raffiguravano (Ebrei, 9, 23). Commenta un esegeta:  "Alla presenza della scekina egli non offre sacrificio nuovo alcuno. Quella donazione, una e unica, continua" (Cesare Marcheselli-Casale).
Importa sottolinearlo:  l'unico sacrificio di Cristo è quello della croce - "punto d'arrivo di tutto un decorso di esistenza in se stessa già redentiva" - ma esso "già allora portava in sé tutto il potenziale del sacrificio celeste".
A essere radicalmente "celeste" è lo stesso sacrificio della croce. "La morte sacrificale di Cristo - osserva un altro esegeta - non è un atto distinto dalla sua comparsa al cospetto di Dio" (Harold Attridge); propriamente Gesù "non celebra ininterrottamente una liturgia celeste poiché il suo sacrificio fu un evento unico. La liturgia "celeste" è in fondo l'unica dimensione interiore e spirituale del suo sacrifico che è del tutto fisico".
Non esistono due sacrifici:  quello storico e quello glorioso in cielo, ma l'unico sacrificio, quello del Calvario, che è intimamente glorioso, e quindi celeste ed eterno. Se gli mancasse la prerogativa di essere "celeste", il sacrificio della croce svanirebbe. È una fantasia immaginare Gesù risorto da un lato e il suo sacrificio storico, presente nell'Eucaristia, dall'altro; o il Gesù crocifisso, presente nel sacramento, separato e distinto dall'unico Gesù reale vivente, che è il Gesù celeste e glorioso.
Il sacrificio della croce è la persona di Gesù nel suo donarsi. La perennità del sacrificio della croce è la perennità della persona di Gesù in questo amore oblativo. E l'Eucaristia è il sacramento dell'amore paziente e glorioso di Cristo consumato sulla croce e in certo modo confermato con la risurrezione.
La risurrezione o la glorificazione di Gesù, infatti, non fanno che rivelare questo valore celeste e glorioso, e per ciò intramontabile, del sacrificio della croce. Il sacrificio della croce è duraturo a motivo della gloria, inclusa nella sua storia. Senza questa dimensione di gloria, non ci sarebbe possibilità di sacramento. Di più:  senza questa gloria apparsa con la risurrezione, non ci sarebbe stato neppure il sacrificio della croce, o questo sarebbe stato a sua volta un sacrificio passeggero, irrecuperabile nel sacramento.
In altre parole:  l'immolazione di Gesù sulla croce è stata senz'altro un sacrificio storico, segnato dal tempo, come professiamo nel credo:  "Patì sotto Ponzio Pilato", e collocato in un luogo preciso:  il Calvario. Ma, se esso fosse stato esclusivamente storico, avrebbe subìto la sorte di tutti gli eventi che sorgono e avvengono nella storia:  sarebbe stato destinato a passare, logorato dal corso temporale, e a vivere solo in un ricordo attenuato.
Ciò che rende, invece, singolare e incomparabile il sacrificio della croce è la dimensione assolutamente nuova che il suo avvenimento storico racchiude. Esattamente grazie a essa è possibile la sua memoria "reale". L'immolazione del Calvario è ripresentabile nel convito eucaristico, per il fatto di essere un sacrificio celeste, perfetto, spirituale, secondo le connotazioni che la lettera agli Ebrei riconosce al sacrificio di Cristo.
Ne consegue che "quanto continua ad avvenire in terra, sacrifici quotidiani da parte di sacerdoti della nuova alleanza, è solo attualizzazione di quel suo unico sacrificio sacerdotale e redentivo" (Harold Attridge).
Senza dubbio, l'aver compreso la messa come "sacramento" del sacrificio della croce, ossia come il sacrificio stesso della croce in una modalità nuova, quella del segno efficace - per il quale essa è ritrovata dentro un nuovo tempo e un nuovo spazio - è stato un traguardo teologico decisivo.
In tal modo si sono abbandonate definitivamente tanto le teorie che ricercavano nella messa, a livelli vari e diverse forme, degli elementi sacrificali, quanto le teorie in cui col carattere oblativo non risaltava anche il carattere sacrificale, e per questo la definizione della messa appunto come "sacramento del sacrificio" appare felice.
Ma bisogna procedere ulteriormente e dire che il sacrificio della croce è ripresentabile nel sacramento, perché è un sacrificio dove la storia è ricolma di gloria e quindi è un sacrificio celeste, nel senso della Lettera agli Ebrei. Il sacrificio storico della croce è ripresentabile perché glorioso.
Ma deve anche apparire chiaro che è, originariamente, Gesù risorto e Signore e non la celebrazione come tale, a rendere presente nell'Eucaristia il sacrificio della croce.
Cristo, in virtù della sua signoria e con l'istituzione nell'Ultima Cena, ha legato il suo sacrificio temporale capace di "redenzione eterna" (Ebrei, 9, 11) al nostro spazio e alla nostra storia, perché fosse fruibile mediante i segni da lui istituiti.
Il sacramento eucaristico non ripete l'immolazione:  questa si ritrova ed è raggiunta nel "sacro convito" a motivo della condiscendenza del Signore, il quale, potendo disporre del sacrificio del suo Corpo e del suo Sangue, incessantemente lo ridona a noi.
Questo vale per l'Eucaristia e vale per tutti i sacramenti, i quali, prima che gesti della Chiesa, sono gesti del Signore, vivente in continua e gloriosa intercessione per noi alla destra del Padre. La Chiesa e i suoi ministri non agiscono in nome proprio, ma in nome e per la potestà di Cristo - in persona Christi - in atto in cielo e sulla terra.
Ogni volta è dal Crocifisso risuscitato che noi riceviamo il "Corpo dato" e il "Sangue sparso". Per ciò dove c'è l'Eucaristia, là c'è tutto il Paradiso.



(©L'Osservatore Romano 14 giugno 2009)
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