Alcide De Gasperi e il regionalismo trentino

L'autonomia va bene se non fa concorrenza allo Stato


Pubblichiamo la seconda parte della lectio magistralis tenuta il 18 agosto a Pieve Tesino (Trento) dal Direttore del Museo Diocesano Tridentino nel corso di un incontro promosso dall'Istituto Luigi Sturzo e dalla Fondazione trentina "Alcide De Gasperi" in occasione del cinquantacinquesimo anniversario della morte dello statista.
 

di Iginio Rogger

L'autonomia trentina ottenne una sua realizzazione istituzionale nel contesto dell'applicazione dell'accordo De Gasperi-Gruber del 5 settembre 1946. Con l'autonomia regionale approvata dall'Assemblea Costituente, nel gennaio 1948, i trentini conseguirono d'un tratto l'adempimento delle loro aspirazioni e lo ottennero con uno statuto che li rendeva partecipi dell'attuazione dell'accordo stipulato a tutela della minoranza etnica sudtirolese, dotato di una particolare garanzia internazionale.
Sono evidenti i vantaggi che il Trentino ricavò da questa posizione, a cui si deve nel concreto anche il carattere del tutto speciale dell'autonomia trentina. Converrà non dimenticare che ancor oggi essa si regge su questa base, pur con tutte le modifiche apportate in seguito con gli statuti successivi.
Da allora è rimasto aperto l'interrogativo sollevato sui fronti diversi, se non costituisca un privilegio indebito questa inclusione del Trentino in un regime di autonomia voluto e creato primariamente come strumento di tutela della minoranza etnica sudtirolese.
I tedeschi hanno anche parlato di una "truffa" di De Gasperi, operata per eccessiva affezione ai trentini. Tralascio le interpretazioni espresse da parte italiana da allora fino a oggi.
Sentendo come obbligo di coscienza la ricerca di una comprensione migliore dell'onestà dell'operazione nelle intenzioni di De Gasperi, dopo la morte dello statista trentino mi avvicinai a una ipotesi interpretativa che a un tratto ricevette una sua verifica inattesa. L'ipotesi alla quale mi riferisco è che l'idea di civiltà che anima l'accordo De Gasperi-Gruber esige che la minoranza tedesca dell'Alto Adige venga a trovarsi in condizioni pienamente equiparate a quelle godute dalla maggioranza italiana nel suo Stato nazionale italiano.
Una conferma autorevole di questa ipotesi mi è venuta dalla testimonianza diretta dell'ex ministro degli Esteri austriaco Karl Gruber. L'11 novembre 1991 mi trovai infatti a fungere da interprete per la deposizione resa da Gruber a Vienna nei preliminari del processo canonico per la beatificazione di Alcide De Gasperi. Profittando alquanto della mia posizione cercai di approfondire l'interrogativo su quelle che potevano essere state le intenzioni di De Gasperi nel dilatare al Trentino l'autonomia prevista come necessaria per la salvaguardia del carattere etnico e dello sviluppo culturale ed economico degli abitanti di lingua tedesca dell'Alto Adige.
Chiesi infatti a Gruber se fosse possibile che De Gasperi, nell'idea di agganciare l'autonomia dei trentini a quella dei sudtirolesi, secondo un'idea che egli certo favoriva e per la quale aveva acquisito simpatizzanti anche nel Sudtirolo, avesse fiducia che tale inclusione tornasse a vantaggio dei sudtirolesi stessi nel processo di realizzazione di essa.
Ed ecco la risposta testuale di Gruber:  "De Gasperi ne era convinto:  se l'autonomia si realizza per i trentini, diventa un fatto irreversibile. Se si realizza per i trentini, si realizza anche per i sudtirolesi; ogni pericolo di vanificarla verrà respinto anche dai trentini".
Gruber si diceva convinto, sia per proprio conto, come anche per quello che era stato il pensiero di De Gasperi, che nella difficile impresa prevista per la realizzazione degli intenti contenuti nell'accordo l'ottenimento effettivo dei diritti naturali della minoranza etnica tedesca sarebbe stato aiutato e sorretto dalla compartecipazione dei trentini, che dal canto loro avevano pur conosciuto il disagio di una minoranza etnica incompresa. Tale testimonianza, estremamente significativa anche per quelle che furono poi le sorti del primo decennio di autonomia regionale, è stata testualmente pubblicata in "Studi Trentini di Scienze Storiche" (78, 1999, pagina 483 e seguenti).
In realtà, lo spirito che animava il sessantacinquenne De Gasperi nelle trattative con Gruber era perfettamente in linea con un percorso spirituale, culturale e politico iniziato molti anni prima, a inizio Novecento, negli anni universitari viennesi. Sono questi gli anni in cui De Gasperi, che mai fu irredentista, sviluppa il concetto di "coscienza nazionale positiva", ovvero la possibilità di distinguere tra appartenenza nazionale e appartenenza statuale.
Più tardi, come trentino inserito nel Regno d'Italia, avrà ben chiara l'urgenza di salvaguardare l'eredità autonomistica in un tessuto statale sostanzialmente  centralistico  e  che ben presto avrebbe conosciuto il dispotismo fascista.
A maggior ragione, all'indomani della seconda guerra mondiale, De Gasperi si chiederà come un'autonomia speciale di portata regionale possa utilmente integrarsi con la nuova storia repubblicana ed europea.
Tutto questo implicava naturalmente non tanto la rivendicazione di particolari privilegi, ma piuttosto l'assunzione di responsabilità e di effettive capacità di autogoverno e di buon governo nello spirito autonomistico della storia secolare di questa terra a scavalco del Brennero.
Non è un caso che nella seduta del 29 gennaio 1948 dell'Assemblea Costituente, ormai alle soglie dell'approvazione dello statuto regionale, lo statista trentino non si limiti a rimarcare l'urgenza di "mantenere l'impegno che si era preso a Parigi:  assicurare, cioè, l'esercizio di un potere autonomo agli abitanti della zona di Bolzano" - tanto più dopo la tragica vicenda delle opzioni - e "garantire l'esistenza e tutti i diritti alla minoranza italiana nella provincia di Bolzano".
De Gasperi avverte il bisogno di aggiungere il seguente inciso:  "Io che sono pure autonomista convinto e che ho patrocinato la tendenza autonomista, permettete che vi dica che le autonomie si salveranno, matureranno, resisteranno, solo a una condizione:  che dimostrino di essere migliori della burocrazia statale, migliori del sistema accentrato statale, migliori soprattutto per quanto riguarda le spese. Non facciano la concorrenza allo Stato per non spendere molto, ma facciano in modo di creare una amministrazione più forte e che costi meno. Solo così le autonomie si salveranno ovunque, perché se un'autonomia dovesse sussistere a spese dello Stato, questa autonomia sarà apparente per qualche tempo e non durerà per un lungo periodo".
Solo in questa prospettiva, concludeva De Gasperi, non c'è alcun pericolo di "creare in Italia una serie di repubblichette che disgregherebbero la Repubblica italiana".
Come non intravedere in queste parole il cosciente ricupero critico di tutta una storia trentina passata!
Da una parte c'è la convinzione che se trentini e sudtirolesi sono chiamati per forza storica a collaborare è anche perché i trentini già a suo tempo hanno vissuto la condizione di minoranza e una forte aspirazione di autonomia entro uno Stato non omogeneo alla loro etnia, ma che non riduceva a un unico modello le differenze linguistiche, toponomastiche, amministrative e giuridiche. Dall'altra c'è però anche l'idea che questa terra tra le montagne, e dunque la nuova regione, sia chiamata per forza della sua stessa storia a farsi laboratorio di autogoverno e di buona convivenza non solo per l'Italia ma per la stessa Europa.
Qui sta appunto la base etica e morale della inclusione dei trentini nello Statuto di autonomia del 1948.
La storia della nostra terra, quando riuscirà finalmente a emergere libera da ogni pregiudizio, dovrà pur chiedersi sinceramente come mai queste intenzioni, nel corso degli anni Cinquanta, rimasero in larga misura lettera morta.
Uno studio anche sommario della stampa locale di quegli anni basterebbe da solo a dimostrare come il Trentino preferì schierarsi dalla parte più facile e più redditizia del centralismo statale, piuttosto che andare alla ricerca di quei temi di comune interesse che, pur nella diversità della lingua, potevano associarci nella ricerca di una migliore convivenza democratica.
In quale misura dietro questo orientamento abbia giocato un ruolo anche una strategia intelligente, che fin dalle prime battute seppe orientare lo sviluppo in tal senso, è cosa che meriterebbe più attenta indagine.
Con ciò non si tratta di mettere in discussione l'integrità morale, la sensibilità culturale e giuridica, e ancora lo spirito di fede cristiana di alcuni protagonisti politici dell'epoca in questione. Ma quando si tratta di comprendere un ruolo politico in rapporto al bene comune lo sforzo deve andare oltre la sfera soggettiva personale.
Appunto in questa prospettiva è mia convinzione che l'orientamento politico che allora prevalse con l'apporto determinante di buona parte della classe politica trentina del tempo non corrispondeva alle istanze più feconde della storia passata di questa regione, né al progetto politico voluto da De Gasperi e Gruber con il loro celebre accordo.
Da tempo, ormai, porto avanti questa tesi storiografica. Giunto alle soglie del mio novantesimo anno mi auguro che non siano sterili battute giornalistiche, ma anzitutto rigorosi studi storici a confermarla o a smentirla. Da parte mia e, ne sono sicuro, da parte di tutti voi, anche nel caso in cui non condivideste la mia tesi, non può che valere la massima antica secondo cui la ricerca della verità deve essere più forte di tutto.
È dunque nello spirito critico dello storico che si sforza di unire la libertà di giudizio al rispetto dovuto a ogni persona che mi avvio a concludere questa lectio.
Di fronte ai grandi rivolgimenti a cui va incontro l'intero assetto politico italiano e la storia d'Europa, si impone a tutti noi in modo urgente l'interrogativo sull'avvenire dell'Autonomia trentina.
C'è chi a un quadro di autonomia comune dei trentini con i sudtirolesi non dà più alcuna fiducia, forse anche perché non vi ha mai creduto.
D'altronde c'era e c'è ancor oggi chi non si rassegna ad abbandonare il certo per l'incerto. Poiché ancor oggi la nostra speciale autonomia, nella sua circoscrizione geografica e nella sua struttura istituzionale, ha la sua base portante nello Statuto del 1948 e la sua radice nell'accordo De Gasperi-Gruber.
In ogni caso, chi propone alternative ha tutto il dovere di elaborare un progetto articolato e credibile, che, partendo dalle nuove motivazioni di fondo, sappia costruire un'ipotesi realistica per il piccolo territorio trentino.
Parte da qui, a mio avviso, la necessità di riflettere ancora oggi su quale senso debba avere una struttura regionale che abbraccia il Trentino e il Sudtirolo e che si apre sempre più in prospettiva euroregionale.
Come già detto, consento in pieno con quanti considerano questa impostazione costituzionale desiderabile o perfino necessaria. Ma sulle condizioni non esistono sconti, se non si vuol ricadere di nuovo negli equivoci del passato.
Prendiamo in considerazione un certo clima spirituale. L'esistenza di una ragione di convivenza politica tra la popolazione trentina e quella tirolese suppone che si voglia riconoscere come base fondamentale ciò che abbiamo in comune, rispetto a ciò che ci distingue e divide. E si assuma come orientamento supremo la regola evangelica che ci impegna anche a fare agli altri quello che si vorrebbe fatto a se stessi.
Emerge spontaneo e doveroso in proposito l'interrogativo se e in quale misura queste aspirazioni siano divenute l'asse portante di quello che amò chiamarsi il Movimento autonomista trentino nella seconda metà del secolo ventesimo.
Senza disconoscere la sincerità di tante passioni, nonché la forza partecipativa di taluni passaggi storici, e pur tenendo conto del frammentarismo di tale movimento, non sembra che i programmi e gli effetti realizzati su questo punto e in tal senso siano stati particolarmente brillanti. Problemi come quello della scuola tedesca, dell'amministrazione della giustizia o della toponomastica in Alto Adige non furono certo quelli che nel secondo dopoguerra riscaldarono gli animi del Movimento autonomista trentino.
Metterei poi in guardia da un certo scimmiottamento di gusti e costumi tirolesi, dal quale acquisteremmo piuttosto disprezzo che simpatia da parte di chi ha un senso delicato della schiettezza dei costumi dei popoli.
Converrà invece dilatare fortemente nell'ambiente trentino una conoscenza esaustiva di tutta la bibliografia tedesca e internazionale sulla storia del Tirolo e sui problemi dell'Alto Adige, in modo da non fare in materia un discorso declinato tutto alla nostra maniera.
L'attualità del bicentenario di Andreas Hofer, con i gravi problemi di storia e di mito che lo attraversano, è una buona occasione per presentarsi a questo esame con tutte le carte in regola, non strumentalmente ma tenendo in tensione coinvolgimento popolare e impegno scientifico e storiografico, senza il quale non ci può essere respiro davvero europeo.
Nella medesima prospettiva una maggiore conoscenza di quella che fu la sofferenza spirituale e materiale della popolazione tirolese a seguito della Zerreissung del Land con l'imposizione del confine al Brennero, potrebbe ancor oggi distinguere il modo di sentire dei trentini. Altrettanto dicasi del dramma delle Opzioni del 1939, sul quale i trentini potrebbero maturare un sentimento meno tecnicamente politico, ma più umano e popolare.
Il discorso vale ovviamente anche al rovescio:  è difficile pensare a un rinnovato senso di convivenza senza che anche gli storici sudtirolesi meditino più a fondo sul significato delle reiterate richieste di maggiore autonomia sollevate dai trentini nei confronti di Innsbruck sin dal 1848; altrettanto dicasi delle tragiche conseguenze patite dai circa 70.000 trentini fatti evacuare in vari campi di internamento - le cosiddette "città di legno" - in Austria, in Boemia e in Moravia, allo scoppio della Grande guerra.
Occorre quindi sviluppare una maggiore conoscenza reciproca, a cominciare dalla lingua, dove, a dire il vero, i sudtirolesi con la loro conoscenza della lingua italiana ci forniscono uno stimolo a padroneggiare meglio il tedesco.
Per convivere occorre insomma conoscere alquanto la sensibilità e perfino le suscettibilità del partner. Ciò non vuol dire adeguarvisi supinamente; ma tenerne conto è necessario.
Tutto questo riguarda la sfera più vasta e indefinibile degli atteggiamenti psicologici e morali. Ma senza una cura positiva di questa base sarà sempre difficile sviluppare una convivenza.
La nostra distanza spirituale si documenta con troppa frequenza. Ricordo anche il tono di certi interventi nella discussione sulla nuova università di Bolzano, soprattutto nella fase iniziale. E guardando ai molteplici problemi della toponomastica, non bisognerebbe che i trentini, già difensori acerrimi e gelosi dell'italianità dei loro toponimi all'epoca austriaca, si lascino scavalcare da nuovi nazionalismi quando si tratta di restituire alla Vetta d'Italia la sua originale denominazione tedesca!
In ogni caso la sola promozione dei nostri interessi materiali non potrà mai essere il glutine che tiene insieme una convivenza regionale. Solo su una nuova e forte impostazione culturale e ideale si potranno costruire insieme progetti e programmi più articolati. Penso anche che la stessa "identità del Trentino", anziché perdersi in disquisizioni retoriche, potrebbe emergere in modo più concreto dal confronto più differenziato e concreto con i primi vicini.
Le risorse morali per questa crescita vanno dunque richiamate a raccolta, riconosciute nel loro valore, confermate nell'esercizio quotidiano della giustizia e della solidarietà, garantite e sorrette con regolamenti e norme adeguate.
Sono molti i capitoli che ci uniscono ancor oggi con le popolazioni altoatesine, senza pregiudicare le nostre caratteristiche proprie, che nessuno oggi del resto mette in pericolo. Sono molto ampie, a ben guardare, le cause e le motivazioni comuni e gli spazi stessi di interessi materiali coincidenti, che possono avvantaggiarsi efficacemente da una promozione fatta insieme, piuttosto che da una ricerca in ordine sparso.
Venendo alla conclusione, lo scrivente non è certo in grado di prevedere se la "conversione" spirituale di cui qui si parla sia realisticamente pensabile e se, allo stato attuale delle cose, pur effettuata, sia ancora in grado di modificare il corso degli eventi. Il giudizio pratico e le relative scelte operative spettano alla responsabilità dei politici.
Per parte mia appartengo a quel ceto di trentini che da sempre hanno sognato l'autonomia come la sede più propria per la realizzazione di una democrazia autentica. E sono tra quei, non molti, che hanno salutato cordialmente la Regione come uno strumento che ci poneva in condizione di giovare non solo al nostro bene, ma anche a quello della minoranza etnica limitrofa che con noi convive.
Convinto che il successo finale non mancherà di premiare chi avrà avuto il coraggio dell'utopia ...



(©L'Osservatore Romano 21 agosto 2009)
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