Jean-Marie Lustiger e il «caso serio» della Francia

Ebreo e cardinale


Pubblichiamo la parte finale del discorso pronunciato il 21 gennaio dal filosofo francese durante la cerimonia d'ingresso all'Académie française, dedicato alla figura di chi lo aveva preceduto all'Accademia ed era stato arcivescovo di Parigi dal 1981 al 2005.

di Jean-Luc Marion

Jean-Marie Lustiger dava l'impressione, non ingannevole, di abitare costantemente l'ordine della carità. Non voglio dire che era naturalmente caritatevole, né di una dolcezza imperturbabilmente evangelica:  al contrario, le sue collere leggendarie e i suoi giudizi a volte duri cadevano così pesantemente sui loro destinatari solo perché cadevano dall'alto. Vedeva il mondo e le menti nella luce della carità, come si vedono le cose la notte nella luce verde del binocolo elettronico. All'opposto del materialismo, spiegava sempre ciò che è inferiore attraverso ciò che è superiore. Davanti a una situazione politica, si domandava quali forze di odio, di male, di bontà e di fedeltà a Dio erano in campo. Durante un dibattito all'apparenza teorico, ma di fatto spesso colorato d'ideologia, si sforzava d'identificare la situazione spirituale dei protagonisti, di comprendere quello che ognuno amava od odiava. Poiché nella luce del terzo ordine, la verità brilla solo se viene amata, altrimenti accusa, quantomeno nel senso in cui la luce accusa i contorni di ciò che inonda. Veritas lucens, dunque anche e spesso una veritas redarguens:  Jean-Marie Lustiger mi è sempre apparso come una di quelle persone, rare ma decisive, che praticano questa dottrina di sant'Agostino sulla verità.
Da qui la sua lucidità politica, nel senso più nobile:  "l'atteggiamento più altamente rigoroso dal punto di vista morale e spirituale è l'atteggiamento più responsabile politicamente" (Dieu merci, le droits de l'homme, p.195). O ancora:  "Non è soltanto immorale e anticristiano, ma anche anti-politico espellere la morale dalla politica" (ivi, p. 214). Ciò gli ha permesso, fra le altre cose, di non vedere mai una rivoluzione nel 1968 (Le Choix de Dieu, p. 255), di avere predetto nel 1987 il crollo dell'impero comunista in quanto "molto chiaro" (Le Choix de Dieu, p. 294) di analizzare come nessun altro, se non Karol Wojtyla e i protagonisti di Solidarnosc, la rivoluzione in Polonia e in Europa centrale. E di annunciare, nel 1987, anche l'elezione di Barack Obama:  "Immaginate domani un presidente degli Stati Uniti nero:  sarà possibile fra vent'anni" (Le Choix de Dieu, p. 457). Esercitò la stessa lucidità verso il secondo ordine:  "Il reale resiste a ciò che l'uomo ha pensato essere la razionalità. E questo reale è una realtà spirituale" (Dieu merci, les droits de l'homme, p. 318).
È stato così spesso criticato per la sua critica dell'Illuminismo che mi sento tenuto a difenderla e spiegarla. In una parola, quello che è stato denigrato come una banale critica ai Lumi è in realtà un modo molto consapevole di affrontare quello che in questi tempi di angoscia dobbiamo chiamare nichilismo.
È in effetti nella prova universale del nichilismo che ha saputo inscrivere ciò che ha deciso di chiamare la crisi della fede, in particolare la crisi della Chiesa cattolica, prima di tutto in Francia. Jean-Marie Lustiger ha saputo esprimere meglio che in qualsiasi altro contesto il suo "paradosso diagnostico" nel dialogo affascinante che condusse nel 1989 nelle pagine di "Le Débat" con il vostro compianto fratello, François Furet (che divenne il mio amico di Chicago):  "Partirò da una constatazione:  a differenza di altre nazioni europee, la Francia non ha trovato nel cattolicesimo la matrice della sua identità nazionale. In molti Paesi, la Chiesa ha preceduto lo Stato e ha dato una certa consistenza alla nazione attraverso la lingua e la cultura... In Francia, invece, l'idea di nazione non coincide con l'idea cattolica in quanto tale, né d'altronde con un dato linguistico" (Dieu merci, les droits de l'homme, Paris, 1990, pp. 118-119). Contrariamente alla leggenda dorata della "figlia primogenita della Chiesa", la Francia non ha mai smesso di scristianizzarsi (le guerre di religione, la Rivoluzione, la separazione tra Stato e Chiesa del 1905, l'esodo rurale, e così via) e dunque anche di ri-evangelizzarsi attraverso altrettanti movimenti di conversione (il XVII secolo dei mistici, le missioni del XIX secolo, l'Azione Cattolica e il rinnovamento culturale del XX secolo, e così via). Poiché la "Francia è il solo Paese dell'Europa occidentale, o meglio dell'Europa cristiana, in cui non c'è stata identificazione completa fra il cristianesimo, la cultura e la nazione" (Osez croire, pp. 167 e 243). Che i cattolici si ritrovino oggi in posizione minoritaria non appare come un disastro, né come una novità, poiché non hanno vocazione alla maggioranza, e ancora meno a un'egemonia politica sulla nazione, dalla parte dello Stato o contro di lui. La loro scelta battesimale li destina solo a rendere testimonianza della salvezza che Dio introduce nell'umanità attraverso la presenza di Cristo in essa. Inoltre, perché la Chiesa dovrebbe non intraprendere il cammino che Cristo stesso ha aperto, che la rivelazione di Dio implica sia il suo rifiuto sia la sua accettazione da parte degli uomini? Se il servo non è più grande del padrone, perché la comunità dei credenti dovrebbe sottrarsi alla prova dell'abbandono e della morte, se vuole accedere alla Resurrezione? Al contrario, una Chiesa che trionfa fra gli uomini non dovrebbe preoccuparsi di aver già tutto compromesso con la sua scelta di fare compromessi con il mondo?
In effetti, in questi tempi di disperazione, di nichilismo, bisogna sforzarsi di "non" ricorrere alla volere di potere, in quanto è paradossalmente la loro affermazione a svalutare i valori più alti:  perché, a forza di lasciarsi valutare, i valori tradiscono la loro dipendenza da questa valutazione.
Non supereremo il nichilismo affermando ancora più fortemente nuovi valori, ma smettendo di valutare, ossia di affidarci alla salita al potere della volontà di volere. Ma come potremmo liberarci della volontà di potere? Qui si enuncia la risposta cristiana:  non facendo la nostra volontà, ma la volontà di un altro, non volendo più per affermare la nostra volontà, ma per ricevere una volontà santa, e dunque, proprio per questo, radicalmente altra.
"Non sia fatta la mia, ma la tua volontà" (Luca, 22, 42). Nella crisi della Chiesa, Jean-Marie Lustiger vedeva il centro della crisi universale della razionalità, una crisi talmente profonda che il nichilismo rendeva ineluttabile. Vi rispondeva con una sola rivendicazione, per i cristiani naturalmente, ma anche  per tutti gli uomini, "il diritto di ricercare la verità e di obbedirle" (Devenez dignes de la condition humaine, p. 66).
Forse il suo destino fu di vivere e di morire come Péguy. Scoprendo un racconto del maresciallo Juin, non ho potuto evitare di associarli. Nel 1953, nel suo elogio di Jean Tharaud, l'amico e collaboratore di Péguy, ricordava la morte del poeta cristiano e socialista, avvenuta il 5 settembre 1914 fra Peuchard e Montyon, "a qualche passo da me". E raccontava "il miracolo di un nemico, che credevamo vittorioso, che si ferma nel punto preciso in cui egli (Péguy) era caduto, per poi retrocedere nella notte". L'avanzata tedesca si sarebbe così letteralmente bloccata sulla morte di Péguy, persino a causa di essa. E se, oserei dire, Jean-Marie Lustiger, morto e vivo, segnasse per noi il punto di avanzata ultima del nichilismo, dunque il segno della sua ritirata? Cosa suggeriva d'altro nel ripetere che "siamo all'inizio dell'era cristiana" (Dieu merci, les droits de l'homme, p. 451)? Corriamo qui nuovamente il ragionevole rischio di credergli.
Noi abbiamo seguito la storia di Jean-Marie Lustiger sulla scia della scelta, ossia della risposta alla parola, essa stessa intesa come una chiamata. Ma, nel suo caso più che in qualsiasi altro, questa parola diceva la parola per eccellenza, poiché si diceva come il Verbo - e questo "Verbo era Dio". E dunque la scelta si deve qui intendere come la Promessa, fatta dal Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, di scegliere un popolo e, attraverso di esso, adottare l'umanità lasciata a se stessa e smarrita. Nessun caso quindi qui, in risposta al colloquio intitolato Le Choix de Dieu (1987), La Promesse designa un libro pubblicato il più tardi possibile (nel 2002), ma divenuto inevitabile dal 1982 e l'intervista concessa al quotidiano israeliano "Yedot Haharonot", con il titolo di Puisque'il faut... (ripreso in Osez croire, 1985). Era necessario, in effetti, cardinale Lustiger! Se lei constatava che la sua "nomina era una provocazione; che metteva il dito nella piaga; che obbligava la gente a riflettere e a sapere la verità" (Le Choix de Dieu, p. 401), era perché essa mostrava pubblicamente quello che lei aveva scoperto dal 1936, quando Aron non si chiamava ancora Jean-Marie:  "Divenendo cristiano, non ho voluto smettere di essere l'ebreo che ero allora. Non ho voluto sfuggire alla condizione di ebreo", perché al contrario "l'ebraismo non aveva per me allora altro contenuto di quello che ho scoperto nel cristianesimo" (Osez croire, pp. 56 e 60). Una simile evidenza non solo di una continuità, ma persino di un'identità, anche altri, come Bergson, l'hanno vista; ma essa può, in seno a una lunga storia di conflitti fra le due religioni, sorprendere, anzi scioccare. E, da una parte e dall'altra, non è mancato lo stupore, persino l'indignazione. Testimoniano quanto meno la serietà di un dibattito essenziale fra i due interlocutori, poiché di fatto questi imparano a confrontarsi, ognuno per sé e l'uno in rapporto con l'altro, con la scelta e la promessa che li definiscono e che essi rischiano sempre, sebbene in modi diversi, di disconoscere, e dunque di alterare. Cerchiamo dunque di comprendere quello che Aron Jean-Marie Lustiger voleva far intendere.
Innanzitutto voleva dire che (cosa che non può che provocare i cristiani) per un ebreo senza un'educazione religiosa precisa, in altre parole senza una pratica talmudica né una cultura rabbinica, la lettura dell'Antico e del Nuovo Testamento in continuità fa apparire la Bibbia come un solo blocco. Chiunque conosce la Legge e i profeti, la storia della scelta di Israele e le vicissitudini dell'Alleanza, l'attesa del Messia nella figura del Servo sofferente, può ammettere che il cristianesimo "mi era come già noto. Ero persino sorpreso dal fatto che gli altri non comprendevano quello che io comprendevo" (Le Choix de Dieu, p. 71). In altre parole, è più utile essere ebreo che non ebreo per comprendere Cristo:  "Quando, per la prima volta, mi son trovato veramente dinanzi a dei cristiani, conoscevo meglio di loro quello in cui credevano" (Osez croire, p. 59). Entrare nel secondo testamento  non  implicava alcuna rottura con il primo né con l'identità ebraica, poiché si trattava della stessa promessa.
"Per me, non si è mai trattato di rinnegare la mia identità ebraica. Al contrario, percepivo Cristo Messia d'Israele e vedevo cristiani che non nutrivano stima per l'ebraismo" (Le Choix de Dieu, p. 51). Questa continuità si può ammettere solo se i cristiani rinunciano, anch'essi e per primi, alla rottura, in altre parole se rinunciano a una perversa teologia del verus Israël, all'eresia di Marcione, sempre viva, che mormora all'orecchio che la Chiesa sostituisce Israele e lo annulla. No! Essa vi s'innesta come l'oleastro s'innesta sull'olivo buono secondo un'orticultura ribaltata che l'Apostolo dice "contronatura" (Romani, 11, 24) intendendo per pura grazia. Un cristiano non può accedere al rango di discepolo di Cristo, ebreo, se non con l'inquieta consapevolezza che la "Chiesa non è un altro Israele, essa è il compimento stesso in Israele del disegno di Dio" (La Promesse, pp. 15, 99, 127). "Nel suo Messia, Dio ha compiuto le promesse fatte a Israele" (La Choix de Dieu, p. 76). "Il Cristo, che Dio ha fatto Signore di tutti e Primogenito dei morti, non si sostituisce a Israele; ne è la suprema figura e il frutto perfetto. Non è la negazione d'Israele, è la sua redenzione" (La Choix de Dieu, pp. 359 e 446). La redenzione d'Israele si è compiuta nella redenzione di tutti gli uomini che Cristo integra in se stesso. Poiché tutti i popoli saliranno a Gerusalemme, purché sia la Gerusalemme che discende dal cielo.
Ne consegue che la Chiesa nasce ebrea e che il primo dibattito ha luogo fra gli ebrei che riconoscevano Gesù di Nazaret come Cristo, il Messia, che ha sofferto ed è stato risuscitato da Dio, e gli ebrei che non lo riconoscevano come tale. La prima divisione, dopo la distruzione del secondo Tempio, separò quelli che riconoscevano il corpo di Cristo come l'unico sacrificio che si potesse rendere a Dio e quelli che ormai senza tempio e senza sacrificio, instauravano il culto sinagogale e la lettura talmudica. Cristo ha provocato innanzitutto l'elezione degli ebrei e la Chiesa si definisce innanzitutto fra gli ebrei, che tutti restano però legati all'unica elezione, destinati all'unica promessa. Poiché mai un ebreo può smettere di restare tale nella sua carne, e questo è uno dei suoi privilegi rispetto al cristiano. In poche parole, come si vanta Paolo di Tarso:  "I doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili" (Romani, 11, 29). Se condivisione ci doveva essere, non ci fu tra gli ebrei e i cristiani, ma essenzialmente e prima di tutto fra gli ebrei restati fedeli alla loro elezione e che, per questo, hanno creduto di dover rifiutare a Gesù la dignità di Cristo e gli ebrei che, per restare fedeli all'unica elezione, si sono decisi a riconoscere Gesù come il Messia.
Così si percepiscono la grandezza e la debolezza della Chiesa dei cristiani che la visione di Aron Jean-Marie Lustiger provoca qui fino in fondo. Una volta associati di diritto i pagani alla salvezza venuta attraverso gli ebrei, certamente, la "Chiesa è allo stesso tempo quella degli ebrei e quella dei pagani" (La Promesse, p. 17). Di conseguenza, però, occorre, perché questi pagani diventino anch'essi autentici cristiani, che smettano di comportarsi come pagani e dunque accettino il loro innesto sull'olivo buono, sulla radice ebraica. Rimettere in discussione questo innesto, dunque qualsiasi forma di antisemitismo, equivale a rinnegare Cristo in loro. "Si può dire che l'atteggiamento concreto dei pagano-cristiani nei confronti del popolo d'Israele è il sintomo della loro infedeltà reale a Cristo o della loro menzogna nella loro pseudo-fedeltà a Cristo. È la confessione involontaria del loro paganesimo e del loro peccato" (La Promesse, pp. 74, 80, 162). Oppure:  "Al centro della storia, il rapporto con l'ebraismo è un test della fedeltà cristiana" (Le Choix de Dieu,  p. 82).  E  ancora:  "Quello che le nazioni fanno degli ebrei verifica quello  che  esse  fanno  di  Cristo" (ivi, p. 84).
Come non pensare qui alle riflessioni critiche di Lévinas a proposito di Montherlant, che vedeva "alleato di un cristianesimo che è soprattutto il cristianesimo dei pagani e non il cristianesimo degli ebrei" (Carnets de captivité, p. 183)? Come non pensare alle tentazioni e ai tentativi di fabbricare un cristianesimo esplicitamente degiudaizzato, un Gesù "dolce galileo", persino provenzale o francamente ariano? Se dunque l'antisemitismo diviene "veramente il test assoluto" (ivi, p. 156) dell'apostasia cristiana, allora un cristiano antisemita semplicemente non è più cristiano:  "Ai miei occhi, gli antisemiti non erano fedeli al cristianesimo" (Le Choix de Dieu, p. 51). Non si deve dunque confondere l'antiebraismo, disputa fra eredi per sapere chi resta più fedele e merita meglio l'elezione - disputa falsata d'altronde da entrambi i lati, in quanto ogni eletto non può giudicare la propria risposta a un'elezione che gli viene da un altro - confondere, dicevamo, l'antiebraismo con l'antisemitismo, che vuole niente di meno che rifiutare categoricamente quella stessa eredità, e che per riuscire a farlo nega agli ebrei la loro elezione, al punto di annientarli perché incarnano irrimediabilmente la promessa di Dio. La Shoah non costituì solo la più grande violazione dei diritti dell'uomo, essa rappresentò anche la più grande blasfemia contro la legge di Dio, poiché si abbatté sul popolo da Lui scelto, sugli ebrei e, permettetemi di aggiungere, in definitiva anche sui cristiani, sul popolo immenso della promessa universale. L'ateismo moderno, per lo meno nelle sue figure totalitarie compiute, si è voluto non solo anticristiano, ma alla fine anche antisemita, perché "non (poteva) sopportare la presenza "particolare" dell'Assoluto nella storia" (Le Choix de Dieu, p. 84). Non pretese solo di annullare Dio, ma anche di cancellare qualsiasi traccia dell'elezione attraverso la quale Dio si rivela nel mondo.
"Dio è morto". Certo, ma quale Dio? Nietzsche ha constatato il primo fatto, ma poneva anche la seconda domanda. Per un ebreo "e dunque" un cristiano, la risposta viene da sé:  "Il dio rifiutato non è che il dio dei pagani mascherato da Dio dei cristiani" (La Promesse, p. 101), "l'idolo dei pagano-cristiani" (ivi, p. 134), la folla degli "dei degradati, idoli degradanti" (Devenez dignes de la condition humaine, p. 23). Così meditata da Aron Jean-Marie Lustiger, ebreo e cardinale della Chiesa cattolica, l'elezione non è più un incidente della storia, ma ne fissa il senso e ne schiude le ultime dimensioni. Certo, si può temere, come il suo predecessore su questo stesso seggio, Pierre Emmanuel, che l'elezione resti spesso incerta:  "Il cielo/ È sempre così lontano dalle sue due braccia che tendono/ tutto il peso del dolore dell'uomo verso l'alto/ In una invettiva o in una invocazione, chi può dirlo?".
Ma, nel profondo di ognuno di noi, sappiamo bene che, persino per noi nelle nostre povere blasfemie, risuona sempre una chiamata, eco persistente dell'elezione  di Aron Jean-Marie Lustiger.
Mentre vorrei cercare di esprimervi, signore e signori dell'Accademia, la mia gratitudine per l'onore che mi avete fatto ricevendomi fra di voi, un timore più grande mi fa tacere:  voi mi avete eletto al seggio che occupava e che occuperà sempre questa figura troppo alta. E, nella sua luce, tutto ci appare più grande e dunque più difficile. Ma anche di questa difficoltà vi sono grato. Che esista dunque, utinam.



(©L'Osservatore Romano 23 gennaio 2010)
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