L'imminente centocinquantenario dell'Unità d'Italia
occasione per rilanciare un autentico approfondimento storico sui fondamenti della Nazione

Nuovi studi per antichi valori


Pubblichiamo ampi stralci della conferenza tenuta il 12 febbraio dal presidente della Repubblica italiana all'Accademia Nazionale dei Lincei.

di Giorgio Napolitano

Con l'avvicinarsi del centocinquantenario si vedono emergere, tra loro strettamente connessi, giudizi sommari e pregiudizi volgari sul quel che fu nell'Ottocento il formarsi dell'Italia come Stato unitario, e bilanci approssimativi e tendenziosi, di stampo liquidatorio, del lungo cammino percorso dopo il cruciale 17 marzo 1861. C'è chi afferma con disinvoltura che sempre fragili sono state le basi del comune sentire nazionale, pur alimentato nei secoli da profonde radici di cultura e di lingua; e sempre fragili, comunque, le basi del disegno volto a tradurre elementi riconoscibili di unità culturale in fondamenti di unità politica e statuale. E c'è chi tratteggia il quadro dell'Italia di oggi in termini di così radicale divisione, da ogni punto di vista, da inficiare irrimediabilmente il progetto unitario che trovò il suo compimento nel 1861.
Non deve sottovalutarsi la presa che può avere in diversi strati dell'opinione pubblica questa deriva di vecchi e nuovi luoghi comuni, di umori negativi e di calcoli di parte. E bisogna perciò reagire all'eco che suscitano, in sfere lontane da quella degli studi più seri, i rumorosi detrattori dell'Unità italiana.
Io vorrei solo - senza tentare impossibili sintesi - suggerire il punto di osservazione dal quale si può meglio cogliere la forza e la validità dell'esperienza storica dell'Italia unita. Un punto di riferimento come quello costituito dagli eventi che fanno per così dire da spartiacque tra l'Italia che consegue la sua Unità e l'Italia che inizia, 85 anni dopo, la sua nuova storia. Parlo del momento segnato dall'avvento della Repubblica, dall'elezione dell'Assemblea Costituente, dall'avvio e dallo svolgimento dei lavori di quest'ultima.
Campeggia, nella Carta che l'Assemblea giunse ad adottare nella sua interezza il 22 dicembre 1947, l'espressione "una e indivisibile", riferita alla Repubblica ch'era stata proclamata poco più di un anno prima. E ci si può chiedere se si tratta di un'espressione rituale, di una meditata e convinta visione della condizione effettiva del Paese, o di un supremo, vincolante impegno politico e morale. Ma in quel momento non poteva comunque mancare, nei padri costituenti, la consapevolezza di come l'Unità della Nazione e dello Stato italiano fosse stata appena faticosamente messa al riparo da prove durissime che l'avevano come non mai minacciata. Una consapevolezza che dovrebbe oggi essere recuperata:  avrebbero potuto resistere a quelle prove le basi della nostra Unità nazionale se fossero state artificiose, fragili, poco sentite e condivise, come da qualche parte si continua a ripetere?
L'Unità forgiatasi nel Risorgimento aveva ben presto dovuto far fronte all'esplodere - già nell'estate del 1861 - del brigantaggio meridionale, che sembrò mettere in causa l'adesione delle popolazioni del Mezzogiorno al nuovo Stato nazionale, e su cui fece leva il tentativo borbonico di suscitare una guerriglia politica a fini di restaurazione. Le forze del giovane Stato italiano dovettero impegnarsi per anni, fino al 1865, per sventare quel tentativo, per sconfiggere militarmente il "grande brigantaggio", senza che peraltro venissero date risposte a quel che era stata anche una disperata guerriglia sociale dei contadini poveri del Mezzogiorno. Le ragioni storiche profonde dell'Unità risultarono più forti dei limiti e delle tare, pure innegabili, dell'unificazione compiutasi nel 1860-1861; e ressero per lunghi decenni, da un secolo all'altro, a fratture e sommovimenti sociali, a conflitti e rivolgimenti politici che pure giunsero a scuotere l'Italia unita. Ma con la crisi succeduta alla prima guerra mondiale, con il rovesciamento, a opera del fascismo, delle istituzioni liberali dello Stato unitario, e con la conseguente estrema deriva nazionalistica e bellicista della politica italiana, si crearono le premesse per un fatale processo dissolutivo che culminò emblematicamente nella giornata dell'8 settembre del 1943.
Quando l'Assemblea Costituente si riunisce a Roma e si mette all'opera per assolvere il suo mandato, essa ha dunque alle spalle precisamente il collasso dello Stato che era nato, nazionale e unitario, sotto l'egida della monarchia sabauda, per finire travolto dalla degenerazione totalitaria e dall'avventura di guerra del fascismo, avallata dalla monarchia. Non a caso, lo Stato rinasce nella forma repubblicana, per volontà popolare, e si appresta a darsi un nuovo quadro di istituzioni, di principi e di regole per accogliere le istanze di libertà, di democrazia, di progresso civile e sociale, di degna e pacifica presenza nel mondo, di un'Italia che ha ritrovato la sua Unità. L'ha ritrovata a carissimo prezzo. Perché allo sfacelo del vecchio Stato sono seguiti gli anni dell'occupazione straniera, liberatrice al sud e ferocemente dominatrice al nord; sono seguiti i 20 mesi dell'Italia tagliata in due.
È guardando all'estrema drammaticità di quell'ancora vicinissimo e scottante retroterra storico, che si può - dall'altura della neonata Repubblica e della sua appena insediata Assemblea Costituente - osservare e pienamente valutare la profondità delle radici su cui l'Unità della Nazione italiana ha dimostrato di poggiare e di poter fare leva. Nel dicembre 1943 Benedetto Croce si diceva "fisso nel pensiero che tutto quanto le generazioni italiane avevano in un secolo costruito politicamente, economicamente e moralmente è distrutto"; e infatti tra il 1943 e il 1945 l'Italia unita rischiò di perdere la sua dignità e indipendenza nazionale e vide perfino insidiata la sua compagine territoriale.
Solo l'Italia e la Germania hanno conosciuto nel Novecento rischi così estremi come Stati-Nazione; la Germania, a partire dagli anni Cinquanta, addirittura nei termini di una prolungata, forzosa separazione in due distinte e contrapposte entità statuali, che avrebbe infine superato riunificandosi grazie al mutamento radicale intervenuto negli assetti mondiali.
L'Italia poté nel 1945 ricongiungersi come Paese libero e indipendente nei confini stabiliti dal Trattato di pace grazie a tre fattori decisivi:  quel moto di riscossa partigiana e popolare che fu la Resistenza, di cui nessuna ricostruzione storica attenta a coglierne limiti e zone d'ombra può giungere a negare l'inestimabile valore e merito nazionale; il senso dell'onore e la fedeltà all'Italia delle nostre unità militari che seppero reagire ai soprusi tedeschi e impegnarsi nella guerra di Liberazione fino alla vittoria sul nazismo; la sapienza delle forze politiche antifasciste, che trovarono la strada di un impegno comune per gettare le basi di una nuova Italia democratica e assumerne la rappresentanza nel quadro internazionale che andava delineandosi a conclusione della guerra.
Quella sapienza fu impiegata anche e in particolare per superare spinte centrifughe in regioni di confine, a nord e a est, e per sventare l'insidia del separatismo siciliano. La risposta fu trovata nell'originale invenzione dell'autonomia delle Regioni a statuto speciale:  innanzitutto con l'approvazione per decreto legislativo - il 15 maggio 1946 - dello Statuto della Regione  siciliana,  mentre  con  l'Accordo De  Gasperi-Gruber  firmato  a Parigi il  5   settembre   1946   furono   poste le basi della Regione Trentino-Alto Adige.
Il fenomeno più grave con cui il Governo nazionale dové confrontarsi nella fase difficilissima dell'affermazione della propria autorità e della creazione delle premesse per un nuovo assetto istituzionale del Paese, fu costituito dal presentarsi del Movimento indipendentista siciliano come forza organizzata in grado di catalizzare spinte antiunitarie di contestazione aggressiva del possibile ricomporsi e consolidarsi di un potere statuale sempre centralizzato.
L'occasione sembrava - soprattutto ai capi del movimento indipendentista - essere offerta dall'occupazione angloamericana dell'isola e da un presunto incoraggiamento da parte delle autorità alleate. Sulla complessità politica di quel movimento, sul suo non trascurabile grado di velleitarismo, sulle sue intrinseche contraddizioni, gli storici hanno indagato attentamente giungendo a giudizi molto ponderati, anche in rapporto ad aspetti come quello dei tentativi d'infiltrazione e di condizionamento da parte della mafia. Ma resta il fatto che il Movimento guidato da Andrea Finocchiaro Aprile acquisì tra la fine del 1943 e l'inizio del 1944 un carattere di massa, reclutando centinaia di migliaia di aderenti. E se in ultima istanza fu proprio l'evoluzione del quadro internazionale dal quale esso aveva inizialmente tratto forza, a liquidare quel Movimento, il Governo di Roma e le forze politiche antifasciste che lo guidavano dovettero prendere decisioni difficili e a rischio di errore, prima di giungere alla scelta fondamentale, che valse a disinnescare la miccia separatista e a riassorbire un fenomeno la cui pericolosità non può in sede storica essere sottovalutata.
Parlo della scelta di riconoscere alla Sicilia uno speciale Statuto di autonomia, la cui elaborazione fu affidata a un'apposita Consulta regionale e infine, nel maggio 1946, recepita per decreto dal Governo. Certo, la prova costituita dalla minaccia separatista siciliana venne superata anche grazie al fatto che più forte dell'impulso a staccarsi dall'Italia risultò l'impronta lasciata nella popolazione dell'isola dal concorso attivo e consapevole dell'aristocrazia e della borghesia al moto risorgimentale; nonché il lascito della "larga partecipazione dell'intelligenza politica e culturale siciliana alla costruzione della realtà nazionale e statale italiana nei decenni seguiti all'Unità". Ma non c'è dubbio che per mettere in sicurezza, dopo la liberazione, l'Unità dell'Italia, essenziale fu la correzione dell'indirizzo adottato al momento della formazione dello Stato unitario a favore di una sua rigida centralizzazione e di una forzosa unificazione amministrativa e legislativa sullo stampo piemontese. Era stata una visione realistica della sola strada percorribile per fondare il nuovo Stato su basi unitarie prevenendo il rischio del riaccendersi di particolarismi locali e di pericolose spinte centrifughe, a prevalere su propositi e progetti di sia pur ponderata apertura verso il ruolo delle regioni. Ma Francesco Ferrara vide in ciò acutamente la tendenza a "confondere l'ordine con l'uniformità e l'Unità con la forza".
La necessità di correggere quell'indirizzo originario si espresse già nel 1946, come ho ricordato, col riconoscimento di uno speciale Statuto di autonomia alla Sicilia, alla Sardegna e - con impegni di valore internazionale - alle regioni di frontiera bilingui; ma poi si proiettò in termini generali in sede di definizione dei principi costituzionali e dell'ordinamento della Repubblica. Così non a caso il richiamo alla Repubblica "una e indivisibile" è collocato in apertura di quello che diverrà - nella redazione definitiva della Carta - l'articolo 5, cui conseguirà il Titolo v, comprendente l'istituzione delle Regioni "a Statuto ordinario".
Il richiamo all'Unità e indivisibilità della Repubblica vale a segnare, tra i "Principi fondamentali" quello di un invalicabile vincolo nazionale; e nello stesso tempo mette in evidenza come il riconoscimento e la promozione delle autonomie siano parte integrante di una visione nuova dell'Unità della Nazione e dello Stato italiano.
Quella fu dunque la scelta dei costituenti:  e io mi limito ora a rievocarla - qualunque giudizio si possa esprimere sugli svolgimenti che essa ha avuto nei decenni successivi - solo per integrare l'argomento da cui sono partito sulla profondità delle ragioni e delle radici del processo unitario e sulla drammaticità delle prove da esso superate in frangenti storici cruciali; per integrare questo argomento con quello dell'efficacia che scelte volte a incidere su antichi e nuovi motivi di debolezza dell'Unità possono avere al fine di rafforzarne le basi e le prospettive.
E qui non posso non toccare il tema del più grave dei motivi di divisione e debolezza che hanno insidiato e insidiano l'Unità nazionale. Mi riferisco, ovviamente, alla divaricazione e allo squilibrio tra nord e sud, alla condizione reale del Mezzogiorno.
E oggi meritano forse una riflessione formule come quella, per lungo tempo circolata, dell'"unificazione economica" che avrebbe dovuto seguire e non seguì all'"unificazione politica" del Paese; s'impone un approccio meno schematico, più attento alle peculiarità che possono caratterizzare lo sviluppo nelle diverse parti del Paese, e ai modi in cui se ne può perseguire l'integrazione riducendosi il divario tra i relativi ritmi di crescita. Si impone un approccio più attento a tutte le molteplici componenti di un aggravamento della questione meridionale che ha la sua espressione più evidente nel peso assunto dalla criminalità organizzata. E nell'allargare e approfondire l'analisi, si incontra il nodo di una crisi di rappresentanza e direzione politica nel Mezzogiorno che è stata fatale dinanzi alla prova dell'autogoverno regionale.
È futile e fuorviante assumere questo stato di cose come prova che l'Italia non è unita e non può esserlo. Si deve comprendere che la condizione del Mezzogiorno pone il più preoccupante degli interrogativi per il futuro del Paese nel suo complesso. L'affrontare nei suoi termini attuali la questione meridionale non è solo il maggiore dei doveri della collettività nazionale, per avere essa fatto della trasformazione e dello sviluppo del Mezzogiorno una delle missioni fondative dello Stato unitario; ma è anche un impellente interesse comune, perché è lì una condizione e insieme un'occasione essenziale per garantire all'Italia un più alto ritmo di sviluppo e livello di competitività. E infine, per ardui che siano gli sforzi da compiere, non c'è alternativa al crescere insieme, di più e meglio insieme, nord e sud, essendo storicamente insostenibili e obbiettivamente inimmaginabili nell'Europa e nel mondo d'oggi prospettive separatiste o indipendentiste, e più semplicemente ipotesi di sviluppo autosufficiente di una parte soltanto, fosse anche la più avanzata economicamente, dell'Italia unita.
Tutte le tensioni, le spinte divisive, e le sfide nuove con cui è chiamata a fare i conti la nostra Unità, vanno riconosciute, non taciute o minimizzate, e vanno affrontate con il necessario coraggio.
Di queste sfide è bene avere una visione non provinciale. Non è solo l'Italia che vede messa alla prova la sua identità e funzione di Stato nazionale nel rapporto con l'integrazione europea. Il nostro è sempre stato tra i Paesi fondatori dell'Europa comunitaria più sensibili e aperti all'autolimitazione della sovranità nazionale come elemento costitutivo della costruzione di un'Europa unita. Ciò non ha peraltro mai significato - anche per i più conseguenti fautori, fin dal 1950, di un modello d'Europa con significativi connotati sovranazionali - sottovalutare il peso degli Stati nazionali e degl'interessi nazionali, né tantomeno il ruolo delle identità storico-culturali nazionali. Fusione di interessi e condivisione di sovranità, perché l'Europa possa svolgere il suo ruolo peculiare, come soggetto unitario, e non rischiare di scivolare nell'irrilevanza, nel mondo globalizzato di oggi e di domani.
L'identità e la funzione nazionale dell'Italia unita possono dispiegarsi solo in questo quadro, solo contribuendo decisamente all'affermarsi di questa prospettiva di sviluppo nuovo e più avanzato dell'integrazione europea.
Naturalmente, noi abbiamo da fare come italiani il nostro esame di coscienza collettivo cogliendo l'occasione del centocinquantenario dell'Unità d'Italia. Possiamo farlo, non ignorando certo i modi concreti della nascita dello Stato unitario, le scelte che prevalsero nel confronto tra diverse visioni del percorso da seguire e dello sbocco cui tendere; non ignorando, anzi approfondendo i termini di quell'aspra dialettica, ma senza ricondurre ai vizi d'origine della nostra unificazione statuale tutte le  difficoltà successive dell'Italia unita così da approdare a conclusioni di sostanziale scetticismo sul suo futuro.
Le delusioni e frustrazioni che furono espresse anche da figure tra  le  maggiori del moto risorgimentale, e che operarono nel profondo dei sentimenti e degli atteggiamenti popolari, hanno sin dall'inizio costituito un problema da affrontare guardando avanti. Questo fu, io credo, l'apporto del meridionalismo che - con Giustino Fortunato, e grazie anche a illuminati uomini del nord - si caratterizzò come grande cultura dell'unitarismo critico, impegnata a indicare la necessità di nuovi indirizzi nella politica generale dello Stato nazionale la cui Unità veniva però riaffermata categoricamente nel suo valore storico.
Certo, la frattura più grave di cui il nostro Stato nazionale ha fin dall'inizio portato il segno e che ha finito per protrarsi - nonostante i tentativi, benché non del tutto privi di successo, messi in atto a più riprese - e quindi restando ancor oggi cruciale, è quella tra nord e sud. E ho già detto in quali termini essa ci si presenti ora e ci impegni più che mai. Ma altre fratture originarie si sono ricomposte:  come quella tra Stato e Chiesa, tra il nuovo Stato, che anche con il contributo degli uomini del cattolicesimo liberale nel corso del Risorgimento era stato concepito, e la Chiesa spogliata, perdendo Roma, del potere temporale. E molte altre prove, anche assai dure, sono state superate con successo dalla comunità nazionale.
Sono convinto che nell'"età della Costituente", negli anni decisivi, cioè, della ricostruzione, su basi repubblicane e democratiche, del nostro Stato unitario, venne recuperata "l'eredità del Risorgimento", dissoltasi - secondo il giudizio di Rosario Romeo - nelle "vicende della prima metà del Novecento, con le due guerre mondiali e l'avventura totalitaria". In effetti, la fine dell'epoca dei nazionalismi dilaganti e dei conflitti da essi scaturiti, consentì la riscoperta di quell'identificarsi dell'idea di Nazione con l'idea di libertà che aveva animato il moto risorgimentale. L'idea di Nazione, il senso della Patria, attorno ai quali nella prima metà del secolo scorso gli italiani si erano divisi ideologicamente e politicamente, divennero nuovamente unificanti facendo da tessuto connettivo dell'elaborazione della Carta Costituzionale.
C'è da chiedersi quanto, da alcuni decenni, questo patrimonio di valori unitari si sia venuto oscurando - anche nella formazione delle giovani generazioni - e come ciò abbia favorito il diffondersi di nuovi particolarismi, di nuovi motivi di frammentazione e di tensione nel tessuto della società e della vita pubblica nazionale. E non possiamo sottovalutare i rischi che ne sono derivati e che ci si presentano oggi, alla vigilia del centocinquantenario dell'Unità.
È indispensabile, ritengo, un nuovo impegno condiviso per suscitare una ben maggiore consapevolezza storica del nostro essere Nazione e per irrobustire la coscienza nazionale unitaria degli italiani. Dobbiamo innanzitutto - torno a sottolinearlo - attingere a una ricerca storiografica che ha dato, fino a tempi recenti, frutti copiosi e risultati di alto livello.
Ebbene, è pensabile oggi un forte impegno per riproporre le acquisizioni della nostra cultura storica, relative a quel che hanno rappresentato il Risorgimento e la sua conclusione nella storia d'Italia e d'Europa? E per collegarvi una riflessione matura su tappe essenziali del lungo percorso successivo, fino alla rigenerazione unitaria espressasi nei valori comuni posti a base della Costituzione repubblicana? Dovrebbe essere questo il programma da svolgere di qui al 2011:  un impegno che vogliamo considerare pensabile e possibile, anche perché ci sono nuove e stringenti ragioni per condividerlo.
Questo esigono le incompiutezze dell'opera di edificazione dello Stato unitario, prima, e dello Stato repubblicano disegnato dai costituenti, dopo, e le nuove sfide al cui superamento è legato il nostro sviluppo nazionale, ed è nello stesso tempo legato il nostro apporto al rilancio di un'Europa riconosciuta e assertiva nel mondo che è cambiato e che cambia. Non c'è bisogno che dica a voi quale sforzo e contributo si richieda al mondo della cultura e alle sue istituzioni. Ma l'impegno condiviso di cui parlo implica una svolta da parte dell'insieme delle classi dirigenti, un autentico scatto di consapevolezza e di volontà in modo particolare da parte delle forze che hanno, o possono assumere, responsabilità nella sfera della politica.
Spero ci si risparmi il banale fraintendimento del vedere sempre in agguato l'intento di un appello all'abbraccio impossibile, alla cessazione del conflitto, fisiologico in ogni democrazia, tra istanze politiche e sociali divergenti. È tempo che ci si liberi da simili spettri e da faziosità meschine, per guardare all'orizzonte più largo del futuro della Nazione italiana, per elevare al livello di fondamentali valori e interessi comuni il fare politica e l'operare nelle istituzioni.



(©L'Osservatore Romano 13 febbraio 2010)
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