Il Papa, gli artisti e il dialogo sulla bellezza

Quell'esaltazione dell'io
che porta alla solitudine


di Paolo Portoghesi

Il discorso che il Papa Benedetto XVI ha rivolto, il 21 novembre del 2009, agli artisti presenti in gran numero nella Cappella Sistina, appartenenti a nazionalità, discipline e tendenze le più varie, ha dato all'incontro una apertura e una dimensione di eccezionale valore. Proverò qui a descrivere le riflessioni che il discorso ha destato in me, nella speranza che possa servire ad alimentare un dibattito che ne metta in rilievo l'importanza non solo rispetto al problema dei rapporti tra arte e Chiesa, ma anche, più in generale, rispetto ai problemi della ricerca artistica nei suoi diversi campi.
Il Papa ha più volte pronunciato la parola amicizia a esprimere una volontà di riavvicinamento della Chiesa al mondo dell'arte non solo per l'aiuto che l'arte può dare al suo magistero aiutandola a rendere visibile l'invisibile, ma anche per l'utilità del dialogo tra arte e religione. La ragione che rende questo dialogo utile e produttivo è, secondo il Pontefice, che "percorso di fede e itinerario artistico" sono legati da "affinità e sintonia" perché "la bellezza, da quella che si manifesta nel cosmo e nella natura a quella che si esprime attraverso le creazioni artistiche, proprio per la sua caratteristica di aprire e allargare gli orizzonti della coscienza umana, di rimandarla oltre se stessa, di affacciarla sull'abisso dell'infinito, può diventare una via verso il Trascendente, verso il mistero Ultimo, verso Dio".
Dell'arte, Benedetto XVI ha parlato con grande competenza e passione, come poteva fare solo chi ha dedicato la sua vita a indagare gli aspetti della vita spirituale dell'uomo, considerandola non come un mezzo acquietante e consolatorio, ma come una forma di conoscenza che ha diritto a una sua piena libertà e deve, per sua natura, essere "adeguata ai tempi" e tener conto "dei cambiamenti sociali e culturali". La citazione di Braque - l'arte è fatta per turbare; la scienza rassicura - sgombra il campo dall'equivoco di un'arte adatta alla Chiesa perché volta solo a persuadere e celebrare. La Chiesa ha bisogno dell'arte non solo per incentivare la devozione, ma anche per partecipare con pienezza alle vicende della cultura nel suo svolgersi temporale e comunicare il suo "immutabile messaggio di salvezza" utilizzando i "multiformi linguaggi" che l'arte elabora nella sua storia.
L'ampia partecipazione all'incontro di artisti credenti e non credenti, ma comunque interessati al dialogo, ha confermato il ruolo che la Chiesa esercita nella società contemporanea che non è solo quello di rappresentare una confessione religiosa, ma anche quello di esprimere nella sua universalità un potente richiamo alla spiritualità e a valori ampiamente condivisi. Basti pensare in questo senso come, nella difesa della pace nel mondo, gran parte della umanità, aldilà di ogni divisione ideologica, si sia sentita rappresentata dalla ferma e coraggiosa azione di Giovanni Paolo II, durante la vicenda irachena.
Il discorso del Papa si è riallacciato all'insegnamento dei suoi predecessori, riconoscendo all'arte del nostro tempo il diritto di partecipare alla vita della Chiesa:  ma ha anche contribuito a stabilire criticamente delle condizioni, e anche in questo consiste la sua novità e attualità. Rispetto alla situazione di trentacinque anni fa, o anche soltanto di dieci anni, quanti ci dividono dalla lettera agli artisti di Giovanni Paolo II, molte cose sono cambiate. L'aurora del nuovo millennio è ormai trascorsa e i caratteri del xxi secolo si stanno già delineando non in modo unitario ma in forma conflittuale come modi contrapposti di formulare un programma per il futuro dell'umanità. Giovanni Paolo II ricordava nella sua lettera alle soglie del duemila che "Persino quando scruta le profondità più oscure dell'anima o gli aspetti più sconvolgenti del male, l'artista si fa in qualche modo voce dell'universale attesa di redenzione". L'esplorazione del negativo è stata uno dei fili conduttori della modernità e ha alimentato fenomeni artistici di grande forza e di grande spessore intellettuale, ma è giunta ormai, dopo aver assolto un compito di verità, alla involuzione manieristica, alla frivola esaltazione del nichilismo. In gran parte dell'arte contemporanea il lavoro con la sua paziente ricerca di perfezione è diventato "fatica da evitare" perché l'arte è già pronta nel mondo bell'e fatta in attesa di essere "riconosciuta" (prelevata e magari venduta) in un oggetto trovato per la strada o in un effimero evento congelato. Che senso possono avere allora  i versi di Norwid citati da Giovanni Paolo II:  "La bellezza è per entusiasmare al lavoro, il lavoro è per risorgere"?
Termine chiave del discorso del Papa è stata la bellezza, di cui gli artisti sono esortati a essere "i custodi":  un termine con cui l'arte contemporanea evita spesso di confrontarsi, recidendo ogni legame con la sua storia. "Troppo spesso - osserva Benedetto XVI - la bellezza che viene propagandata, è illusoria e mendace, superficiale e abbagliante fino allo stordimento, e invece di far uscire gli uomini da sé e aprirli a orizzonti di vera libertà attirandoli verso l'alto, li imprigiona, in se stessi e li rende ancor più schiavi, privi di speranza e di gioia. Si tratta di una seducente, ma ipocrita bellezza, che ridesta la brama, la volontà di potere, di possesso, di sopraffazione sull'altro e che si trasforma, ben presto, nel suo contrario, assumendo i volti dell'oscenità, della trasgressione o della provocazione fine a se stessa". Arte quindi come lavoro e ricerca della "vera" bellezza. Ma cosa è la bellezza? Il Papa non si esime da spiegarlo con esemplare chiarezza:  "Una funzione essenziale della vera bellezza (...) consiste nel comunicare all'uomo una salutare "scossa", che lo fa uscire da se stesso, lo strappa alla rassegnazione, all'accomodamento del quotidiano, lo fa anche soffrire, come un dardo che lo ferisce, ma proprio in questo modo lo "risveglia" aprendogli nuovamente gli occhi del cuore e della mente, mettendogli le ali, sospingendolo verso l'alto". Uscire da se stesso, soffrire  anche, per rifiutare la rassegnazione, l'accomodamento:  l'esortazione del Papa a percorrere la via pulchritudinis esclude proprio ciò che domina l'arte contemporanea che così spesso consiste nella esasperazione della individualità, nell'accomodamento alle mode, nella esaltazione degli aspetti peggiori della quotidianità. L'amicizia quindi è anche auspicio di una "autentica "rinascita" dell'arte, nel contesto di un nuovo umanesimo", parole riprese da quelle che Paolo vi aveva rivolto agli artisti nel lontano 1964, affermando anche che il mondo in cui viviamo ha bisogno della bellezza per non sprofondare nella disperazione.
Giovanni Paolo II aveva citato Dostoevskij che, nel suo romanzo L'idiota, attribuisce al principe Myskin la tesi che il mondo sarà salvato dalla bellezza. Ed è giusto ricordare che Ippolit, rivelando questa affermazione, specifica che il principe si era attribuito il titolo di cristiano. Anche Benedetto XVI ha citato Dostoevskij quando dice che l'uomo "senza la bellezza non potrebbe più vivere" perché da queste parole, che all'uomo d'oggi possono apparire insensate, emerge la terribile responsabilità di un'arte, come gran parte di quella contemporanea, che evita di cimentarsi con i grandi temi della bellezza, della salvezza e del male.
Del momento storico che stiamo vivendo il Pontefice ha offerto nel discorso un ritratto realistico: 
"Il momento attuale è purtroppo segnato, oltre che da fenomeni negativi a livello sociale ed economico, anche da un affievolirsi della speranza, da una certa sfiducia nelle relazioni umane. Per cui crescono i segni di rassegnazione, di aggressività, di disperazione. Il mondo in cui viviamo, poi, rischia di cambiare il suo volto a causa dell'opera non sempre saggia dell'uomo il quale, anziché coltivarne la bellezza, sfrutta senza coscienza le risorse del pianeta a vantaggio di pochi e non di rado ne sfregia le meraviglie naturali". Rassegnazione, aggressività, disperazione sono segni del tempo di cui l'arte si fa specchio allontanandosi dalla bellezza che "ferisce", "turba", ma, proprio per questo "richiama l'uomo al suo destino ultimo". Anche il rispetto del creato entra in questo quadro come un obbligo che si impone a chi vuole cambiare la direzione in cui si muove il mondo attuale dominato da falsi ideali. E in questo campo la via della bellezza indica la strada che l'arte dovrebbe percorrere per affiancare chi si batte per l'equilibrio e la moderazione nel rapporto con il nostro pianeta e le sue risorse. Altra cosa dalla amicizia verso gli artisti e dall'interesse verso la loro missione spirituale è però l'ammirazione espressa dal Papa nei confronti di quei momenti della storia della cultura in cui arte e Chiesa, bisognose l'una dell'altra, hanno edificato insieme i luoghi in cui il visibile raggiunge l'invisibile. La Cappella Sistina che ha ospitato l'incontro è uno di questi luoghi. "Il Giudizio Universale, che campeggia alle mie spalle - ha detto il Papa - ricorda che la storia dell'umanità è movimento ed ascensione, è inesausta tensione verso la pienezza, la felicità ultima verso un orizzonte che sempre eccede il presente mentre lo attraversa ... Michelangelo  offre così alla nostra visione l'Alfa e l'Omega, il Principio e la Fine della storia, e ci invita a percorrere con gioia, coraggio e speranza l'itinerario della vita".
Agli artisti il Papa ha rivolto a conclusione del suo discorso un semplice invito:  "Siate anche voi, attraverso la vostra arte, annunciatori e testimoni di speranza per l'umanità!" e ha aggiunto:  "Non abbiate paura di confrontarvi con la sorgente prima e ultima della bellezza, di dialogare con i credenti, con chi, come voi, si sente pellegrino nel mondo e nella storia verso la Bellezza infinita!".
Un invito al dialogo quindi tra credenti e non credenti, tra credenti di diverse confessioni e religioni, un dialogo però che abbia come fattore unificante la ricerca della bellezza, la bellezza in quanto speranza e premessa di salvezza. Un invito che non tende a sottovalutare differenze e opposizioni e tantomeno ad appianarle in un relativismo accomodante. Benedetto XVI ha seminato con le sue parole il seme della discussione, del dibattito, della contrapposizione tra un'arte che ricerca la bellezza e un'arte che sembra averne dimenticato la sfida. Ha riconosciuto che può esservi un'arte religiosa che esprime lo spirito del tempo; ma chi volesse interpretare le sue parole come un lasciapassare nelle nuove chiese per le espressioni di una indiscriminata spiritualità e religiosità commetterebbe un grave errore. Nella raccolta di scritti La nobile forma recentemente pubblicata (Edizioni San Paolo, 2009) si chiariscono molto bene i requisiti di un'arte sacra:   "È  pur  vero  -  scrive  Benedetto XVI - che non devono esserci delle norme rigide:  le nuove esperienze religiose e i doni di nuove intuizioni devono poter trovare un loro spazio nella Chiesa. Resta però una differenza tra l'arte sacra - quella che si riferisce alla liturgia, che appartiene all'ambito ecclesiastico - e l'arte religiosa in generale. Nell'arte sacra non c'è spazio per l'arbitrarietà pura. Le forme artistiche che negano la presenza del Lògos nella realtà e fissano l'attenzione dell'uomo sull'apparenza sensibile, non sono conciliabili con il senso dell'immagine della Chiesa".
Si può leggere quindi nelle parole del Papa l'aspirazione a un nuovo umanesimo e l'apprezzamento implicito per il lavoro di quegli artisti che oggi sono impegnati, andando contro corrente, nella sua costruzione, guidati da una profonda costruttiva nostalgia per la grandezza dell'arte ispirata dalla fede. Uno dei maggiori autori della storia del cinema, Ingmar Bergman, descriveva così questa nostalgia ricordando la leggenda della cattedrale di Chartres:  "È mia opinione che l'arte perse il suo impulso creativo fondamentale al momento in cui fu separata dalla fede. Fu il taglio del cordone ombelicale, ed oggi essa vive la sua sterile vita, generandosi e degenerandosi. In altri tempi l'artista rimaneva sconosciuto (...) La capacità di creare era un dono. In un mondo come quello fioriva una sicurezza invulnerabile e una naturale umiltà. Oggi l'individuo è diventata la forma più alta e la rovina della creazione artistica. La più piccola offesa o il più piccolo dolore dell'io vengono esaminati al microscopio come se fossero di una importanza eterna. L'artista considera il suo isolamento, la sua soggettività, il suo individualismo come cose quasi sacre. E così finiamo per ammassarci in un grande ovile, dove ce ne stiamo a belare nella nostra solitudine senza ascoltarci l'un l'altro e senza renderci conto di soffocarci a vicenda".



(©L'Osservatore Romano 2 aprile 2010)
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