A cinquant'anni dalla morte

Umanità e cultura
di Erik Peterson


La Pontificia Università Salesiana ha organizzato un convegno sulla figura e l'opera del teologo tedesco Erik Peterson a cinquant'anni dalla morte. Pubblichiamo qui di seguito stralci di una delle relazioni e, in basso, un resoconto della giornata a cura di uno dei relatori intervenuti.

di Paolo Siniscalco

Ho incontrato la prima volta Erik Peterson nel 1956 a Roma. Mi ero laureato all'università di Torino in lettere classiche con una tesi sul De resurrectione mortuorum di Tertulliano, tesi discussa nell'ottobre del 1955 con Michele Pellegrino, allora ordinario di Letteratura cristiana antica (dieci anni dopo, nel 1965, sarebbe stato nominato arcivescovo di Torino e poi creato cardinale da Paolo VI nel 1967).
Se ben ricordo, proprio Michele Pellegrino mi aveva consigliato di incontrare Erik Peterson. Egli abitava in via di Porta Angelica 63, quasi di fronte alla porta di Sant'Anna. Ricordo che mi accoglieva nel suo studio, pieno di carte, di estratti, di volumi, di schede (aveva raccolto nei lunghi anni di studio uno schedario "mitico", come è stato definito, di centinaia di migliaia di schede di piccolo formato, vergate a mano con una calligrafia minuta, una parte anche in caratteri gotici). Il tutto giaceva in un disordine solo apparente:  se infatti nel discorso la sua memoria gli richiamava qualche passo significativo di scrittore antico sapeva "pescare" la giusta scheda o l'estratto o il libro che meglio potesse illustrarlo.
Ricordo il primo colloquio durante il quale si interessò degli studi che stavo facendo, dandomi molti consigli e poi, con altrettanta premura mi chiese dove abitavo, se la camera era riscaldata, se il cibo era sufficiente e perfino se per il traffico della strada potevo studiare tranquillamente. Grande umanità, ammirevole umiltà assieme a una vastissima e profonda cultura furono i tratti che rivelò fin da quel primo incontro, che dovevano essere confermati da ogni altro successivo incontro:  tratti di vero maestro.
Così, poco per volta con una naturalezza e semplicità straordinaria (tenendo conto dell'enorme distacco d'età, esperienza e studio tra lui e me, allora poco più che venticinquenne), venni a conoscere non tanto le vicende della sua vita, ma il modo con cui le ricordava e le riviveva. Mi disse che suo padre non credeva in nulla, sua madre, che discendeva da una famiglia ugonotta francese, conservava un senso religioso, anche se poco accentuato. Lui era nato ad Amburgo, dove aveva visto la miseria degli uomini e dove - così mi disse - aveva sentito la litania del dolore salire al suo animo, insieme a un grande desiderio di fare del bene.
Più tardi era poi venuta la scelta dello studio teologico e la frequenza in sedi di diverse università:  Strasburgo, Greifswald, Berlino.
Tra la prima e la seconda decade del secolo scorso, in Germania dominava negli studi teologici il protestantesimo liberale, che era giunto a un criticismo assoluto. Di qui nasce nel giovane Peterson una grande delusione che lo spinge verso altre sponde. Ha però timore di avvicinare qualche prete cattolico; spesso assiste alla messa nella cattedrale di Strasburgo, nel tempo in cui come studente dimora in quella città; non comprende i riti, ma non ha "la prontezza di spirito" di domandare.
Per due semestri va in Pomerania, a Greifswald appunto, in una università di rigida tradizione protestante, ma la sua delusione aumenta nel vedere i figli di famiglie protestanti che hanno perso la fede. Si sposta poi a Berlino, dove però, per timore di perdere quel poco di fede che ha, non assiste alle lezioni di Adolf von Harnack. Ha occasione di avvicinare circoli nobili prussiani, ma vi trova artificiosità nell'espressione di certe forme di spiritualità. Tenta la via dell'esperienza mistica del neoplatonismo, ma non approda a nulla.
In quel tempo legge un commento alla prima lettera ai Corinzi di Paolo, scritto da un teologo protestante che conosceva e che aveva insegnato ad Halle; legge un passo commentato in cui la resurrezione di Cristo è posta a base della salvezza di ogni uomo. "Allora non ho più pensato a me, ma a Cristo e in questo ho trovato una luce per il mio mondo interiore".
Passò i suoi anni universitari in un clima di delusione e di ricerca dolorosa.
Peterson sintetizzava tutto in conversazioni che non seguivano uno sviluppo continuo. Erano ricordi riguardanti fatti e soprattutto stati d'animo vissuti molto tempo addietro. Avevo la netta sensazione di raccogliere in certo modo frammenti importanti di una vita vissuta da una personalità a suo modo eccezionale. E per questo dopo averlo lasciato, annotavo non solo il filo della conversazione, ma le espressioni che più mi avevano colpito, su taccuini sui quali scrivevo pure ciò che io stesso facevo in quei periodi. Di recente ho avuto la felice, inaspettata ventura di ritrovare uno di quei taccuini (purtroppo solo uno).
Le conversazioni avvenivano in maniera piuttosto singolare. Da quando un giorno Peterson seppe che ero in grado di guidare, mi propose di fare con l'automobile della sua famiglia dei giri nei dintorni di Roma. Amava molto il paesaggio della campagna romana e d'altra parte usciva con sollievo dal suo alloggio nel cuore di Borgo Pio, disturbato da un traffico che allora non conosceva come oggi un'area pedonale.
Mi disse di avere insegnato teologia nella Facoltà protestante di Bonn dal 1924 al 1928, essendo già giunto all'ordinariato. Ma la sua tormentata ricerca della fede continuava, e la via intravista nel cattolicesimo lo portò a lasciare amici, conoscenze, la cattedra e la fidanzata stessa, della quale era molto innamorato, ma ne ricordava anche lo spirito marcatamente anticattolico.
Furono quelli gli anni in cui tenne conferenze sui martiri a Colonia, a Düsseldorf e in altre città. Interventi che suonavano chiaramente antinazisti e dovevano tenersi in chiese (non era possibile altrove), dove provocavano commozione ed erano seguiti da inni religiosi che spontaneamente intonava chi vi aveva assistito.
Accanto a quei suoi ricordi nei quali, per così dire, dolorosamente si perdeva, non mancavano le molte osservazioni su argomenti della letteratura e della storia cristiana dei primi secoli, che conosceva perfettamente, e su cui portava sempre uno sguardo originale e profondo. A ben vedere, altro non erano che consigli sapienti che elargiva per l'inizio dei miei studi; consigli che qualche volta ho colto, qualche volta ho lasciato cadere per mancanza di conoscenze e di maturità scientifica, consigli che, a volte, hanno portato frutto a distanza di tempo. Consigli sulla necessità di conoscere il giudaismo e i problemi neotestamentari; sul concetto di creazione in Teofilo d'Antiochia, sulla opportunità di studiare le fonti giudeo-cristiane, di studiare l'ebraico e il siriaco, almeno una lingua semitica; sul vangelo di Giovanni e sulle fonti giudeo-cristiane che lo informano; sulla dottrina delle due vie e il rilievo che ha. Si sa che dopo avere chiesto l'aspettativa nel 1929 presso la Facoltà teologica protestante di Bonn - l'evoluzione religiosa del suo pensiero gli rendeva impossibile continuare l'insegnamento in quella sede - Peterson si convertì al cattolicesimo e, il giorno di Natale del 1930 nella basilica di San Pietro a Roma ricevette il battesimo. In quel medesimo anno, nonostante la facoltà filosofica dell'università di Bonn lo avesse nominato professore onorario e gli avesse attribuito l'incarico di insegnare Storia religiosa dell'ellenismo e Letteratura cristiana antica, decise di venire in Italia, anche per l'affermarsi del nazionalsocialismo, cui si era opposto e, pur mantenendo la cittadinanza tedesca anche quando il rinunciarvi gli avrebbe recato vantaggio, si stabilì a Roma, dove formò una famiglia numerosa.
Pio xi lo nominò professore di Storia ecclesiastica e di Patrologia presso il Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, un incarico mantenuto per molti anni, nonostante le profferte di cattedre che gli furono fatte anche dagli Stati Uniti. Ormai a settant'anni di età, di salute malferma, volle tornare nella città in cui era nato, Amburgo, e là, il 26 ottobre 1960 chiuse la sua esistenza terrena.
A seguito della conversione - che per lui significò la rottura totale del legame precedente, con la patria, con le amicizie, con gli affetti - a Roma si trovò in una situazione di isolamento e di difficoltà anche economiche. Ma nonostante ciò ebbe pace, come manifestano tante sue pagine. Un isolamento che anche a me in varia forma aveva espresso, isolamento profondo che era colmato neppure dalla rete straordinaria delle relazioni scientifiche mantenute o iniziate dopo il 1930:  da Karl Barth a Theodor Haecker, da Gerardus van der Leeuw a Urs von Balthasar, da Oscar Cullmann a Karl Ludwig Schmidt, da Anselm Stolz a Jacques Maritain, per non citare che i maggiori.
Per conformazione psicologica ed esperienza umana Peterson aveva uno sguardo sulle cose del mondo spesso velato dal pessimismo, che richiamava però un forte senso escatologico. In certo modo prevedeva ciò a cui oggi stiamo assistendo:  la supremazia della tecnica, la condizione penosa in cui versa nel mondo occidentale la cultura, specialmente in Europa, dove è in continuo declino, il predominio del capitalismo che eleva a principio assoluto la libertà economica o ancora, con una osservazione amaramente antropologica, il prevalere in tanti della parte più oscura e bestiale.



(©L'Osservatore Romano 5 maggio 2010)
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