Scoperto nel quarto centenario della morte

Un nuovo Caravaggio


Il "Martirio di san Lorenzo" rinvenuto a Roma offre l'occasione per analizzare il rapporto dell'artista con i gesuiti

di Lydia Salviucci Insolera

Quattrocento anni fa, il 18 luglio 1610, moriva sulla spiaggia di Porto Ercole Michelangelo Merisi da Caravaggio, dopo aver trascorso una delle vite artistiche più famose e appassionate, tra il successo raggiunto, l'amicizia di influenti committenti e le ultime fughe disperate nell'Italia meridionale a causa di una condanna per omicidio. L'eccezionalità della sua vita è diventata quasi leggenda, e all'inizio del Novecento addirittura materia di studio per Mariano Patrizi, l'allievo più dotato di Cesare Lombroso, tanto da dedicargli una serie di studi incentrati sul binomio genio e follia.
Ci sarebbero moltissimi modi per ricordare oggi e festeggiare Caravaggio. In questo anno ogni sua opera d'arte è stata analizzata e sviscerata attraverso mostre, articoli e occasioni di vario tipo. Originali, copie, presunti autografi, tutto l'universo dell'artista è diventato notizia mediatica; capolavori e non, sono stati rimessi in gioco per ulteriori considerazioni e dibattiti. Il catalogo delle opere certe è diventato il tema della mostra (alle Scuderie del Quirinale) più visitata a Roma in questi ultimi tempi. Per evitare di entrare in queste querelles caravaggesche, si è scelto di trarre spunto da un quadro rimasto inedito fino ad oggi, il Martirio di san Lorenzo, di proprietà della Compagnia di Gesù. Di certo è un dipinto stilisticamente "impeccabile", però non si vuole ora cadere nel facile tranello di un "Caravaggio a tutti i costi". Saranno ulteriori indagini diagnostiche e un circostanziato approfondimento documentario, stilistico e critico a fornire le risposte. Per rendere omaggio a Caravaggio non interessa tanto ora stabilire una attribuzione certa, ma seguire quelle molteplici fila legate al dipinto che, con sorprendente naturalezza, si stringono intorno ad alcuni aspetti ancora inesplorati della sua vita a Roma.
Che il dipinto sia di grande bellezza è un fatto inequivocabile. Che sia, se non altro, un caravaggesco della primissima ora, risulta alquanto evidente. Notevole è la luce che dal fondo scuro sferza e modella con bagliori improvvisi la superficie dei volumi. L'originalità della posa del santo è sorprendente:  all'apparenza quasi irriverente, san Lorenzo appare disteso a pancia in giù sulla graticola con le braccia in avanti, quasi a cercare la salvezza. Invece proprio questo volto giovane, sofferente e disperato mostra quell'umanità presente nel profondo significato teologico del martirio. La dimensione umana, espressa dallo sguardo e dal movimento della testa, tutta tesa in avanti, viene efficacemente comunicata allo spettatore, o meglio al fedele. Questa stessa sensazione si percepisce osservando le opere di Caravaggio per la cappella Cerasi a Santa Maria del Popolo. Ad esempio, nella prima versione rifiutata della Conversione di san Paolo (ora collezione Odescalchi), il santo istintivamente si copre con le mani gli occhi. L'impatto emotivo d'insieme con il corpo giacente del martire, invece, ricorda il Martirio di san Matteo nella cappella Contarelli, chiesa di San Luigi dei Francesi. Il particolare del braccio e della mano destra di san Lorenzo, inoltre, presenta lo stesso vigore di quelli di Oloferne nella Giuditta e Oloferne a palazzo Barberini. Come contrappunto compositivo, sempre nel quadro di san Lorenzo, vi sono tre personaggi che con crudo realismo fisiognomico e gestuale esaltano il pathos diffuso della scena. La torsione della schiena dell'aguzzino a sinistra, che sta svuotando la cesta con i carboni per la brace, si può accostare addirittura a quella del carnefice nella Decollazione di san Giovanni Battista nella cattedrale a La Valletta, Malta. Né biografie, né fonti caravaggesche nominano però questo soggetto, anche se il pittore affronta altri temi, sempre cruenti, in linea con le scelte religiose del tempo.
Il Martirio di san Lorenzo costituisce, infatti, un chiaro riferimento ai dettami iconografici di evidente matrice gesuitica, non a causa, però, dello specifico tema agiografico del santo diacono Lorenzo, anche se nella chiesa dei gesuiti a Venezia si trova un importante precedente:  il famoso dipinto di Tiziano della metà del Cinquecento con una straordinaria soluzione luministica. L'iconografia si ricollega, invece, alla portata teologica del tema del martirio in genere, fortemente diffuso dalla Compagnia di Gesù. Si è, infatti, già da tempo ritenuto possibile che Caravaggio, giunto a Roma nel 1592, abbia avuto modo di conoscere il ciclo dei martiri, all'avanguardia per l'epoca, affrescato da Pomarancio nella chiesa di Santo Stefano Rotondo del collegio Germanico-Ungarico (1583 circa). Il marcato realismo voluto espressamente dai gesuiti, serve a facilitare nei novizi, destinati nelle terre di missione, la comprensione del momento del martirio, trasformando la paura in accettazione del proprio stato, per il tramite della grazia, proprio come avviene nel giovane san Lorenzo. Il coinvolgimento è essenziale. Il racconto della medievale Legenda aurea, fonte base per ogni artista, viene riletto, in seguito ai dettami tridentini, con maggiore attenzione per rendere una rigorosa descrizione dei fatti. Qui la capacità espressiva dell'artista nel mostrare le mani tese del santo forse si manifesta in modo esageratamente realistico per il luogo sacro a cui il dipinto era destinato. Quale cappella dei gesuiti, infatti, avrebbe dovuto ospitarlo? Anche di questo dato non si hanno per ora notizie, lasciando così spazio a qualche ipotesi.
Nella cappella dei martiri o di sant'Andrea al Gesù, Agostino Ciampelli, entrò il 1603 e dipinse sulla parete di sinistra un Martirio di san Lorenzo. Il semplice affresco ritrae il santo con la classica posa delle braccia rivolte verso l'alto, ma l'iconografia riecheggia molto il dipinto qui esaminato, soprattutto nel particolare insolito dell'aguzzino che svuota la cesta. Il patronato era di Salustia Cerrini, moglie di Ottavio Crescenzi, della nobile famiglia romana strettamente collegata alle vicende della committenza a Caravaggio della cappella Contarelli. Questa potente famiglia viene nominata frequentemente dagli studiosi a proposito dei contatti di Caravaggio con i suoi committenti, anche se non si hanno opere dirette da riferirle, né, ad un primo spoglio dei documenti archivistici Serlupi-Crescenzi, si è trovata qualche traccia. Forse i Crescenzi - come esecutori testamentari dei Contarelli - nello stesso tempo in cui trattano con Caravaggio le tele con le scene di san Matteo, possono aver pensato a lui per la loro cappella al Gesù. Poi, però, accantonato il dipinto ottenuto, subentra Ciampelli, che ne mantiene memoria nel suo affresco. Questi, infatti, viene chiamato direttamente dai gesuiti per concludere in maniera tradizionale le decorazioni rimaste vacanti al Gesù e a San Vitale.
Se queste possono fin qui sembrare facili suggestioni, rimane sempre il legame documentario di Caravaggio con i Crescenzi, che a loro volta hanno la cappella al Gesù. Per l'ipotesi di un'eventuale committenza di Caravaggio al Gesù - come tassello finale di questo percorso inesplorato - si aggiunge ora una nuova riflessione sul famoso processo del 1603, causato dal pittore Giovanni Baglione contro Caravaggio, Orazio Gentileschi e altri che lo avrebbero diffamato per invidia, facendo circolare per Roma dei versi satirici. Caravaggio, pur ricevendo già importanti committenze religiose, avrebbe voluto per sé quella ricevuta da Baglione:  la pala d'altare del transetto destro della chiesa del Gesù, dedicato all'epoca alla Resurrezione di Gesù (attuale Cappella di san Francesco Saverio). Dalle vive parole di Caravaggio, trascritte nel verbale del processo (13 settembre 1603), si scopre così che egli conosce bene sia la chiesa sia la pittura di Baglione:  "l'ho vista altre volte con l'occasione d'andare al Giesù, ma non me ne ricordo se c'era con me altri pittori". Del perché di queste ripetute visite alla chiesa non si ha riscontro, forse potrebbero essere state motivate anche dai legami con la famiglia Crescenzi. Sempre nel verbale del processo, Caravaggio fornisce un'ulteriore informazione di natura stilistica sul dipinto di Baglione:  "Quella pittura a me non me piace perché è goffa (...) e a nessuno ha piaciuto". Più avanti invece dice che un vero pittore si può definire un "valent'huomo (...) perché sa dipingere bene e imitare bene le cose naturali". Ecco, in questa sintesi spontanea di concetti si trova la spiegazione più sincera dell'arte di Caravaggio:  è giusto accettare pure il soggetto più esageratamente realistico e simile alla natura, come farà lui stesso ritraendo anche i piedi sporchi di personaggi in primo piano (Madonna di Loreto nella cappella Cavalletti, chiesa di Sant'Agostino a Roma), purché però sia dipinto bene e non in maniera sbagliata tanto da essere considerato da tutti "goffa".



(©L'Osservatore Romano 18 luglio 2010)
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