Alessandro Valignano pioniere sulle rotte tra Giappone e Cina

Due civiltà
e un mare di risonanze


di Irene Iarocci

Esiste forse un serpente con i piedi? Ovvia la risposta, sembrano suggerire gli ideogrammi cinesi corrispondenti a "serpente" e "piede" (da-soku) cuore dell'espressione nipponica dasoku shinagara corrispondente a:  "È lapalissiano dire che...".
Dasoku shinagara Alessandro Valignano non è un Carneade tra gli intellettuali giapponesi odierni. È ammirato per aver percorso da pioniere la via dell'inculturazione, riconoscendo con acume l'importanza dell'Asia e delle sue grandi culture. Scrive lapidario nel 1582:  "I giapponesi non vogliono sapere della nostra religione se non sanno che anche i cinesi la imparano, perché li ritengono superiori nella lingua e nell'arte, anche se inferiori nelle armi". Dovette colpirlo e intrigarlo l'ambivalente incontro/scontro che, nei secoli, sembra caratterizzare i rapporti culturali tra Giappone e Cina. Comprendere la genialità con cui Valignano promosse e incoraggiò la pionieristica strategia di inculturazione e di rispetto delle culture locali, avvalendosi in Giappone di missionari italiani quali il bresciano Organtino Gnocchi Soldi e, in Cina, del maceratese Matteo Ricci, vale un'immersione nel mare di questa ambivalenza.
Valignano nota la posizione geografica periferica del Giappone e la sua tendenza a intrattenere con gli europei solo scambi commerciali. Avverte quanto siano forti invece gli interessi culturali nipponici verso la Cina. Convinto che ai gesuiti sia dato modo di contribuire a ridurre l'isolamento dell'arcipelago, il visitatore stimola i missionari affinché vi realizzino un effettivo interscambio di idee su religione, filosofia, letteratura e arte.
Come il latino, insieme al greco, innerva profondamente vocabolario, semantica e sintassi delle lingue europee, così il cinese classico e il pensiero filosofico indiano - nelle versioni in cinese classico - innervano in modo significativo vocabolario e semantica del giapponese. Ma non la sua sintassi. Le radici del giapponese, come del coreano, non sono le stesse del cinese, per secoli lingua franca dell'Asia Orientale. Lingua non tonale, il giapponese si trovò stretto con gli ideogrammi cinesi volendo rendere la musicalità polisillabica del yamatokotoba o lingua autoctona. Così, a differenza del Vietnam, della Corea e di altri Paesi dell'area, il Giappone - ricorda lo studioso Sukehiro Hirakawa, professore emerito di Culture e letterature comparate dell'università di Tokyo - inventò relativamente presto gli alfabeti sillabici kana, esemplificazione grafica degli ideogrammi cinesi importati a partire dal vi secolo, facendoli coesistere con i caratteri cinesi che più che veicolare suoni veicolano concetti. La grande maggioranza degli ideogrammi cinesi nella lingua giappponese presenta doppia lettura:  alla cinese (lettura on) e autoctona (lettura kun). Il kana svolge un ruolo chiave per far conoscere al tempo di Valignano la terminologia cristiana.
Quando Valignano giunge in Giappone, forte dell'esperienza in India e con la mente mai distaccata dall'obiettivo di promuovere la rievangelizzazione in Cina, si accorge che il Giappone si confronta con un "Altro":  la Cina, importante tramite per apprezzare la tradizione filosofico-religiosa indiana.
Il "Virgilio del Giappone" coevo a Valignano è il poeta cinese Bai Yu-i, più noto in Occidente, nella trascrizione fonetica Wade, come Po Chü-i (772-846). Per avere un'idea dei complessi rapporti tra la letteratura cinese e quella giapponese, questo poeta simbolo ha un ruolo chiave (cfr. Arthur Waley, The life and Times of Po Chu-i, London, 1949). Po era già famoso in Giappone da vivo e la sua opera ben nota attorno all'anno mille a intellettuali e aristocratici. Lo testimoniano passi del Libro del guanciale di Sei Shonagon e della Storia di Genji di Murasaki Shikibu:  entrambe le autrici erano dame di compagnia, dettaglio di rilievo come vedremo tra breve. Quanto Po fosse amato, lo testimonia l'antologia poetica sino-nipponica Wakan-Roei-shû, redatta nel 1018 da Fujiwara no Kintô e libro di testo per oltre cinque secoli. Non a caso i padri gesuiti, guidati da Valignano, la scelgono e la stampano a Nagasaki come libro di testo per apprendere il giapponese. Dei 588 poemi in cinese classico su un totale di 804 poemi, 138 sono di Po Chu-i. L'antologia rivela il raffinato e ambivalente gusto letterario dei giapponesi dell'epoca e testi teatrali No scritti quattro secoli dopo, citano versi presenti nell'antologia. Un racconto del Kokonchomonju dal titolo Oe non Tomotsuna conversa in sogno con Po Lo-t'ien narra che il XVIii giorno del x mese del vi anno Tenryaku (952) Po Lo-t'ien (pseudonimo di Po) di bianco vestito e seguito da quattro uomini in blu, appare in sogno al consigliere. Uno scambio di battute con riferimenti buddisti ed ecco sul più bello, quando il poeta fa per spiegare il motivo della visita, il consigliere si sveglia, nero di rammarico! L'aneddoto rivela quanto fosse famoso il poeta cinese nel Giappone  Heian. Fervente buddista, Po viene  deificato dallo shintoismo e venerato in un tempio, vicino Kyoto, come l'incarnazione della poesia e della saggezza. Elementi come questi dovettero lasciare intendere a Valignano di trovarsi in Giappone di fronte non a una cultura monolitica, ma a più culture coesistenti, in modo non conflittuale.
L'idea di forgiare il carattere ha radici nel buddismo e nel confucianesimo dell'Asia orientale. Anche in questo la civiltà giapponese trae l'humus dalla civiltà cinese e Valignano vi guarda con grande interesse. Scrive il maestro di punta del buddismo Zen giapponese Dogen, coevo di Francesco d'Assisi:  "Il gioiello diventa tale lustrandolo. L'uomo diventa uomo attraverso l'esercizio spirituale. Nessun gioiello grezzo scintilla. Nessun novizio alle prime armi è perseverante. L'uno va lustrato, l'altro allenato all'esercizio spirituale". Poteva un insegnamento come questo non intrigare il Visitatore che sulla scia del nipponico (lettura kun) satoru conia il neologismo spagnolo satorar per indicare la piena conoscenza di sé? Volendo risalire alla fonte dell'insegnamento di Dogen, ecco lo stesso imperativo morale nel capitolo "Musica" del Libro dei Riti cinese:  "Solo se lustrato, il gioiello diventa gioiello. L'uomo che non studia, la Via non apprende". Per la cultura nipponica, quello che gli antichi greci chiamano palìntropos harmonìe o risonanza di rimbalzo, si realizza grazie allo stretto rapporto con i classici cinesi.
"Il Giappone si trova in Oriente?". E ancora:  "La Cina si trova in Oriente?" Dasoku shinagara sì; dal punto di vista geografico, ma non da quello delle mentalità cinese e giapponese, spiega Hirakawa. Se per un occidentale e un giapponese Cina e Giappone si trovano entrambi in Oriente (..Toyo [lettura on] in giapponese, Dongyang in cinese, pronunce diverse di ideogrammi identici), per la mentalità sino-centrica cinese è l'arcipelago nipponico a trovarsi a Oriente del Paese che si sente centro del mondo, come recita il nome Zhongguo, Paese del Centro. La storiografia nipponica ricorda come alla fine del vi secolo, l'imperatore Yang-di della dinastia Sui non gradì il messaggio inviatogli dal reggente nipponico principe Shotoku, redatto in uno stile che lo poneva alla pari con l'alto destinatario. Sempre secondo Hirakawa, Giappone e Cina hanno una diversa nozione sulle rispettive posizioni geoculturali nel mondo e in particolare il sinocentrismo non è condiviso. Al tempo di Valignano, la Cina e poco dopo il Giappone con altri Paesi dell'Asia Orientale, grazie al Mappamondo di Matteo Ricci (1584) scopriva con stupore misto a curiosità di non essere, come credeva, "la maggior parte del mondo" conosciuto. Lo stesso vale per la tradizionale rappresentazione geografica cinese, secondo cui la Terra era "piana e quadrata".
Valignano in anni cruciali osserva il Giappone dalla soglia del terzo (1600-1867) dei quattro grandi storici che arrivando a tutto il xx secolo segnano in modo significativo l'influsso della lingua e della cultura cinese sulla civiltà nipponica. Gettiamo uno sguardo.
Primo periodo:  nel vi-vii secolo dell'era cristiana messaggeri, monaci, studenti vengono inviati nella Cina dei Tang. Se l'aristocrazia governa il Giappone Heian, in Cina dominano i burocrati, scelti dopo severi esami di Stato. Il predominio del cinese classico scritto, wenyanti, e la volontà di autoaffermarsi della lingua autoctona dell'arcipelago, gli yamato-kotoba, vedono compiersi attraverso la prefazione di Ki no Tsurayuki all'antologia poetica Kokinshu (905) un'operazione analoga a quella che compirà Joachim Du Bellay con la Défense et Illustration de la Langue Française nel XVI secolo. Rispetto a Corea e Vietnam il Giappone prende presto coscienza di avere un'identità linguistica da difendere. Nel comporre poemi giapponesi (uta, letteralmente:  "canto") viene vietato l'uso della pronuncia on e scoraggiato l'uso di parole giapponesi di origine cinese. L'equivalente nipponico dell'antico verbo francese enromancier, monogataru, viene usato dalle dame di corte. Capolavori della letteratura giapponese medievale sono scritti utilizzando vocaboli in lettura kun, di quasi esclusiva origine autoctona, eccezione fatta per titoli e termini tecnici legati ai riti buddisti. Nel Kokinshu, certo, la poesia è definita come la forza capace di "muovere cielo e terra e di scuotere i sentimenti dei demoni". Questa espressione, presente nella Grande prefazione del classico cinese Shijing, è ripresa in Giappone dai poeti Ki no Tsurayuki e Ki no Yoshimochi e in Corea dal poeta Kin Man'jung (1637-1692) in Sop'o manp'il. Sul piano culturale, il libro straniero più studiato resta i Dialoghi di Confucio, tra l'xi e il xiv secolo più noto ai giapponesi colti della Storia di Genji di Murasaki Shikibu, la dama di compagnia dell'imperatrice Sadako autrice del più antico romanzo al mondo, scritto in hiragana. Lo stile linguistico si adattava alla persona (uomo/donna) e al ruolo sociale dello scrivente. Argomenti ufficiali e pubblici esigevano l'uso, riservato agli uomini, del dotto kanbun in ideogrammi cinesi. I fatti privati o personali si avvalevano del linguaggio autoctono aperto alle donne, il wabun, sorta di dolce stil novo. Narra un passo della Storia di Genji che nelle ore estive l'imperatrice Sadako e la dama di compagnia aspettavano il momento di restare sole per leggere insieme, indisturbate, testi cinesi classici. Passatempo proibito alle nobildonne in una società androcentrica.
Secondo periodo:  nel xiv secolo navi nipponiche vengono inviate nella Cina dei Ming. L'influenza cinese è immensa. Forse troppo. Haku Rakuten, pseudonimo di Po, è il titolo dell'omonimo testo teatrale No attribuito al grande Zeami (1363-1443) rivelatore di quanto il drammaturgo avvertisse dominante l'influenza della cultura cinese, impersonata da un cantore di temi sociali della levatura di Po. Questo testo intriga gli studiosi odierni di culture comparate. Debole d'azione, la forza del dramma sta tutta nel come descrive in modo altamente simbolico la tensione perenne tra poesia e letteratura giapponese e poesia e letteratura cinese. Po non viaggiò mai in Giappone. Tuttavia la finzione teatrale vuole che il poeta cinese, all'inizio del testo, pronunci una autopresentazione esaltante la saggezza della civiltà cinese. Approdato sulla costa, il poeta incontra due pescatori locali e, con meraviglia, si sente salutare con deferenza dal più anziano dei due. Nasce un dialogo tutto allusivo. Haku chiede al pescatore quale sia il passatempo preferito in Giappone (la pronuncia Nippon enfatizza il fatto che il parlante è straniero) e l'anziano, con deferenti termini onorifici assenti nel linguaggio dell'interlocutore cinese, replica domandando a sua volta quale sia il passatempo più amato in Cina. "Comporre poemi", risponde Haku. "In Giappone (Nihon) ci alleniamo a comporre uta" replica il pescatore, accennando al background indiano proprio alla poesia cinese e sottolineando come i testi poetici giapponesi si nutrino della poesia cinese a sua volta permeata di cultura indiana, creando una poesia autoctona vivono in armonia tre grandi culture. Per provare la superiorità della poesia cinese, Haku Rakuten descrive in versi il panorama che lo circonda e il pescatore subito li muta in poesia giapponese di straordinaria bellezza. Stupefatto, Po si chiede come possa un uomo umile comporre versi tanto belli. In accordo con il pensiero nipponico, l'anziano spiega che non solo gli umani compongono versi ma tutte gli esseri viventi hanno il dono di "cantare". Anche gli usignoli, gli insetti, le rane negli stagni. Il pescatore, nel secondo atto, rivela di essere Sumiyoshi no Kami, divinità shintoista del mare e protettrice della poesia autoctona. Quindi interpreta la Danza del mare, muovendosi al ritmo delle onde marine. Altre divinità scintoiste si uniscono  alla  danza  del dio della poesia che alzando le maniche dell'abito solleva un forte vento che sospinge la  barca  di Haku Rakuten verso la Cina.
Valignano e i "suoi" missionari si incuneano in questo rapporto ambivalente tra i due grandi Paesi. Cercano di porsi, in termini spirituali e culturali, come un'alternativa. Non a caso toccano la corda dell'anima nipponica, yamato-damashii, rendendo in katakana la terminologia cristiana. Abbiamo parlato di poesia e al tempo di Valignano anche il termine poeshia in kana entra nell'immaginario nipponico.
Paragonando gli slogan di modernizzazione dei due Paesi, vediamo che uno dei più influenti samurai-ideologhi del secondo Ottocento, Sakuma Shozan (1811-1864) coniò la frase toyo dotoku, seiyo geijutsu ("etica orientale, tecnologia occidentale"), poi condensata in wakon yosai ("spiritualità giapponese, sapere occidentale"), variante dell'espressione yamato-damashii opposta al kara-zae, al sapere cinese nel capitolo Otome della Storia di Genji. Lo slogan cinese, zhongti xiyong, recita "l'essenziale è cinese, l'applicazione è occidentale". Malgrado i distinguo, dal punto di vista culturale le due civiltà restano ben legate.
Lo fa pensare questo splendido passo del sommo poeta giapponese Basho, finissimo cultore di lettere classiche cinesi, che in Oku no Hosomichi ("l'angusta via verso il profondo Nord") scrive:  "I mesi e i giorni sono gli ospiti di passaggio di un centinaio di generazioni; gli anni che se ne vanno e gli anni che vengono a noi sono sempre e solo viandanti". Quale splendida "risonanza di rimbalzo" leggendo questi altri versi del cinese Li Po:  "Il Cielo e la Terra / sono la via ove sostano e transitano tutte le cose - / la luce e l'ombra/ sono gli ospiti di passaggio / di un centinaio di generazioni. La nostra vita è così / simile a un sogno - Quanto a lungo l'animo / nostro resterà schiuso / alla gaiezza?".



(©L'Osservatore Romano 5 agosto 2010)
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