Giochi di lettere e scritte di strada nella Roma antica

Muri che parlano


di Carlo Carletti

"Mi meraviglio, o muro, che tu non sia già caduto in rovina, tu che sopporti il fastidio di tante scritte", admiror, paries, te non cecidisse ruina/qui tot scriptorum taedia sustineas. Così un distico elegiaco graffito a Pompei nel i secolo per ben tre volte, nella basilica, nel teatro grande, nell'anfiteatro (Corpus Inscriptionum Latinarum, iv 1904, 2461, 2487).
Una testimonianza emblematica della diffusissima e trasversale pratica della scrittura estemporanea a sgraffio che, soprattutto nei primi tre secoli dell'età imperiale, aveva invaso capillarmente tutte o quasi le città romane e con particolare incidenza - a giudicare da quanto pervenuto - Pompei, Roma, Ostia. Il presupposto fondamentale di questo straordinario fenomeno era nella vasta e capillare diffusione sociale dell'alfabetismo, un fenomeno peculiarmente proprio del mondo romano - meglio greco-romano - che, in termini quantitativi e qualitativi, si propone in generale come il più alto e irripetibile momento di circolazione di cultura scritta dell'antichità, almeno nei centri urbani dei primi tre secoli.
Le motivazioni, che sono a monte di quella che è stata definita come una vera e propria esplosione di scritture epigrafiche estemporanee, vanno senz'altro individuate nella pace sociale di cui Roma poté beneficiare dall'avvento dell'età augustea, portando con sé tutte le condizioni favorevoli alla affermazione di una società di dialogo, fondata su una gamma diversificata di canali di comunicazione, che coinvolgevano cittadini e istituzioni, individui e gruppi, individui e individui.
Leggere e scrivere non erano pratiche riservate a determinati ceti sociali, ma pratiche aperte, che trovavano la loro manifestazione più sintomatica e più tipicamente romana nei prodotti epigrafici:  non soltanto quelli pubblici, ufficiali e normativi, come le iscrizioni dedicatorie, onorarie, sacre, funerarie, votive, ma anche e soprattutto - e con un livello molto più alto di trasversalità sociale - quelli del tutto privati, estemporanei e occasionali, che noi moderni chiamiamo "graffiti" e che gli antichi definivano tituli scariphati. In queste testimonianze si scorgono agevolmente diversi gradi di competenze espressive e grafiche, che fanno emergere padronanza assoluta dello strumento grafico/linguistico o, all'opposto, il basso livello di chi era rimasto ai primi rudimenti dell'insegnamento elementare di base, appena funzionale ad articolare un messaggio seppur minimale, che talvolta non trovava altra espressione se non quella di ingenue e approssimative raffigurazioni:  improbabili ritratti, talvolta caricaturali, disegni di animali, navi, oggetti di uso comune, elementi vegetali più o meno definiti.
Nella valutazione di questa particolari performances epigrafiche non sempre è agevole distinguere - soprattutto sul piano degli esiti grafici - quali caratteri siano imputabili alla inesperienza dello scrivente e quali invece siano la conseguenza dell'impatto tra strumento e supporto nello scrivere "a sgraffio":  un'azione pur sempre estemporanea e spesso improvvisata a caldo e per di più soggetta a fattori condizionanti quali la natura e la qualità dei supporti, la posizione in cui si scriveva, l'approssimazione della tecnica di incisione eseguita per lo più con strumenti empirici.
Queste scritture libere non legate alla norma e alla tradizione che regolava i diversi generi epigrafici sia per i contenuti sia per le forme grafiche, esprimono e trasmettono sentimenti, sensazioni, situazioni del tutto individuali, connesse in larga misura alla sfera talvolta autoreferenziale di un vissuto quotidiano. A Roma, ad Ostia, a Pompei, a Ercolano, i muri esterni e interni delle domus, delle insulae, degli edifici pubblici - teatri, anfiteatri, fori, basiliche - e soprattutto dei mercati, dei postriboli, delle osterie, delle locande si ricoprono di una infinità di messaggi.
Una "letteratura di strada", che ha fissato indelebilmente nel tempo frammenti vitali della normale quotidianità di individui, altrimenti ignoti al di fuori di queste testimonianze. Sono saluti:  "Cestilia, regina degli abitanti di Pompei, dolce anima, addio" (Corpus Inscriptionum Latinarum iv 2413h); sospiri d'amore:  "Potessi abbracciarti con le mie braccia avvinte al tuo collo e baciare le tue tenere labbra" (iv 5296); disvelamento di un inganno:  "Ingannino te, oste, questi trucchi:  vendi acqua, ma tu bevi vino" (iv 3948); appunti memoriali:  "Il 30 aprile ho messo le uova sotto la gallina" (iv 6873) oppure "olive messe in salamoia il 16 ottobre" (iv 8489); arguzie:  "A chiunque mi invita a pranzo io dico salute!" (iv 1937); informazioni turistiche:  "Albergo:  qui si affitta un triclinio a tre letti con tutte le comodità" (iv 807); delicate descrizioni:  "La fontanella manda tanti saluti al suo pesciolino" (iv 4447); beffarda presa d'atto di un inconveniente non previsto, espressa in un bel distico elegiaco:  "Ospite, lo confesso, abbiamo sbagliato:  ci è scappata la pipì a letto. Se mi chiedi il motivo, ti dico:  non c'era orinale" (iv 4957).
Ma non mancano testi colti, generalmente in versi, nei quali la critica ha riconosciuto un qualche pregio letterario, come quello tracciato nella casa del famoso - a Pompei - Cecilio Secondo:  "Salute a chi ama, morte a chi non sa amare", o ancora quello tracciato dal fullo Fabio Ululitremulo (lavandaio) all'interno del suo esercizio, che rievoca la civetta (attributo di Minerva artigiana, protettrice dei fullones) ma non - evidentemente come facevano molti - l'inizio dell'Eneide:  "Canto i lavandai e la civetta, non arma virumque" (iv 9131).
I messaggi talvolta sono frutto dell'integrazione di parola e immagine come - per citare un esempio efficace e ben riuscito - si può osservare in una delicata scena rappresenta a Roma su una parete del Paedogium (la scuola degli schiavi destinati alla domus imperiale sul Palatino) che rappresenta un asinello che fa girare la macina, accompagnato dalla scritta "Lavora, asinello, come io ho lavorato:  ti farà bene".
In questo universo di scritture si incontrano, anche se sporadicamente, testimonianze grafiche di carattere non propriamente trasmissivo, che - tra autoreferenzialità ed esibizione - si propongono comunque come ulteriore indicatore della quasi naturale consuetudine della società romana con le parole scritte e con i segni dell'alfabeto, di cui si scoprono le infinite e misteriose potenzialità combinatorie:  sono i giochi letterali testimoniati già a Pompei dal primo secolo dell'età imperiale.
A Roma una scoperta archeologica dei primi anni Sessanta sotto l'attuale basilica di Santa Maria Maggiore ha rivelato una serie di ambienti riferibili probabilmente al macellum Liviae (un mercato di derrate alimentari) nel quale, oltre a un notevolissimo e multicolore calendario affrescato, sono venuti alla luce numerosi graffiti in ottimo stato di conservazione assegnabili tra la fine del iii e l'inizio del iv secolo (Filippo Magi, Il calendario dipinto sotto Santa Maria Maggiore, con appendice sui graffiti del vano XVI a cura di Paavo Castrén, Città del Vaticano 1972). Ma l'aspetto più sorprendente è che queste nuove testimonianze offrono una vera e propria antologia di giochi grafici, alcuni dei quali precedentemente ignoti. L'ambiente in cui furono tracciate questa scritte va riconosciuto con ogni probabilità in una caupona (osteria) dove gli avventori oltre a mangiare e bere trascorrevano in distensione il loro tempo scrivendo sui muri, non solo - come di consueto - i propri nomi, espressioni burlesche, insulti e oscenità, i punteggi ottenuti nei giochi con le tavole lusorie, sequenza alfabetiche (e qui anche in greco) ma anche combinazioni grafiche di qualche impegno, le quali, sul piano esecutivo, dovevano quanto meno rispettare una certa coerenza formale sia sul piano grafico sia su quello dell'impaginazione per non compromettere l'effetto del gioco letterale.
Si tratta di palindromi, cioè parole leggibili da sinistra a destra e viceversa, che mai o quasi mai veicolano un contenuto definito. Nel macellum Liviae se ne sono conservati due esemplari costruiti concettualmente sul nome di Roma:  il palindromo roma summus amor, qui documentato per la prima volta, e un quadrato magico, costituito da quattro parole leggibili non solo da sinistra e destra ma anche dall'alto verso il basso e viceversa:  roma / olim / milo / roma. I due giochi di parole, in questo caso, potevano essere apprezzati non solo per l'abile esercizio combinatorio dell'autore, il quale peraltro era riuscito a scovare due parole - summus e tenet - che rappresentano un raro esempio di palindromo perfetto (la parola letta all'inverso resta la stessa) ma anche per l'ispirazione sottesa, che lascia trasparire ammirazione e celebrazione dell'Urbs per eccellenza, appunto Roma.
Tra gli avventori della caupona presso il macellum Liviae non poteva mancare chi non avesse ricordato e scritto quello che, a buon diritto, può considerarsi come il più famoso quadrato del mondo romano:  il celeberrimo rotas / opera / tenet / arepo / sator, già noto a Pompei in due esemplari (iv 8123, 8623) e poi replicato a Dura Europos (prima del 256 circa), nell'antica Corinium in Inghilterra (tra ii e iv secolo), in un frammento di anfora di Manchester (fine ii secolo) e, successivamente, senza soluzione di continuità, riproposto fino a tutto il medioevo e anche oltre. Molti esemplari di questo misterioso quadrato trovarono infatti particolare accoglienza sulle strutture murarie esterne e interne di chiese, Abbazie Collegiate in Italia, Francia, Svizzera, Spagna, Ungheria, soprattutto perché - e questo spiega la sua lunghissima durata nel tempo - si prestava attraverso la tecnica dell'anagramma (si tratta pur sempre di venticinque lettere) a elaborare un numero infinito di letture più o meno ingegnose, che potevano spaziare dal sacro al profano, dal magico all'apotropaico.
Ed è così che su questo quadrato si sono consumate non poche energie intellettuali, con proposte interpretative che talvolta hanno rasentato la bizzarria, come quella di un illustre antichista (natione Gallus), che nel tentativo di dimostrare l'origine cristiana del rotas / opera / tenet / arepo / sator escogitò una soluzione quantomeno improbabile:  il quadrato - che conteneva la voluta lettura nascosta Pater noster / Pater noster - sarebbe nato intorno alla metà del ii secolo su ispirazione di Ireneo di Lione; sarebbe poi stato inciso a Pompei - quindi un secolo e mezzo dopo l'eruzione del 79 (sic!) - da un gruppetto di cristiani furtivamente introdottisi tra le rovine della città sepolta alla ricerca di tesori. Questa soluzione suscitò la dura reazione di una grande epigrafista - Margherita Guarducci - che anche sulla scorta delle sua profonda esperienza nello studio dei giochi letterari nell'antichità greco-romana, sottolineò saggiamente che qualsiasi sequenza letterale, soprattutto se in combinazione con altre sequenze come nei quadrati magici, avrebbe potuto sviluppare per anagramma una serie infinita di combinazioni come, a esempio:  o, pater, ores, pro aetate nostra; retro satana, toto opere asper; oro te pater, oro te pater, sanas e così via:  ciascun lettore in definitiva con un po' di fantasia e di tecnica enigmistica poteva ricavarvi molteplici e diverse letture. Ma proprio questa caratteristica costituisce il fascino nascosto e - se si vuole - senza tempo di questi giochi letterali.



(©L'Osservatore Romano 28 agosto 2010)
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