Un percorso teologico orientato al cuore della fede cristiana

Non serve inventare ma imparare a vedere


Dopo la sessione inaugurale al Pontificio Collegio Teutonico di Santa Maria in Campo Santo in Vaticano, il convegno "Erik Peterson. La presenza teologica di un outsider" prosegue il 25 e il 26 ottobre all'Istituto Patristico Augustinianum. Pubblichiamo stralci della relazione della studiosa che ha curato l'edizione delle opere di Peterson e, in basso a sinistra, stralci di altri due interventi dedicati alla riflessione petersoniana sul tema del martirio e al rapporto tra il pensiero del teologo tedesco e le lettere paoline.

di Barbara Nichtweiß

Parlando dei Trattati teologici vorrei sinteticamente parlare di Peterson come di un outsider. Non mi meraviglierebbe se proprio qualche buon lettore cattolico avesse qualche problema con i Trattati teologici; e il problema è paradossalmente che non c'è veramente alcun problema.
Si può leggere velocemente i trattati e fare una lista dei temi che Peterson affronta, ossia delle posizioni che egli sostiene:  Chiesa e dogma, concetto di Chiesa e apostolicità, liturgia e angeli, santi e martiri, critica di una teologia politica e così via, poi si passa oltre e si cerca un altro autore che affronti questioni a prima vista più interessanti e più strane, pensando di avere già conosciuto e capito tutto di Peterson. Per me in ogni caso è andata così, quando ho letto per la prima volta i Trattati teologici, ma non avevo ancora capito niente.
Ho dovuto farmi strada in mezzo a montagne di manoscritti, all'epoca ancora inediti, carteggi e una enorme quantità di letteratura secondaria per comprendere che nei Trattati teologici non c'è nulla di ovvio, ma tutto ciò che vi si può leggere ha richiesto una continua conquista, passando attraverso immani fatiche, confronti e crisi, lungo un arco di tempo di 15-25 anni.
Peterson divenne teologo in ambito protestante - si è tentati di dire "per grazia di Dio" - e non in quello cattolico che all'epoca era fortemente condizionato dalle misure di sicurezza antimoderniste e da una teologia completamente strutturata in senso neoscolastico. Peterson ha una volta descritto la teologia evangelica del suo tempo con l'immagine di un'aula scolastica, in cui tutti gli alunni urlano tra loro in modo turbolento e nessuno vuole sentire la voce dell'altro, anzi, non vuole nemmeno capirla.
In mezzo al caos di questa "aula scolastica" ha dovuto trovarsi da solo la strada che lo conducesse a quel Lògos paidagògos come egli stesso diceva, a quel maestro che tutti aspettavano. E Peterson disponeva di un bagaglio modesto quando, nel 1910, cominciò i suoi studi teologici:  in realtà solo la Bibbia e la fede ardente, fervida e piena di abnegazione di un giovane pietista.
Nello stesso tempo però questo era anche molto e si rivelò un importante criterio di orientamento per il giovane studente, che pieno di fascino e di grande rispetto studiò anche i più grandi critici del cristianesimo:  per esempio Friedrich Nietzsche, per il quale il cristianesimo e una società marcata da una morale debole e paurosa finivano per identificarsi a tal punto che ritenne di dover eliminare insieme alla morale anche tutto il cristianesimo. O Franz Overbeck, l'amico di Nietzsche, uno storico e un neotestamentarista che si era invaghito della forza di rottura escatologico-apocalittica del cristianesimo delle origini a tal punto che per lui il cristianesimo della storia era divenuto una prova inconfutabile della falsità del cristianesimo stesso.
Entrambi, sia Nietzsche che Overbeck, abbandonarono la propria epoca e contemporaneamente il cristianesimo. Anche Peterson si liberò, cercando però la via che lo conducesse a riportare alla luce il cuore del cristianesimo che giaceva sepolto da una serie di incrostazioni.
Non dobbiamo fraintendere questo atteggiamento come se fosse "intimismo" apolitico, nemmeno come ristrettezza mentale, ma si tratta al contrario di un'ampiezza addirittura cosmica (Buch von den Engeln). Per un tratto di questo percorso Kierkegaard, come mentore spirituale, gli fu di fondamentale utilità, prima che se lo lasciasse alle spalle come figura teologica di riferimento.
Allo stesso modo non ebbero lunga durata, anche se per motivi molto diversi, nemmeno le alleanze cordiali e le amicizie, come per esempio quelle con Karl Barth e più tardi con Carl Schmitt, che dovevano barcamenarsi tra correnti e decisioni contrastanti. Peterson non è mai appartenuto a una scuola "teologica" - a parte solo una breve parentesi in cui si era ispirato alla scuola storico-religionista - e non ne fondò nessuna, per quanto ne so non ha mai avuto nemmeno un dottorando.
È significativo che il percorso teologico orientato al cuore della fede cristiana abbia fatto diventare Peterson, nello stesso tempo, un outsider, una "strana figura marginale in questo eone", definizioni queste che entrambe del resto appartengono a Karl Barth. Per tutta la vita Peterson ha evitato atteggiamenti di pianificazione tattica ed astuta della propria carriera e della propria vita, aveva invece un grande talento per "scegliere sempre situazioni che non gli potevano dare alcun vantaggio", come osservava già una studentessa nel 1926. Per un professore di teologia protestante sarebbe stato conveniente essere sposato e avere famiglia; Peterson tuttavia visse fino al 1930 dividendosi tra un atteggiamento ascetico e una vita da bohémien. Per un teologo cattolico all'epoca era naturale per avere un incarico ecclesiastico di insegnamento essere preti secolari o di un ordine religioso; Peterson invece si sposò alcuni anni dopo la sua conversione ed ebbe grandi difficoltà a mantenere una famiglia che alla fine era composta di sette persone. Già da giovane libero docente, Peterson considerò come motto della sua vita l'invito di Dio ad Abramo "esci dalla tua terra e dalla terra dei tuoi padri". A questo motto egli è rimasto fedele sotto diversi aspetti, non ultimo quello geografico.
Guardando al passato scriveva che sarebbe stato un "destino benevolo" quello che lo aveva tenuto a distanza dalle sicurezze e dagli onori di questo mondo e che lo aveva fatto diventare perièco, straniero in questo mondo.
Da questo punto di vista non sorprende che Erik Peterson non ci abbia lasciato un'opera sistematica o storiografica in se conclusa. Ciò che ci è rimasto della sua opera si presenta come un ampio paesaggio, in cui - in mezzo a rovine del passato recente, cioè ciò che è rimasto delle visioni del mondo moderne sottoposte a critica - sono state riscoperte strutture di affascinante bellezza ritenute perdute o dimenticate.
Qualcosa è rimasto in uno stato embrionale, qualcos'altro è giunto a completezza in alcuni dei "trattati" e delle "note". Peterson non ha voluto creare nulla di nuovo, ma ha voluto imparare a vedere in modo nuovo e spontaneo, facendone partecipi anche gli altri, ciò che era fondato fin dall'inizio nel cristianesimo e che si trova sviluppato nella Scrittura e nella tradizione. Il fascino che molti dei suoi trattati esercitarono sui teologi allora più giovani, sia cattolici che protestanti, come per esempio Yves Congar, Jean Daniélou, Ernst Käsemann e Heinrich Schlier, è una prova che fedeltà alla tradizione e originalità non si escludono a vicenda, ma possono e devono stare insieme.
Riguardo alle difficoltà ad elaborare una teologia oggi, Peterson ha esplicitamente rifiutato di rifugiarsi nel passato di epoche lontane e di ripetere semplicemente, più o meno, ciò che è stato formulato teologicamente nel iii, iv o XVI secolo:  "Gli uomini cercano sempre formulazioni che vengono loro offerte; pochissimi pensano che si debba elaborarle da soli, che si debba imparare da soli a parlare" scriveva nel 1947 a Karl Löwith. In molti suoi scritti teologici Peterson è senza dubbio arrivato ad elaborare un linguaggio proprio, un linguaggio che è sia a tratti denso, a tratti semplice. È un linguaggio che rinuncia sia a prendere in prestito espressioni dagli stili linguistici contemporanei, che alle costruzioni astratte del gergo scientifico. Proprio per questo esso è caratterizzato da elementi di una classicità senza tempo. È significativo che solo un neologismo concettuale di Peterson sia entrato nel linguaggio teologico, per mezzo del suo studente Ernst Käsemann, e cioè il discorso della "riserva escatologica".
Charles Taylor nel suo libro L'età secolare ha descritto il processo della secolarizzazione come un isolamento progressivo in un mondo che l'uomo ha creato secondo le sue proprie misure e nel quale perciò si sente nello stesso tempo limitato ed annoiato. Se vale che in ogni epoca la forma storica della vita cristiana si deve "emancipare" dal legame con il proprio tempo, il saeculum, per acquisire una certa distanza, ciò vale anche a maggior ragione per il presente. Taylor sottolinea fortemente la necessità del lavoro pionieristico di singole persone. Secondo me non conosce Erik Peterson, che voleva vedere il nuovo in maniera creativa, bruciando ciò che è "desolato e arido" e passando per "la decomposizione e la rottura". Ma la prognosi di Taylor sull'importanza del contributo dei singoli per il futuro del cristianesimo si addice meglio a ciò che Peterson ha da dire al nostro tempo non solo come teologo, ma anche come cristiano:  "Inevitabilmente e giustamente la vita cristiana oggi cercherà (...) nuovi modi per procedere oltre gli attuali ordini verso Dio". Si potrebbe dire che noi cerchiamo itinerari nuovi e inediti. Comprendere il nostro tempo in termini cristiani significa in parte discernere questi nuovi sentieri, aperti a noi da pionieri che hanno scoperto una via attraverso il particolare paesaggio labirintico in cui viviamo, le sue boscaglie e le sue lande inesplorate, verso Dio.



(©L'Osservatore Romano 25-26 ottobre 2010)
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