La « Donna allo specchio» di Tiziano Vecellio a Milano per una mostra monografica a Palazzo Marino

Lo sguardo del mondo


Dal catalogo che accompagna la mostra Donna allo specchio. Tiziano a Milano (Milano, Skira, 2010, pagine 151), curato insieme all'esposizione da Valeria Merlini e Daniela Storti, pubblichiamo in questa e nelle pagine successive alcuni stralci dei saggi che accompagnano il visitatore a una conoscenza a trecentosessanta gradi del capolavoro cinquecentesco.
 

di Muriel Drazien

Guarda davanti per vedere dietro, la bella dama bionda appena acconciata. Abile è l'acconciatore nel tentare di mettere a fuoco l'acconciatura. "Come mi si vede?", chiederà inquieta la dama, curiosa del risultato ottenuto. Gli specchi si riflettono ma non ci fanno vedere niente. Lei dice parole non dette, domande che non pretendono nessuna risposta:  "Come potrei essere vista da qualcuno senza che mi si veda? Come vedermi da dove l'altro mi guarda? Come potrei vedermi vedendomi?". Non è infatti lo specchio al centro del quadro di Tiziano, ma lo sguardo. Lo sguardo di lei. Lo sguardo di lui. Lo sguardo del mondo.
Il narcisismo è inteso come il rapporto del soggetto con la sua immagine speculare, nella cui contemplazione ricava soddisfazione per sé stesso. Ogni quadro racconta ciò che mostra. Come nell'antico apologo riferito da Platone, la sfida di inganni vinta da Parrasio contro Zeusi, è la visione che vince. Persino l'occhio degli uccelli che cercavano di beccarla era stato tratto in errore dall'uva dipinta nel quadro di Zeusi, che a sua volta aveva subito l'illusione della tenda così  vera,  dipinta  da  Parrasio,  da credere che il quadro fosse nascosto dietro.
Non è la verità quindi che possiamo cercare nello sguardo della donna dipinta da Tiziano, ma il racconto che coinvolge la visione del pittore. Fino al punto da essere libero sia dal soggetto che lo ha immaginato che dalla sua storia. Ecco perché quello sguardo, nel doppio gioco degli specchi inventato dal pittore, molto più che in altri quadri, si situa proprio su quella linea di confine inconoscibile in cui si sublima la definizione dell'arte.
Rimane il racconto di ciò che vediamo.
C'è un quadro di Magritte in cui un uomo visto da dietro di fronte allo specchio riflette sé stesso sempre visto da dietro. Sorprende come un disegno infinito di Escher. Colpisce come un motto di spirito ben riuscito di Freud. Incomprensibile come il "Pape Satàn" di Dante. Eppure contiene una verità intuitiva che ci avvicina alla donna di Tiziano. Anche lei vuole vedere sé stessa da dietro, dal punto di vista di qualcuno che vorrebbe coglierla nella sua parte nascosta, come l'altra faccia della luna. Per dipanare il dilemma, possiamo fare riferimento a quelle pagine aurorali degli anni Sessanta nelle quali Jacques Lacan, riscoprendo la lezione di Freud, individua nella questione dello sguardo un nodo cruciale della psicanalisi, in quanto costituisce in sé uno degli oggetti che causano il desiderio.
Corriamo il rischio di un azzardo, quindi, identificando per associazione la macchia che compare nel grande specchio con la tache di cui parla Lacan per rappresentare il punto di vista di chi guarda, un voyant universale che ci fa vedere lo spettacolo del mondo:  speculum mundi. Punto di fuga dell'intero racconto, la macchia nello specchio è il luogo dove la finzione entra in rapporto con il reale. Come una finestra aperta. E con un passaggio illuminante, seppure possa sembrare arduo, Lacan dice che è proprio quel punto di vista omnivoyant - visto che tutti siamo esseri in quanto possiamo essere visti - ad appuntarsi sulla soddisfazione di una donna di sapersi guardata, ma a condizione che non la si veda.
In fondo, lo specchio dietro di lei non fa altro che riflettere un buco nero. Lo specchio funziona come una mancanza, un vuoto non colmato, perché non riflette la donna vista da dietro. Si intravedono i capelli, forse. Non c'è che quella macchia, un riflesso appunto, a significare che si tratta di uno specchio reale. Ecco quindi che la tache, la macchia, segna il vuoto insito in ogni sguardo.
La donna può essere percepita e vista solo a frammenti, per piccole illuminazioni, in un gioco di particolari, piccole parti che rimandano al tutto. Come nel riflesso della Venere allo specchio di Washington. Questo "punto di reale" nascosto è sempre presente nei quadri commentati da Lacan, nelle Meninas di Velázquez come in Amore e Psiche di Jacopo Zucchi o nell'emblematico esempio degli Ambasciatori di Hans Holbein, in cui questo buco è reso presente da un'anamorfosi, il teschio delle vanitas percepito solo da chi guarda da fuori, invisibile ai due ambasciatori, perfetti rappresentanti della vanità che ignorano ma che si apre sotto i loro piedi, in attesa del momento - mai propizio - per svelarsi.
Ecco cosa può raccontarci la Donna allo specchio di Tiziano.
C'è nel quadro un desiderio vitale del pittore significato dal suo interesse profondo per la bellezza. È il pittore che si chiede cosa stia pensando la donna che lui stesso ha dipinto. Lei rappresenta un universo femminile nascosto, fondato su una sessualità inappagata, conseguenza di uno straniamento dal mondo. È una donna sola, immersa nella sua solitudine, nel vuoto dei suoi pensieri. Un vuoto che l'acconciatore, l'uomo del quadro, nonostante gli si possa attribuire una valenza fallica, non può colmare, perché non possiede nessuna forza nel racconto. Funziona come un accessorio.
Con un salto nel tempo della storia, di certo illegittimo ma proprio per questo disvelatore di un senso, la donna di Tiziano Vecellio ci porta alle donne di Edward Hopper. Dal Cinquecento veneziano al Novecento americano. Hopper, come Tiziano, ha uno stile peculiare che si riconosce subito:  viene detto "realismo". Gli ambienti che dipinge sono reali; i colori, illuminati dal sole, risultano veri; i personaggi sono quelli che si possono incontrare non lontano da casa propria; le circostanze, quelle della vita quotidiana di ciascuno. Le persone stesse che ritrae sono reali, esistono in carne e ossa, come la moglie. Il suo nome era Josephine, anche lei pittrice. Ma anche lei nei quadri di Hopper è una donna. Una donna sola. È questa l'ossessione che il realismo di Hopper rende trasparente, come un inganno ben riuscito, un trompe-l'oeil perfetto. Meditazione sull'isolamento femminile.
La letteratura ci ha consegnato, dopo Tiziano, figure femminili, esempi animati delle donne mute di Hopper e di Tiziano, anche loro amanti della libertà. Senza andare troppo lontano troviamo subito Madame Bovary, anima irrequieta e insoddisfatta, e Anna Karenina, altra adultera infelice, come la sciagurata francese destinata a una fine tragica. Perché? C'è da interrogarsi:  quella tragica è l'unica fine, quella giusta, che gli autori riescono a immaginare, o addirittura augurare, a delle vite votate alla ricerca dell'altro? Sono donne sole, che sfidano il destino a cui sembrano consegnate. Oggetti rigettati da chi non le vuole assumere nella loro passione possessiva o da chi non ne ha bisogno per perfezionare la propria esistenza. Oggetti del desiderio, diciamo oggi dopo Freud e Lacan.
Questa è la parte intima della donna, la parte che Hopper è andato a scovare, alla ricerca di un suo desiderio. È la parte descritta da Tolstoj e da Flaubert nei loro celebri personaggi femminili. È la parte con cui si misura la rappresentazione del femminile in Tiziano.



(©L'Osservatore Romano 18 dicembre 2010)
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