Una raccolta di versi di Daniele Mencarelli

E il portantino divenne poeta


di Silvia Guidi

Leggendo le poesie di Daniele Mencarelli viene da pensare, per contrasto, come è facile, per un letterato di professione rifugiarsi nell'ironia disimpegnata, in quell'ermetismo cinico e distratto che sa volteggiare a una spanna dagli argomenti più spinosi, delicati e sofferti senza mai affondare il bisturi del pensiero dove la vita si fa più bruciante e misteriosa, lasciando le parole a pascolare nei campi tranquilli del commento sofisticato e distante, della chiacchiera colta ma volutamente superficiale, abile nel corteggiare e solleticare la vanità di chi ascolta. Per fortuna Mencarelli non ha fatto in tempo a diventare un "prestigiatore di parole" professionista, la realtà gli è venuta incontro prima; inserviente nel più grande ospedale pediatrico romano, ha scelto di raccontare la dura bellezza del suo lavoro, fissando lo sguardo sul dolore più intollerabile, la sofferenza dei bambini.
Nella raccolta Bambino Gesù, che prende il nome dal luogo in cui ha lavorato per anni (Roma, Nottetempo, 2010, pagine 91, euro 7) fotografa lo smarrimento dei genitori dei piccoli malati che di notte chiedono una sigaretta, o si aggirano nei corridoi deserti in cerca di spiccioli per una bevanda calda dal distributore a moneta, stanchissimi, increduli sotto il peso del loro dolore, o la minaccia silenziosa di quelle stanze che hanno la definitività di un verdetto senza appello:  "Passarci mi tocca ogni mattina / di fronte a quella porta verde / quante volte è stata spalancata / piena di parenti a farsi forza / e come non capire chi tra quelli / fossero padre e madre fino a poco prima / lo si capisce dal vuoto degli sguardi / persi in un punto che gli altri non vedono".
In Bambino Gesù le poesie sono scandite dal nome dei reparti dell'ospedale:  padiglione Spellman, Pio xii, Smom, Salviati. Castello dei giochi è dedicata ai piccoli down ricoverati mentre Padiglione sant'Onofrio al misterioso codice che permette a una madre di comunicare con sua figlia:  "Di tutti noi nessuno riesce a capire / la vostra lingua di piccoli tocchi / sulle mani e le braccia poi la fronte / che si sfiora con l'altra per l'assenso / o così almeno mi sembra di capire / Il portantino padre di famiglia / vi scruta ad alta voce e si domanda / come una madre resista ad una figlia / che non sente non vede non parla / "d'eroi senza nome è piena la terra" / gli dico mentre pulisco il davanzale / bollente per il sole a picco dell'estate".
"Non lo finirai il tuo tatuaggio - è l'incipit di un altro frammento della commossa Spoon River di Mencarelli - le rose bianche verdi le foglie e gli steli / t'avrebbe preso quasi metà braccio / dicevi fiero al primo abbozzo (...) Solo i gambi e le prime foglie / verranno con te sotto la terra / le rose bianche, insieme fiorirete altrove". "All'alba come di notte tardi / quanti ne entrano a testa bassa - si legge nella poesia nata nella cappella dell'ospedale - tanti sembra si vergognino / di chiederti aiuto a mani strette / tanti altri non li immagineresti / forse per gli abbigliamenti colorati / la poca dimestichezza con panche e ceri / ma quando si siedono come si vede / che con la voce rotta gli occhi gonfi / ti chiamano, ti cercano veramente".
Per caso, per volontà o per anagrafe - Daniele Mencarelli è nato nel 1974 - l'autore non ha ancora lo sguardo allenato a ritrarsi di fronte all'umano, anche quando è carico di contraddizioni e di spine; per questo lo tocca la sperdutezza di una coppia intravista per strada dall'autobus, un uomo e una donna che prima si prendono a schiaffi poi tornano a stringersi in un abbraccio ("Rimangono così mentre noi ci allontaniamo / ognuno ritorna a pensare al suo arrivo, / loro chi saranno stati quale amore / li avrà messi l'uno contro l'altro / poi insieme come singola cosa sull'asfalto"); per questo le facce degli altri automobilisti bloccati in un ingorgo non sono uno sfondo neutro ma "volti incolonnati di profilo / che di nascosto si guardano", "oggi le nostre mete aspetteranno / perché qui, a parte l'ora, niente avanza" e quelle che genericamente vengono definite "vittime della strada" archiviate in fretta, in due righe di statistiche in un telegiornale, tornano ad avere un volto, a interpellare direttamente il passante che guarda dal ciglio della strada:  "I mocassini erano gli stessi / stretti ai piedi di mio padre / l'altro stava disteso sulla Tiburtina / Solo quelli uscivano dal telo / steso bianco contro la notte (...) Non sono invincibili gli uomini/ si sdraiano lungo strade buie / smettono di vivere come fosse naturale".
Esporsi al dolore degli altri, alla sconcertante durezza della vita in ospedale ha l'effetto di rendere più permeabili alla gioia e rompere il velo di scontatezza che rende piatta e incolore la vita quotidiana. Tutto torna nuovo e nitido nella luce calda della gratitudine, come nella pace irreale di un giorno di festa:  "Cose bellissime questi occhi vedono / assolati paesi sotto il gelo dell'inverno /riposano nella mattina di domenica / invita l'Appia deserta a Roma lontana / ed eccola nitida la città grande / fino alla cupola più alta si presenta / brilla un confine di mare dall'altra parte / La mia casa è fin dove arriva lo sguardo".



(©L'Osservatore Romano 22 dicembre 2010)
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