La musica contemporanea sulla "Repubblica"

Meglio senza pregiudizi


di Marcello Filotei

In molti non amano la musica contemporanea, questo è un dato di fatto. Alcuni se ne vantano, ma questo è un problema loro. Il livello di approfondimento di certi argomenti sui quotidiani italiani è decisamente basso, e questo invece è un problema di tutti i lettori.
Il "New Yorker" ha un prestigioso critico musicale, Alex Ross, al quale viene dato spazio, e questo è un pregio. Non sempre lo stesso avviene sui quotidiani italiani, ed è un peccato. Contro tendenza "la Repubblica" dell'8 gennaio ha pubblicato un interessante approfondimento sulla musica contemporanea dell'ottimo critico del "New Yorker". A fianco è stato inserito un commento di Alessandro Baricco, probabilmente per contrasto. Forse perché il romanziere italiano ha scritto L'anima di Hegel e le mucche del Wisconsin nel quale, sintetizzando molto, condanna più o meno tutta la musica prodotta da Schönberg in poi. O perché ha girato un film secondo il quale Beethoven sarebbe un compositore sopravvalutato. Il risultato è un confronto ingeneroso tra chi i problemi cerca di affrontarli e chi è sicuramente esperto di altre cose e di certo non ama la contemporanea.
"C'è una nozione che va decisamente respinta:  quella che vede nella musica classica una fonte sicura di bellezza consolatoria. Atteggiamenti del genere offendono non solo i compositori del xx secolo, ma anche i classici che si pretende di amare. Familizzarsi con compositori quali Berg e Ligeti porta a scoprire nuove dimensioni anche in Mozart e in Beethoven", scrive Ross. Non ci sarebbe niente da aggiungere. E invece l'analisi del discussant italiano sostiene che il problema della musica contemporanea è quello di venire programmata al fianco di quella di tradizione, con la quale non avrebbe parentele.
Poche parole e il livello del dibattito crolla. Se vogliamo poi scendere nello specifico, è raro che le istituzioni italiane programmino la contemporanea accanto al repertorio. La musica colta viene per lo più proposta in festival specialistici, e questo è un limite proprio perché non se ne evidenzia il legame con la tradizione. Gran parte del pubblico lo ignora, anche quei pochi che leggono regolarmente i quotidiani, dove di solito questi eventi, nazionali e internazionali, non trovano asilo.
L'impaginazione dei programmi non è certamente il problema maggiore, lo dimostra il successo di molti progetti che seguono proprio questo principio. Quando Pollini mette Boulez dopo a Chopin - nella seconda parte del concerto, per sfidare il pubblico a non andare via nell'intervallo - di solito la cosa funziona, prima di tutto perché lui è credibile e preparato allo stesso livello tanto in Chopin quanto in Boulez.
Oltre a suonare bene, poi, bisogna anche crederci:  quando Pappano spiega fascinosamente il Boulez orchestrale che dirigerà poco dopo sedendosi al pianoforte e illustrando i momenti essenziali del pezzo, la cosa funziona e il pubblico non scappa. Chi sta a casa perché ha letto il programma e ha deciso che non gli piacerà non può saperlo.
Ma magari Boulez non è il miglior compositore vivente, come Salieri non lo era al tempo di Mozart, malgrado molti lo credessero. Il filtro della storia non può esserci nell'arte contemporanea. Bisogna sorbirsi decine di romanzi insulsi per poter godere di alcuni capolavori, andare a un gran numero di mostre per scovare qualche bel quadro, e ascoltare molta zavorra per incontrare qualche artista nelle sale da concerto. Quanto è più rassicurante sentire tutta la vita solo Chopin. Ma basta?
"Perché ci piace Pollok e la musica colta no?" è una buona domanda. Dare una risposta è un'impresa. Nessuno può pensare di averne una definitiva. Per i critici musicali - e ce ne sono di preparati - varrebbe la pena approfondire seriamente un tema di così vasta portata. Provare a capire sarebbe il compito dell'intellettuale. Meglio se senza pregiudizi come Ross.



(©L'Osservatore Romano 9 gennaio 2011)
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