«Vento di primavera» della regista Rose Bosch

Il bambino che si salvò solo nel film



di Gaetano Vallini

"Chissà se un giorno qualcuno farà un film su quello che ci è accaduto. No, credo che nessuno oserà mai, perché è disumano". Quindici anni dopo queste affermazioni, ascoltate per caso in un documentario, qualcuno ha osato:  la regista Rose Bosch, che in Vento di primavera ha voluto raccontare la storia di Joseph Weissman e dei tredicimila ebrei deportati dai nazisti nei campi di sterminio con la complicità del governo collaborazionista di Vichy. Una pagina in parte rimossa dalla memoria collettiva della Francia. Un film necessario, dunque, come possono esserlo quelle opere che, senza veli e ipocrisie, mettono popoli e nazioni a confronto con il proprio passato, per quanto doloroso e imbarazzante possa essere.
I fatti narrati sono tutti veri, come i personaggi. Parigi, estate 1942, la Francia è sotto l'occupazione tedesca. E per gli ebrei il copione è tragicamente noto. Vengono prima costretti a portare la stella gialla, poi allontanati da ogni luogo pubblico, dal lavoro, dalle scuole. Nel quartiere di Montmartre vivono molte famiglie con la stella tra cui quella di Joseph, 11 anni. Tra benevolenza e disprezzo, gli ebrei imparano a sopravvivere in una città occupata, che sembra comunque un rifugio ancora sicuro. Almeno così credono, fino alla mattina del 16 luglio, quando la loro fragile felicità s'infrange di colpo.
Il generale Pétain ha ceduto alle richieste di Hitler e così migliaia di uomini, donne e bambini di razza ebraica, tra i quali Joseph e la sua famiglia, vengono prelevati con la forza dalle loro case e rinchiusi nel Vélodrome d'Hiver, dove restano per giorni senza acqua e servizi igienici, e con pochissimo cibo. Ad aiutarli pochi parigini coraggiosi, come l'infermiera Annette Monod (Mélanie Laurent) - che assiste l'unico medico ebreo (Jean Reno) al lavoro nell'improvvisata infermeria - e un pugno di pompieri che, contravvenendo agli ordini, non solo li dissetano con gli idranti, ma accettano di consegnare in segreto messaggi per parenti e amici.
I prigionieri vengono in seguito deportati nel campo di concentramento di Beaune-la-Rolande, cento chilometri a sud di Parigi, dove ancora conservano un barlume di speranza. Ma una mattina il mondo crolla definitivamente:  i bambini vengono separati dai genitori spediti nei campi di sterminio; la promessa, cui nessuno crede davvero, è che li raggiungeranno in seguito. Così sarà. Ma non ci saranno incontri.
Con sensibilità e senso di partecipazione - inserendo in controcampo scene delle riunioni del governo di Vichy e di Hitler e della sua lugubre corte sulla terrazza del Berghof mentre, tra un cocktail e una torta, decidono la sorte di milioni di persone, e - Bosch segue i destini incrociati di vittime e carnefici da Montmartre al Vélodrome, da Beaune-La-Rolande fino all'hotel Lutetia, dove furono raccolti i sopravvissuti dopo la liberazione. E racconta, con qualche libertà sui tempi dell'azione, le storie di quanti orchestrarono e collaborarono a quell'orrore e ne portano per sempre il marchio d'infamia, la tragedia di coloro che ebbero fiducia e vennero traditi, le vicende di quelli che si opposero o tentarono di farlo con coraggio e a rischio della propria incolumità, e l'audacia di quanti riuscirono a fuggire.
Come sottolinea la stessa Rose Bosch - che durante tre anni di ricerche ha dovuto superare non pochi ostacoli, a conferma delle zone d'ombra che ancora permangono - le sfide erano molteplici:  "Come rappresentare una simile barbarie restando il più possibile vicina al senso di umanità? Come girare frontalmente, senza abbassare lo sguardo, ma senza rendere la vista delle scene intollerabile? Come mostrare la violenza senza mascherarla, ma senza nemmeno sublimarla? E come rendere giustizia ai "Giusti" di Francia, coloro che hanno aiutato gli ebrei, senza dare l'impressione di voler unicamente fornire ai francesi una coscienza pulita?".
Per affrontarle la regista assume diversi punti di vista. Quello dei bambini prima di tutto, ingenuo ma acuto. Poi quello dell'infermiera Annette Monod - emblema di quanti cercarono di opporsi a quella vergogna e riconosciuta da Israele "Giusto tra le nazioni" - che tenta di incidere nella coscienza dei soldati suoi connazionali chiedendo loro di disobbedire a quegli ordini immorali e disumani. Ma allo stesso tempo prova anche a mettere lo spettatore al centro dell'azione, affinché anch'egli possa sentirsi, per quanto possibile, umiliato, ingannato, maltrattato.
Quanto ai francesi che non restarono muti osservatori, oltre che dal personaggio di Annette, la gratitudine passa anche attraverso altre figure secondarie che compaiono nel film ma che esprimono partecipazione e condivisione del dramma degli ebrei. Del resto, come si legge prima dei titoli di coda, il mattino della retata ben dodicimila persone inserite nelle liste di Vichy riuscirono a rendersi irreperibili. In un Paese occupato e con un governo tanto condiscendente non avrebbero potuto trovare rifugio se non nelle case dei vicini che accettarono di ospitarli pur consci del pericolo che correvano.
Ma è altrettanto vero che dei tredicimila ebrei prelevati quella mattina di luglio sopravvissero solo in 25, e nessuno dei 4.051 bambini finiti sui treni. "Ci diventeremo mai grandi noi?", chiede durante la prigionia l'amico del cuore a Joseph. No, lui non ce la farà a diventare grande. Joseph sì, grazie alla fuga, e dopo la liberazione incontrerà Annette. Ma la regista vuole stemperare ancora di più l'angoscia, regalando un finale consolatorio e aperto alla speranza. Al Lutetia l'infermiera ritroverà anche il piccolo Nono, tre anni, rimasto senza genitori e al quale si era affezionato. E se c'è un'immagine simbolo dell'orrore raccontato da Vento di primavera - film intenso per quanto didascalico - è sicuramente quella di Nono mentre, dopo aver saputo che finalmente anche i bambini partiranno per ricongiungersi con i genitori, corre per primo, da solo, con il suo inseparabile orsacchiotto in mano, sotto lo sguardo imperturbabile delle guardie armate, verso il camion che dal campo lo avrebbe portato al treno.
Nella realtà quel bimbo si chiamava Jacquod. E non tornò.



(©L'Osservatore Romano 29 gennaio 2011)
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