Roberto Benigni al festival di Sanremo

L'irresistibile forza della Bellezza


di MARCELLO FILOTEI

Chi conosce la seconda strofa dell'Inno d'Italia? Pochi. Non c'è motivo di dubitare però che almeno i professori d'italiano di qualsiasi ordine e grado non la ignorino. Allora ci deve essere un motivo per cui questa conoscenza non passa ai loro studenti, come non passa quella della Divina Commedia o dei Promessi Sposi guardati con diffidenza in ogni aula. Senza dovere andare a scomodare Verdi, parola che se fosse per la scuola italiana avrebbe soltanto risvolti cromatici. La difficoltà principale allora deve essere quella di mostrare l'attualità di certe opere: perché Dante, Manzoni, Traviata, e anche Mameli e Novaro - che hanno scritto il testo e la musica dell'Inno d'Italia - stanno parlando a noi dei problemi che abbiamo oggi.
Ogni volta che viene riproposto in televisione il film L'attimo fuggente di Peter Weir, o che Roberto Benigni appare in televisione, come è accaduto giovedì al Festival di Sanremo, sulle schiene degli educatori deve correre un brivido di terrore. Ogni volta, infatti, si dimostra che è possibile offrire la bellezza a chiunque, che il bello è utile per capire il mondo (il nostro, non quello coevo degli autori dei capolavori), perché quello che è bello spesso è anche vero, autentico.
A Sanremo Benigni ha proposto una storia dell'Italia liofilizzata e scandita a partire dai versi dell'Inno nazionale, che sicuramente non sono di un livello paragonabile ai versi dei poeti sommi, ma sono belli in quanto veri, ispirati a un ventenne visionario da un ideale perseguito sinceramente fino alle estreme conseguenze.
L'eccesso benignano di retorica è ormai un cliché, ma in questo caso quasi necessario, è difficile infatti immaginare un'altra strada quando si deve riassumere il Risorgimento in mezz'ora di fronte a milioni di telespettatori. Proprio l'eccesso retorico diventa addirittura un merito se consente a chi lo utilizza di conquistare la fiducia di chi lo ascolta per poi cambiare improvvisamente registro e spiattellare una dopo l'altra citazioni altissime, buttate lì come se tutti fossero in grado di coglierle per sottolineare che tutti dovrebbero essere in grado di farlo.
Ma se retorico può essere considerato il metodo, sicuramente autentica è l'adesione emotiva al valore dell'unità del Paese suscitata. Esiste ancora un popolo capace di riscoprire valori comuni quando qualcuno sa toccare le corde giuste per ricordarglieli. Imporre ai giocatori di qualsiasi squadra di cantare l'inno nazionale è inutile. Se tutti conoscessero la propria storia, sarebbe superfluo.
Per raggiungere l'obbiettivo, il comico si diffonde anche in alcuni rudimenti dell'analisi logica, ripristinando la verità storica sul soggetto di alcune frasi: "schiava di Roma" è la vittoria e non l'Italia. Sta di fatto che mai come in quest'occasione tantissimi si sono ritrovati a tifare per Cavour, per Garibaldi, per Pellico, o a parteggiare per quel palermitano che innescò la rivolta dei Vespri siciliani uccidendo un soldato angioino che aveva offeso la moglie: in poche parole per la Bellezza della libertà. Strano però, perché è già tutto scritto nei libri. Di più, gli aneddoti citati da Benigni sono in gran parte quelli che si trovano su Wikipedia, primo risultato di un qualsiasi motore di ricerca che, peraltro, quasi nessuno si prende la briga di interpellare su questi temi.
Niente di nuovo sul piano storico, non è a Benigni che si chiede un tale sforzo. Di originale c'è l'insistenza sul concetto di Bellezza che per fortuna, come ci insegna Thomas Mann nei Buddenbrooks, "ci può trafiggere come un dolore", ma sicuramente "salverà il mondo". Non c'è altra possibilità.



(©L'Osservatore Romano 19 febbraio 2011)
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