In un'anteprima del bimestrale dell'Università Cattolica del Sacro Cuore "Vita e Pensiero"
due opinioni a confronto sui concetti che stanno alla base dell'attuale dibattito bioetico

Qual è la vita che difendiamo?


La rivista dell'Università Cattolica del Sacro Cuore "Vita e Pensiero" propone un dibattito sul tema "Bioetica, in che senso parlare di "vita"?". Pubblichiamo integralmente i due articoli messi a confronto nel numero in uscita il 9 settembre.

di Lucetta Scaraffia

Durante il viaggio in Africa del Papa, mentre ferveva la battaglia su preservativi e Aids, su una vignetta umoristica di un quotidiano italiano due personaggi si domandavano:  "La Chiesa difende la sacralità della vita?" diceva l'uno. E l'altro:  "Anche quella dei virus!". Lasciando da parte la malignità insita nella scenetta, bisogna ammettere che essa toccava un problema:  cosa vuol dire difendere la vita? Qual è la vita che difendiamo? Che cosa è la vita? Sono domande che non ci si pone di solito, preferendo lasciare nel vago tutta la questione:  proprio per questo risulta estremamente interessante e stimolante la lettura di uno degli ultimi saggi di Ivan Illich (La construction institutionelle d'un nouveau fétiche:  la vie humaine, in Oeuvres complètes, ii, 2005) che affronta di petto il problema segnalando quelli che sono, secondo lui, i pericoli che corre la cultura cattolica nel farsi difensore di questo concetto.
Secondo Illich, la Chiesa intrattiene una relazione istituzionale con una sorta di nuova entità chiamata "vita", che è diventata il soggetto di nuovi discorsi, e di cui si parla come di qualcosa di prezioso, minacciato e raro. Qualcosa che si presta a una gestione istituzionale ed esige la formazione di "specialisti" sempre nuovi. Chi usa questa nozione, scrive Illich, dimentica che essa ha una storia specifica dell'Occidente, che "l'accettazione di una vita sostanzializzata come realtà divinamente conferita si presta a una corruzione della fede cristiana".
Oggi il termine "vita" - lamenta Illich - è usato a proposito e sproposito per qualsiasi cosa, si parla di "vita umana sulla Terra" che è al centro della mitologia delle nuove scienze ecologiche, è un nuovo genere di costruzione sociale che nessuno oserebbe mettere in questione. È suscettibile di essere gestita, migliorata e valutata in termini di risorse disponibili, cosa che non faremmo mai quando parliamo di "persona". Questa "gestione" della vita ha il potere di designare norme di salute, di educazione, di sviluppo e altri idoli moderni - scrive Illich - e la mancanza in rapporto a questi "valori" è vissuta come un bisogno che, a sua volta, si traduce in un diritto.
Le Chiese, utilizzando il loro potere di creare dei miti, nutrono, consacrano e santificano questa nozione astratta di vita umana che non ha nulla a che vedere con la tradizione cristiana. Si permette così a questa identità spettrale di rimpiazzare progressivamente la nozione di "persona" alla quale è ancorato l'umanesimo dell'individuo occidentale. Questo processo di sostituzione del termine "persona umana" con il concetto astratto di vita, sostiene Illich, è iniziato quando la "mano d'opera" è diventata oggetto di studio, di promozione, di investimento e di miglioramento, cioè da quando questo concetto in sé astratto ha preso l'aspetto di una realtà compatta. Oggi i bambini imparano a pensare in termini di "risorse umane" e non di persone umane. Ed è proprio questa esperienza quotidiana di una esistenza gestita che ci porta a prendere per reale un mondo di entità fittizie come l'educazione universale, lo sviluppo sociale, il "progresso" delle cure della salute, utilizzando parole che suggeriscono qualcosa di positivo perché scientifico, moderno, avanzato.
In questo deserto semantico pieno di echi confusi, noi abbiamo bisogno di un "feticcio prestigioso" che ci permetta di presentarci come nobili difensori di valori sacri:  nel passato lo sono stati "la giustizia sociale", "la pace nel mondo", oggi il nuovo feticcio è "la vita". Ci sono i difensori della vita e i loro avversari, ma in sostanza chi gestisce la vita è la medicina:  per questo la Chiesa si è conquistata una nuova posizione sociale che offre un quadro a queste attività mediche sotto le spoglie di un discorso etico.
L'Occidente cristiano - scrive Illich - ha dato vita a un tipo di condizione umana assolutamente singolare, venuto a maturazione in quello che Ellul chiama "il regime della tecnica", tale da aprire un nuovo ruolo alle istituzioni che creano miti, moralizzano, legittimano, cioè un nuovo ruolo al concetto di "vita". Questo non presenta alcuna somiglianza con le ideologie conflittuali che la Chiesa ha affrontato nella prima fase della secolarizzazione, quando uno Stato nemico tentava di cancellarla:  ora si cerca di rendere superfluo il suo ruolo con dei poteri che promuovono l'assistenza, lo sviluppo e la giustizia. Gesù ha detto "io sono la Vita" e non una vita, pertanto essere semplicemente viventi non significa possedere questa Vita. Del resto, nell'Evangelium vitae Giovanni Paolo II dice che "la vita che il Figlio di Dio è venuto a donare agli uomini non si riduce alla sola esistenza nel tempo".
Oggi invece il termine - ribadisce Illich - viene usato per definire una sostanza, di cui il medico si assume piena responsabilità, che le tecniche possono prolungare. Ma questa idea di vita, considerata come un possesso, come un valore, una risorsa nazionale, un diritto, è una nozione esclusivamente occidentale, ricorda Illich. I movimenti cristiani di difesa della vita hanno svolto un ruolo di primo piano nella costruzione sociale di questo idolo, perché, egli denuncia, oggi incombe una tentazione deplorevole sulle confessioni cristiane:  "quella di collaborare alla creazione sociale di un feticcio che, in una prospettiva teologica, rappresenta il travestimento, come idolo, della vita rivelata".
Il termine "vita" in questa concezione sostanzializzata è entrato in scena nei primi anni dell'Ottocento, quando Lamarck forgiò il termine "biologia" per definire un nuovo campo di indagine, la "scienza della vita". Dopo Lamarck la vita non è più una questione eterna, ma la trivializzazione delle esplorazioni della ricerca scientifica per tutta una serie di fenomeni come la riproduzione, la fisiologia, l'ereditarietà, l'organizzazione, l'evoluzione, ecc.
Si crea una nuova coscienza, che non si muove più nell'ambito della comprensione della natura come vivente, come matrice da cui nascono tutte le cose:  con la rivoluzione scientifica si afferma infatti il modello meccanicista, che diventa l'unica spiegazione del mondo, operando quello che la scienziata Caroline Merchant ha definito come "morte della natura". Come spiegare la presenza di forme viventi in un cosmo morto? Secondo Illich, la risposta a questo problema è la nozione di vita sostanzializzata, che diventa una formula passepartout per colmare questo vuoto.
Ed è proprio attraverso questa nozione di vita che l'homo oeconomicus, cioè quello che il postulato utilitarista considera un essere definito dai bisogni, diviene il referente della riflessione etica. Il concetto di vita tende infatti a vuotare di contenuto la nozione legale di persona - i medici non sono più responsabili di un paziente, ma di una vita - e questo feticcio astratto ci fa credere, da un secolo, che la "preservazione della vita" costituisca un fine supremo dell'azione umana e dell'organizzazione sociale.
Quella di Illich è una denuncia pesante, ma non del tutto nuova:  per certi aspetti, infatti, Illich riprende un filo di pensiero già elaborato da Michel Foucault nelle lezioni tenute al Collège de France dal 1978 al 1979 (Naissance de la biopolitique, 2004). Anche Foucault vede all'origine dei cambiamenti che coinvolgono la vita umana il concetto di "capitale umano", che apre la possibilità di reinterpretare in termini economici tutto un ambito che fino a oggi poteva essere considerato di fatto non parte della sfera economica, come il corpo umano. Da questo momento, invece, l'economia si assume il compito di analizzare il comportamento umano e la sua razionalità. Il capitale umano, cioè la vita umana, è composto da elementi innati e acquisiti:  in teoria, il nostro corredo genetico, l'elemento innato, non costa niente ma già alla fine degli anni Settanta Foucault prevedeva che, con i progressi della genetica, avrebbe potuto diventare un bene economico.
Proprio la rarità dei buoni corredi genetici, infatti, avrebbe potuto essere oggetto di controllo, di filtro, di miglioramento sempre al fine di ottenere un capitale umano, quindi una qualità della "vita", più elevati.
Intuizioni, queste di Foucault, confermate dalla realtà attuale:  oggi le tecnologie che riguardano la vita (bio-tecnologie, nano-tecnologie) costituiscono un fattore determinante nell'economia mondiale. Chi è capace di padroneggiare le nuove tecnologie, e di esportare questo sapere, è avvantaggiato nell'equilibrio di forze mondiale.
Ma questa vita trasformata in bene economico, su quale teoria scientifica si fonda? Nel libro che ha dedicato al concetto di vita, lo studioso della scienza André Pichot (Histoire de la notion de vie, 1993), dopo avere ripercorso la storia di questa nozione nella biologia, arriva a vederne il senso ultimo nella biochimica (soprattutto nella forma di "biologia molecolare") che ha messo in evidenza la perfetta identità della natura della materia, e delle leggi che la governano, fra gli esseri viventi e gli oggetti inanimati. Ma ridurre la vita a formule biochimiche viene considerato da Pichot come il tentativo della biologia di sbarazzarsi della nozione di vita, di cui non si sa cosa fare nel lavoro scientifico. Si trova così costretto ad ammettere che il problema della specificità dell'essere vivente non è affrontato dalla biologia moderna. Pichot propone allora una definizione di essere vivente come "entità disgiunta per la sua evoluzione individuale" da quella dell'ambiente in cui vive. Per cui morire sarebbe "raggiungere il proprio ambiente ed evolvere con lui (cioè cessare di differenziarsi)". Il fisico premio Nobel Erwin Schrodinger, uno dei fondatori della biologia molecolare, nella sua opera What is life? (1944) scrive che "la vita appare essere un comportamento ordinato e regolamentato dalla materia". Quindi, già prima della scoperta del Dna (1953), situa lo studio del funzionamento del vivente al livello psico-chimico, cioè al di fuori della questione della vita stessa.
La storica della scienza Lily Kay dimostra come nella nozione di "codice", così come in quella di "programma genetico", si nasconde l'idea di decifrare la vita - Crick e Watson hanno annunciato la scoperta del Dna con la frase "abbiamo scoperto il segreto della vita" - con l'intento di dominarla, superando i limiti della morte. Il proseguimento della vita in sé diviene così un obiettivo indipendente da ogni altra dimostrazione culturale, sociale o politica. Il mantenimento e l'allungamento della vita diventano la base del bio-potere esercitato dallo Stato, a tal punto che la salute e la sicurezza vanno a costituire, all'alba del xxi secolo, la vera posta in gioco della lotta politica.
Vediamo quindi come il sapere scientifico, che incarna l'onnipotenza della ragione, distrugge il regime cristiano di immortalità trasformando la morte in una sconfitta biologica, in una malattia.
Ma allora, sarebbe questa la nozione di "vita" a cui fa riferimento il discorso cattolico? Foucault ci mette in guardia, come Illich, dalla trasformazione degli esseri umani in entità astratte ed economicamente gestibili, come il "capitale umano"; Pichot spiega quale sia, oggi, il problema della biologia nei confronti della nozione di vita:  di sicuro, nessuna delle definizioni da lui analizzate corrisponde all'idea di "vita" oggi utilizzata dal nostro contesto culturale. Se ne può dedurre che si tratta di un termine vago, dal significato facilmente manipolabile - si può dire che quella di Eluana "non è vita", ad esempio - che si presta a un controllo delle istituzioni e a un utilizzo ideologico. Niente a che vedere con il complesso - e unico - significato di persona, né tanto meno con il concetto di Vita di cui ha parlato Gesù. Non sarebbe meglio, allora, invece che di vita in senso astratto, parlare dei problemi delle singole creature - siano essi embrioni o feti, o malati senza speranza di guarigione - e difenderle, occuparsi della loro condizione fragile e delle possibilità di intervenire per proteggerle da tentativi di distruzione?
Bisogna riflettere sulla provocazione di Illich:  i cattolici devono essere capaci di trasmettere l'amore per la Vita come è intesa nelle parole di Gesù, una Vita che diventa amore per le creature sofferenti, e non continuare a diffondere e sostenere un concetto biologico astratto che è estraneo alla nostra tradizione, che spesso ci rende ideologici e poco credibili.



(©L'Osservatore Romano 9 settembre 2009)
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