Fino al 1938 l'offensiva di pace della Santa Sede guardò anche a Est

Quella mano tesa
dal Vaticano a Mosca


di Roberto Pertici

Nell'anno precedente il patto Ribbentrop-Molotov del 23 agosto 1939 l'Unione Sovietica fu assente dalla "grande politica" europea. Anche l'offensiva di pace vaticana del 3 maggio di quell'anno, di fatto, la escludeva, rivolgendosi solo a Francia, Gran Bretagna, Polonia, Italia e Germania, anche perché - ricordavo - a questa data la Santa Sede non intratteneva rapporti diplomatici con la Russia di Stalin. Eppure nei mesi precedenti, si erano verificate da parte vaticana alcune avances, certo cautissime e del tutto informali, per saggiare le possibilità di un qualche contatto con quel Paese.
Si tratta di una vicenda per molti aspetti ancora da approfondire, ma non priva di significato se la si proietta nel quadro della politica vaticana degli ultimi mesi del pontificato di Pio XI:  nota fin dagli anni Settanta soprattutto grazie alle ripetute rievocazioni di uno dei suoi protagonisti, il dirigente del Partito comunista italiano Ambrogio Donini (I comunisti e la Chiesa di fronte alla guerra, in "Il Calendario del popolo", XXVII, 1971, pp. 265-278), non mi sembra che abbia trovato posto nelle più recenti ricostruzioni di quei drammatici mesi, eppure - lo ripeto - è rivelatrice delle preoccupazioni e delle ansie che percorsero i vertici vaticani nel periodo che va dalla visita di Hitler in Italia nel maggio 1938 alla morte del Papa il 10 febbraio dell'anno successivo.
Ricordiamo solo alcuni episodi:  nel maggio il mancato incontro di Hitler con Pio XI, che lascia Roma per Castel Gandolfo; la precarietà dei rapporti fra la Santa Sede e la Germania nazista per la sua politica persecutoria nei confronti del cattolicesimo tedesco; l'incarico affidato il 22 giugno dal Papa al padre gesuita americano John La Farge di scrivere un enciclica contro il razzismo e l'antisemitismo, che avrebbe dovuto intitolarsi significativamente Humani generis unitas.
Il 14 luglio viene pubblicato in Italia il "Manifesto della razza" e il giorno dopo si ha il primo intervento critico del Pontefice nel suo incontro a Castel Gandolfo con le suore di Notre-Dame du Cénacle:  in quell'estate Pio XI tornerà ad attaccare razzismo e nazionalismo il 28 luglio, il 21 agosto, il 6 e il 18 settembre.
È in queste settimane che i contrasti fra la Santa Sede e Mussolini giungono fino al punto di rottura per la questione dell'Azione cattolica:  si trattò di una crisi, per molti aspetti, più grave di quella del 1931, senza tuttavia presentare analoghe drammatiche manifestazioni pubbliche. Nel settembre si apre la crisi internazionale che porterà alla conferenza di Monaco, durante la quale, il 29 settembre, Pio XI in un drammatico radiomessaggio offrì la propria vita a Dio in cambio della pace e inviò un messaggio al presidente cecoslovacco Benes, leader di un Paese che le democrazie stavano sacrificando.
È significativo che fra il 1938 e l'anno seguente la Santa Sede abbia sentito il bisogno di avviare una serie di sondaggi, ovviamente del tutto informali, con alcuni ambienti dell'emigrazione antifascista italiana. Abbiamo notizie di un contatto in Francia con Carlo Sforza, già ministro degli esteri con Giolitti nel 1920-1921 e poi di nuovo dal 1947 con De Gasperi:  ne accenna egli stesso in una lettera a Gaetano Salvemini del novembre 1941 a proposito del destino dei Patti Lateranensi nell'Italia post-fascista:  "Il Vaticano sa il mio pensiero perché lo dissi ad un suo alto emissario venuto a vedermi in Francia:  non trattato laterano, non concordato, non persecuzione religiosa né anticlericalismo; libertà" (la lettera fu pubblicata nel 1977 da Pier Giorgio Zunino). Ma assai più impegnativo fu il contatto con i comunisti, anche perché - come abbiamo accennato - si sperava che il partito italiano potesse servire da tramite verso l'Unione Sovietica.
L'interlocutore vaticano fu monsignor Mariano Rampolla del Tindaro, sottosegretario della Congregazione dei seminari, allora uno fra i più distinti prelati della Curia romana. Non solo per il nome che portava - era pronipote del grande segretario di Stato di Leone XIII - ma per le eminenti qualità intellettuali e la profonda pietà religiosa. Insigne studioso di sanscrito, particolarmente versato nelle lingue classiche, nella Roma degli anni Venti, se n'era fatto maestro a Salvatore Quasimodo, un giovane aspirante ingegnere proveniente da Messina, che già nutriva forti ambizioni letterarie.
Nella Messina dell'immediato dopoguerra - ancora un'immensa distesa di case di legno dopo il terremoto del dicembre 1908 - con suo fratello Federico, aveva curato l'educazione letteraria di un altro giovane siciliano, diplomato in ragioneria, permettendogli così di raggiungere la maturità classica e di iscriversi alla facoltà messinese di giurisprudenza:  Giorgio La Pira - è di lui che si parla - doveva riconoscergli un ruolo anche nel complesso cammino della propria conversione che sarebbe culminato nella Pasqua del 1924.
Il prelato siciliano contava importanti amicizie ai vertici della Segreteria di Stato:  in particolare assai stretto era il suo legame col sostituto monsignor Montini, testimoniato dallo scambio epistolare pubblicato nel 1990 (Una rara amicizia. Giovanni Battista Montini e Mariano Rampolla del Tindaro. Carteggio 1922-1944, a cura di Salvatore Garofalo per l'Istituto Paolo VI. Lo avrebbe ricordato lo stesso Montini, ormai cardinale arcivescovo di Milano, scrivendone a Quasimodo all'indomani dell'assegnazione del premio Nobel:  "Mariano Rampolla è stato per lunghi anni anche a me incomparabile amico di studi, di conversazione, di ministero, di preghiera, amico dell'anima; e lo porto nel cuore con affettuosa memoria, con devota riconoscenza, con attesa di prossimo incontro" (Milano, 25 gennaio 1960).
Il contatto fu stabilito da un altro giovane amico di monsignor Rampolla, il trentenne Fausto Marzi Marchesi, appartenente alla borghesia cattolica romana, che negli anni precedenti aveva soggiornato a lungo nella capitale francese, conquistandosi la fiducia di alcuni esponenti dell'emigrazione comunista:  la preparazione dell'incontro durò circa un anno, ma la data definitiva fu fissata solo dopo la visita di Hitler a Roma.
A metà dell'estate del 1938, monsignor Rampolla lasciò dunque il Vaticano per la Svizzera, dirigendosi nel cantone di Friburgo, che era la meta abituale delle sue vacanze. Il 3 agosto spediva una cartolina da Cournillens all'amico Montini e nei giorni successivi saliva all'abbazia di Valsainte. Qui dovevano raggiungerlo due uomini che provenivano invece da Parigi:  si trattava di due "rivoluzionari di professione", esponenti di punta dell'emigrazione comunista italiana in Francia. Uno, Ambrogio Donini, era stato allievo di Ernesto Buonaiuti all'università di Roma e si era subito distinto come un promettente storico del cristianesimo (nel 1926 aveva pubblicato una monografia su Ippolito di Roma); anche l'altro, Emilio Sereni, studioso di problemi agrari e di storia dell'agricoltura fra i più eminenti della sua generazione, sembrava avviato a un'importante carriera scientifica. Ma entrambi, nel corso del 1926, avevano aderito al partito comunista, passando poi alla clandestinità e all'esilio:  nella Parigi della metà degli anni Trenta, curavano i rapporti fra il loro partito e gli ambienti intellettuali, e - specie Donini - anche quelli col mondo cattolico.
In quella inquieta estate, quando una nuova guerra sembrava alle porte, questi due importanti dirigenti comunisti non si sarebbero mossi dalla capitale francese se non avessero annesso notevole importanza all'incontro con il monsignore siciliano. D'altronde i comunisti erano stati i primi a superare il risentimento - assai diffuso nell'emigrazione antifascista - per la conclusione dei patti del Laterano e a tornare a un approccio realistico, non puramente punitivo, alla questione dei rapporti fra Stato e Chiesa in Italia.
Come succedeva sempre nella loro politica, era stata una svolta della politica sovietica a segnare il cammino:  il VII congresso dell'Internazionale comunista del 1935 aveva lanciato una politica di larghe intese fra le forze "democratiche" - inclusi, qualora fossero stati disponibili, gli stessi cattolici - in funzione antifascista. All'avanguardia nella nuova politica era stato il partito francese:  grande scalpore, e non poche apprensioni, aveva suscitato la "mano tesa" ai cattolici da parte di Maurice Thorez nel messaggio radiofonico del 17 aprile 1936, in vista delle elezioni che avrebbero portato alla vittoria del fronte popolare in Francia. Ma passi analoghi erano stati compiuti anche dal partito italiano, con una serie di impegnativi documenti, in cui si era proclamato "il rispetto assoluto delle opinioni religiose e la difesa della libertà di coscienza delle masse" e la difesa più sincera dei valori della famiglia e della pace:  su questa base si giudicava indispensabile stabilire "contatti permanenti e fraterni con i dirigenti delle organizzazioni cattoliche".
È noto che fu anche per rispondere a queste insidiose avances da parte del comunismo internazionale che Pio XI aveva pubblicato nel marzo 1937 l'enciclica Divini redemptoris sul "comunismo bolscevico ed ateo che mira a capovolgere l'ordinamento sociale e a scalzare gli stessi fondamenti della civiltà cristiana", in cui si era ribadita e articolata la tradizionale condanna dell'ideologia e della "statolatria" comunista. Ma evidentemente - di fronte all'aggravarsi della situazione italiana e internazionale - si stava avvertendo comunque il bisogno di un qualche canale per sondare le posizioni del più attivo fra i partiti antifascisti e per ricercare eventuali contatti anche con la potenza sovietica:  d'altronde - si trattava di una posizione tradizionale della diplomazia pontificia - per salvare alcuni valori fondamentali ed evitare un male maggiore, si potevano ricercare e mantenere contatti anche coi più insidiosi avversari della Chiesa.
È difficile supporre che quella di monsignor Rampolla fosse un'iniziativa assolutamente personale e isolata e che nessuno in Segreteria di Stato ne fosse stato preventivamente informato:  è probabile invece che almeno Montini e forse anche il suo diretto superiore, il cardinale Pacelli, ne fossero a conoscenza. Altre trattative precedenti, destinate poi - a differenza di questa - ad andare in porto (si pensi a quelle sui Patti Lateranensi) erano iniziate in via del tutto informale fra interlocutori che non appartenevano al personale diplomatico:  così Rampolla poteva avere avuto una qualche autorizzazione a quell'incontro, con l'avvertenza che la Santa Sede non doveva sembrare in nessun modo coinvolta nella sua iniziativa.
Di cosa parlarono nei loro colloqui quegli uomini così diversi? Ancora Donini ha più volte sottolineato la concordanza dei loro giudizi sulla gravità della situazione internazionale e sui pericoli di guerra e i sondaggi del monsignore siciliano per verificare la sincerità delle aperture comuniste. Poi una sua domanda, che non poteva mancare (la stessa - come s'è visto - che sarebbe stata rivolta negli stessi mesi a Sforza):  quale sarebbe stato l'atteggiamento del Partito comunista nei confronti della Chiesa e della Santa Sede, in caso di una caduta del fascismo e di una sua assunzione di responsabilità di governo? E dei Patti Lateranensi cosa sarebbe successo? Donini e Sereni assicurarono una politica di assoluto rispetto verso la Chiesa, il mantenimento del Trattato del 1929, ma previdero che il crollo del fascismo avrebbe segnato la caduta del regime concordatario (com'è noto, poi, l'atteggiamento comunista - ma anche quello di Sforza - sarebbe stato improntato ad una ben maggiore disponibilità).
Alla fine del colloquio, a bruciapelo, Rampolla chiese ai due comunisti se il loro partito fosse disposto a sondare il terreno a Mosca, in vista di eventuali contatti fra la Santa Sede e il governo sovietico per la normalizzazione dei rapporti diplomatici. Si trattava di riprendere le trattative che soprattutto Eugenio Pacelli, allora nunzio in Germania, aveva condotto negli anni Venti e che si erano interrotte tra il 1928 e il 1929, quando Stalin si era sentito ormai sicuro del proprio potere all'interno dell'Urss e aveva ripreso in grande stile la sua politica antireligiosa. Donini e Sereni risposero assicurando che avrebbero segnalato questa disponibilità, ma che non avevano nessun modo di intervenire nella politica estera sovietica.
L'incontro dell'agosto 1938 non ebbe poi alcun seguito. Donini ne attribuiva la responsabilità al rovesciamento operatosi nella situazione internazionale con i successivi accordi di Monaco; ma chiamava in causa anche il mutamento degli equilibri interni al partito comunista e l'inizio del proconsolato stalinista di Giuseppe Berti, che - di lì a poco - avrebbe ripreso la polemica antivaticana. Ricordava anche di averne scritto una minuta relazione per i vertici del partito che, tuttavia, non era mai giunta nelle mani di Togliatti:  solo nel novembre successivo, gliene avrebbe riferito, riscuotendo il suo pieno consenso. Tuttavia aveva fatto pervenire direttamente da Parigi, ai vertici del governo e del partito sovietico, un estratto di quella relazione, che riguardava i rapporti tra Vaticano e Unione Sovietica. Il tramite era stato "il compagno tedesco che seguiva allora in Francia, per conto del Komintern, il lavoro editoriale dei principali partiti comunisti (...) egli venne poi rinchiuso dai francesi in un campo di concentramento e abbandonato in mano alla Gestapo, dopo l'invasione hitleriana". Potrebbe trattarsi di Willi Münzenberg, il grande organizzatore della propaganda comunista degli anni Trenta in Europa occidentale. In quei mesi il suo legame con Mosca si stava spezzando. Avrà realmente inoltrato a Mosca quella relazione? Sarebbe importante che oggi essa potesse riemergere dagli archivi sovietici.



(©L'Osservatore Romano 26 settembre 2009)
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