Dopo quarant'anni i «Meridiani» ripropongono «Vita di un uomo. Tutte le poesie» di Giuseppe Ungaretti

Un grido strappato alla sintassi


di Claudio Toscani

Con la riproposta, a quarant'anni di distanza, di Vita di un uomo. Tutte le poesie (Milano, 2009, pagine cliv-1.435, euro 55), sono quattro i "Meridiani" che Mondadori ha dedicato a Giuseppe Ungaretti (nel 1974 uscì Saggi e interventi e, nel 1989, Album Ungaretti). Se il volume del 1969 era stato realizzato per la cura di Leone Piccioni, allievo del poeta e critico di gran classe, questo di oggi esce dall'attenzione di un altro studioso di rara finezza e pietra miliare di riferimento esegetico, Carlo Ossola (con la collaborazione di un equipaggiato gruppo di esperti). In più, l'attuale edizione della creativa eredità ungarettiana vanta fertili aggiunte:  rinnovo e aumento degli apparati bibliografici e critici, folta sezione di inediti, cronologia assai più dettagliata, indici storici e altre tecniche appendici.
Testimone e coscienza d'un secolo, Ungaretti (1888-1970) non uscì a piena luce se non pochi anni fa e già parecchi dopo la sua morte, data la smisurata forza suscitativa dei suoi versi, il totale rinnovamento da lui posto in atto della scrittura e del destino della poesia italiana. Una sorta di esitazione, se non di sospetto, ha gravato a lungo sul poeta del mistero:  sul poeta, insomma, cristiano. Lui che aveva ribaltato i canoni della scrittura e della stesura poetiche, più in rispetto alla tradizione che per segno eversivo, e - onesta ingenuità della modestia - per "dire in fretta ciò che sentivo", causa la guerra, con le poche parole che "avessero avuto un'intensità straordinaria di significato". Il verso franto e frastagliato, però, più che con un veloce dettato è in ordine con la precarietà della vita, un punto di luce a fronte del brancolante buio delle ore di guerra.
Nasce così la poesia di Ungaretti:  nella verticale e linda ossatura che tutti sappiamo, volta a volta giudicata come sublimazione della retorica o tecnicismo assoluto; incanto fonico o dispotismo ritmico-musicale, mentre è in realtà il culmine estremo di una sofferta dizione della vita, dei sentimenti e del tempo, tensione e grido strappati alla sintassi in microcosmi semantici con la leggerezza di una foglia nel brusio dell'esistenza. Non solo, ma poesia di pervasiva presenza, a ogni strofa o rigo o lemma, di una biblica sostanza che dal possente dettato veterotestamentario scheggia frammenti di luminosa, analogica quintessenza; di scarna ma creaturale preghiera ("La poesia è quel lampo che fa sentire nell'uomo - nel suo perire - la verità del suo essere immortale"). Canto scolpito per l'eternità, insomma, che l'introduzione di Carlo Ossola iscrive in un continuum ispirativo, sorta di reazione a catena di un riscoperto universo di parole che, nel fermentante magma di tutta un'esistenza poetica, sono state fatte vibrare, sino all'abisso, nei loro etimi e nella loro musicalità. In particolare, nella sua smagliante analisi, Ossola si distingue per citazioni rare, scovate con filologica perizia, sbrogliando minacciose pur se recenti incrostazione critico-culturali, illuminando fonti, debiti, richiami, mediazioni e invocando la possente valenza di alcune rivedute varianti e ritrovati inediti, insospettate epifanie dell'anima oltre che della scrittura, "salute lucente" rimasta nascosta e riscattata.
Senza obbligante appoggio a una cronologica scaletta che riproponga quella bibliografia delle opere incardinata, come si sa, su una minima e pur monumentale sequenza di titoli, Carlo Ossola preferisce affrontare l'opera ungarettiana in toto (ricordando le parole del poeta stesso:  "Sono un frutto/ d'innumerevoli contrasti di innesti"), in uno con la "vita di un uomo" (di agostiniana memoria). Isolando sillabe ("leopardiani specchi d'infinito") e traendo scintille verbali o figurali dalla roccia della lingua, Ungaretti si pone fuori sia dalle estenuazioni del decadentismo, sia dai fotofobici interni dei crepuscolari; sfiora sì e no il futurismo, ma opera lui la vera rottura della metrica tradizionale. Prima di essere contagiato da altri autori o correnti, suscita dalla sua pagina versi di personalissima incandescenza dispositiva legata ad altrettanto originale e imperfettibile conquista di significati.
"Scusatemi - scriverà nei Saggi - di scavalcare così di frequente il piano dell'anima per tracciare la strada della tecnica, o viceversa. Ma sono così diversi i piani? Non sono esse, forma e sostanza, quando si tratta di vera poesia, fuse l'una nell'altra per medesima necessità? Insieme fuse, non le trasporta a commuoversi un medesimo furore?".
Interrogata a partire dai suoi incunaboli e poi, via via, durante tutto il suo tribolato e variantistico divenire, la poesia di Ungaretti è finalmente contemplata, in questo "Meridiano", alla lente plurifocale di una piena, completa analisi:  nella sua prosciugata letteralità come nei suoi slarghi mitologici; sotto la magnetica urgenza della forma come nel corso delle sue verità; nei suoi labirinti di assenze e presenze; nelle sue costanti di stile, tra costituenti metrici, parlanti silenzi, connubi tra fisicità ed empito emozionale, tra infernale e divino, innocenza e peccato, visibile e invisibile.
Nessuno come Ungaretti fu maestro in libertà ritmica e melodica, disintegrazione strofica e arcana sillabazione del verso, combustioni assonantiche e abbaglianti metafore.
Poggiando, ma da nomade, sull'alveo più profondo della poesia europea, tra compagni di strada quali Apollinaire, Breton, Salmon e Cendras (memore del coup de dés mallarmeano, ma anche dell'ardent sanglot di Baudelaire, che per apparente scanso del sacro e reale perdita dell'innocenza, diventa qua e là culla di un orante sentimento religioso), finisce per trovarsi ben presto, e da stanziale, ai confini della morte e dell'assoluto.
Convocando, nella sua introduzione, alcuni grandi del pensiero (Platone e i platonici, da un lato, Bergson, dall'altro), più Agostino e Pascal; assodata la spiritualità della poesia ungarettiana, Ossola punta ad assegnarle l'eternità dell'arte, l'immortale contemplazione del bello e una fondante meditazione cristiana. Infatti, dentro gli abissi della coscienza, nei deserti della solitudine creativa, nelle fonde fratture della storia, accanto alla Genesi, o a un Giobbe, risuonano i Salmi. Ancor prima che un Leopardi (sia pure visto quasi come un Qoélet), si avvertono i battiti di un Miserere, o di un De profundis.
Opera-vita, cioè esistenza-poesia:  un mondo che per Ungaretti fu colmo di dolori, cui la stessa scelta-dono della conversione (1928), il momento del riscoperto Dio dell'incarnazione, della comunione, della pietà, fu di altalenante conforto, nel senso che in lui permasero, più che la memoria delle pene patite, le domande di fondo:  una per tutte, perché la bontà divina permette la sofferenza, il male e la morte. Capisce di non poter attribuire al Creatore l'insensatezza delle creature, sa che nel sacrificio di Cristo sta il senso della vita, del mondo, della storia. Per questo ogni sua parola cerca, o cela, ma quasi sempre mostra, la sottostante sinopia del travaglio spirituale, il vasto sgomento del mistero che la regge.



(©L'Osservatore Romano 12 dicembre 2009)
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