L'arcivescovo Ravasi ricorda l'amico giornalista

Enzo Biagi, un uomo «naturalmente cristiano»
semplice e rigoroso

Gaetano Vallini


Un uomo "naturalmente cristiano", fortemente legato alle sue radici, amante di quella semplicità che non vuol dire banalità, ma rigore morale. L'arcivescovo Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, ricorda così, a caldo, al nostro giornale l'amico Enzo Biagi, il noto giornalista e scrittore morto poco dopo le 8 di oggi, martedì, a Milano, a 87 anni.

Lei ha coltivato una profonda amicizia con Biagi. Come lo ricorda?

In primo luogo c'è certamente la figura del giornalista e dell'uomo di cultura. Fin dal primo nostro incontro a Milano è cominciato un dialogo su alcuni temi comuni che però lentamente si è spostato su un livello religioso, anzi direi spirituale-esistenziale. Perché Biagi amava moltissimo ricordare il suo passato, le sue radici, e queste avevano un forte imprinting religioso. A partire dalla madre che l'aveva formato secondo un modello di vita cristiana. Ma era anche legato all'ambiente bolognese, perché ricordava con grandissimo affetto e ammirazione alcuni preti. La nostra amicizia è nata così, articolandosi in una serie di tappe e di incontri significativi.

Ce ne racconta i più importanti?

Prima di tutto alcuni incontri con amici che avevano la sua stessa sensibilità, che si ponevano cioè problemi, interrogazioni di tipo religioso e spirituale, ma che erano notoriamente laici. Ma soprattutto ci sono state le vicende personali di Biagi. Prima la morte della moglie, Lucia, la donna della sua vita, cui era legatissimo. L'aveva sepolta in un piccolo cimitero sotto l'Appennino e lui vi andava col vento delle colline, con l'orizzonte saturo, trovando lì un contatto con la trascendenza. Poi l'altra grande tragedia:  la morte della figlia Anna, che è stata per lui un trauma profondo. In questi momenti il nostro legame ha acquistato un significato e un'intensità particolari ed è approdato a un elemento che costituiva quasi il nostro riferimento costante, il momento più importante:  la messa che celebravo per la moglie e per la figlia nella chiesa di San Sepolcro collegata alla Biblioteca Ambrosiana. Era commosso tutto il tempo, non solo per il ricordo delle persone care, ma soprattutto per la celebrazione in quanto tale, l'elemento spirituale che era sempre presente. Direi che lo si può definire veramente un uomo naturaliter Christianus, pur con tutti i suoi limiti. Il gesto forse più significativo è stato quello del settembre scorso. Mi ha chiamato sapendo che lasciavo Milano. Aveva già qualche difficoltà dal punto di vista fisico e mi ha chiesto di andare a casa sua. Sono stato un pomeriggio intero con lui. Ha ripercorso la sua vita e più che in altri momenti si è soffermato sulle sue radici, sulla formazione umana e religiosa che aveva ricevuto. In quell'occasione, ora lo posso dire, mi ha detto:  "E adesso io voglio fare la confessione generale della mia vita". Si è confessato quasi come fosse un suggello alla nostra amicizia, perché sentiva che non ci saremmo rivisti, ma anche perché avvertiva l'avvicinarsi della resa dei conti pur avendo ancora una grande voglia di vivere.

Nei giorni scorsi lei è andato a fargli visita in ospedale. Come lo ha trovato?

Ancora vigile. La mia visita è stata una sorpresa, il regalo più inatteso:  non immaginava di vedermi ancora. Abbiamo recitato insieme il Padre nostro e l'Ave Maria. Ha voluto che fossero presenti anche le figlie e che gli impartissi la benedizione. Poi mi ha dato appuntamento un mese dopo a casa sua.

Passiamo al giornalista e scrittore. Biagi ha raccontato con passione e competenza un'epoca segnata dalla seconda guerra mondiale, dai totalitarismi e da tanti altri conflitti. Ma amava ancor più raccontare gli uomini. Ha incontrato i protagonisti della storia, così come i semplici testimoni. Che cosa colpiva delle sue interviste?

Da un lato, per il suo tipo di scrittura essenziale, giornalistica anche nei libri, cercava molto l'aspetto umano del personaggio. Con l'abilità che aveva riusciva quasi sempre ad aprirsi un varco e attraverso questo dava anche un giudizio. Le sue interviste, dunque, non è che fossero così "oggettive". Intervistava con rispetto e sensibilità, ma secondo la sua prospettiva, che era chiara, e il personaggio a volte ne usciva malconcio. Questo perché non era solo un giornalista, ma anche testimone di un'epoca.

Biagi era anche un attento osservatore della realtà italiana, che ha raccontato con acume e senso critico. Ma qual era la sua vera Italia?

Era un'Italia fatta di persone semplici e rigorose. Lui stesso riconosceva che qualche volta non lo era stato neppure lui. Ma sia nei grandi uomini politici - e ne stimava alcuni, in particolare della sua generazione, quelli che si opposero al fascismo e che si impegnarono nella ricostruzione nell'immediato dopoguerra - sia nelle persone di più modesta origine, lui trovava un elemento nodale del quale denunciava la perdita soprattutto nelle nuove generazioni:  la semplicità. Semplicità che voleva dire rigore morale, avere dei parametri per giudicare. Citava parametri etici anche laici, tuttavia, ne sono convinto, riteneva che il Decalogo - si ricorderà l'omonima trasmissione televisiva con l'arcivescovo Ersilio Tonini - dovesse essere la stella polare anche dell'etica laica.

Negli ultimi anni, dopo l'allontanamento dalla Rai, Biagi è divenuto un simbolo della libertà d'informazione in Italia. Come giudica la sua personale battaglia per riaffermare questa libertà?

Se si esaminano con oggettività gli interventi che ha fatto su questo tema notiamo che sono stati tutto sommato abbastanza castigati. Per lo più la vicenda l'hanno cavalcata altri, comprensibilmente. A muoverlo era soprattutto la necessità in primo luogo fisica di intervenire, di lavorare liberamente. Sapeva che senza giornalismo, che era la sua vita, non poteva vivere. Togliergli questa opportunità voleva dire farlo morire. Dall'altra parte sentiva il suo impegno come una necessità in un mondo che vedeva muoversi alla deriva. Anche in passato ci sono stati modelli materialistici, ma erano vissuti con coscienza. Oggi, invece, sono vissuti per deriva. Si è battuto perché non ci fosse solo un giornalismo che registra i fenomeni, proponendoli come modelli in modo acritico.


Biagi, dunque, era profondamente convinto della necessità di un'informazione responsabile. Qual è la sua lezione?

Da un lato amava entrare nel campo in prima persona. Pur avendo intorno persone che gli fornivano materiali, non ha mai costruito un articolo sulla base di ciò che gli veniva messo a disposizione. Voleva informazioni di prima mano che poi vagliava con il suo filtro. Così, anche quando andava in televisione, le domande non erano mai quelle preparate in precedenza. Venivano fuori all'improvviso e sembravano calibrate. Dall'altro lato, apparentemente in contraddizione con quanto detto, amava la citazione. Diceva:  se una cosa è già stata detta bene in passato è inutile cercare un altro modo per dirla. Era cioè convinto che non s'inizia mai da zero, ma che siamo eredi di una tradizione. Per questo, pur nella sua popolarità, il suo era un giornalismo colto.

L'etica professionale che lo ha contraddistinto può valere come riferimento per l'informazione nel mondo globalizzato?

Credo che molti la considerino un po' superata, perché adesso ciò che domina l'informazione è soprattutto l'aggressività. Si cerca non tanto di scoprire il personaggio, nei suoi limiti, ma possibilmente denudarlo e farlo cadere. E qui la televisione è stata decisiva. Ritengo, tuttavia, che un giornalismo come quello di Biagi, elegante, rigoroso e non privo di senso critico, dovrebbe essere recuperato almeno nella carta stampata.



(©L'Osservatore Romano 7 novembre 2007)
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