A colloquio con il patriarca Michel Sabbah in visita "ad limina" con i vescovi latini delle regioni arabe

La testimonianza dei cristiani nella Terra di Gesù

Nicola Gori

Essere testimoni di Gesù nella sua terra. Questa è la vocazione dei cristiani che vivono in Terra Santa. E questa è anche "la ragione principale per la quale - ha detto il patriarca di Gerusalemme dei Latini Michel Sabbah rispondendo all'intervista rilasciata a L'Osservatore Romano - i cristiani non lasceranno mai la Terra Santa".

Con il Papa parlerete anche di questa speciale testimonianza nella visita "ad limina"?

Gli parleremo anche di questo, ma soprattutto gli parleremo della quotidianità della nostra missione nella Terra Santa. Gli parleremo certamente dell'opera di catechesi nel Medio Oriente, nella Terra Santa. Una catechesi di vita cristiana accettata, autentica, perché siamo convinti che ogni prete, ogni credente o è cristiano sul serio o non sarà nulla. Questo vuol dire che deve credere, deve accettare la sua fede per poter essere coinvolto nella vita della società. E la nostra è una società che se per certi aspetti vive nel dialogo tra le religioni, cristianesimo, ebraismo e Islam, d'altra parte vede svilupparsi nel suo seno guerra, violenza, terrorismo, occupazione, oppressione e ingiustizia.
Ecco, con il Papa parliamo semplicemente di quello che viviamo, di quello a cui aspiriamo. Benedetto XVI del resto conosce bene la situazione della Terra Santa. Conosce bene in quale situazione di conflittualità e di instabilità sociale e politica vive il suo popolo. Ci sono dei fatti di vita concreta dentro questo quadro. Per esempio, abbiamo avuto delle difficoltà per ottenere i visti di ingresso per quanti, del nostro clero, provengono da fuori Israele:  dalla Giordania, dalla Palestina, dal Libano, dalla Siria.

Qual è l'attuale situazione dei cristiani nei territori soggetti alla vostra giurisdizione?

I territori del Patriarcato comprendono Israele, Giordania, Palestina, Cipro. I cristiani presenti in Israele, Giordania e Palestina sono arabi per lingua, cultura e storia. A Cipro i cristiani sono greci, ci sono alcuni cattolici di rito latino che sono alcune migliaia; i maroniti che sono un po' più numerosi, circa cinquemila. Ci sono anche dei turisti che risiedono temporaneamente nell'isola. Per questo, la vita cristiana e l'azione pastorale a Cipro è molto particolare. La pastorale negli altri tre Paesi è comune perché i cristiani sono tutti arabi e il Patriarcato promuove un sistema di catechesi, di scuole. Abbiamo anche il seminario per le vocazioni sacerdotali. In questi tre paesi i cristiani sono quattrocentomila per una popolazione totale di quindici milioni di persone.

Che cosa si può fare per contrastare il fenomeno dell'abbandono della Terra Santa da parte dei cristiani?

Ci sono tre condizioni:  la prima la pace, con la stabilità politica. Appena vi sarà una stabilità politica, ci sarà anche la stabilità dei cristiani, nessuno lascerà il paese e quelli che lo hanno lasciato ritorneranno. Purtroppo, non sappiamo quando si realizzerà questa stabilità politica, solo Dio lo sa. Un secondo punto è l'educazione dei cristiani, la loro coscienza di avere una vocazione specifica ad essere cristiani, cioè testimoni di Gesù nella sua terra. Essi sono chiamati ad essere cristiani lì e non altrove nel mondo. Alcuni cominciano ad accettare questa vocazione, a percepire bene la dimensione e il significato di questa presenza proprio in Terra Santa. Il terzo punto è l'organizzazione della carità nella comunità cristiana. Si tratta di promuovere aiuti per la difficile vita quotidiana o in progetti di alloggi per aiutare singoli giovani e coppie a trovare la casa e a rimanere nel paese. Noi lavoriamo in queste direzioni:  materiale e spirituale. In quella spirituale, nel prendere coscienza della propria vocazione. Per la pace facciamo tutto quello che possiamo. Amiamo i nostri cristiani come i musulmani e gli ebrei, per intraprendere la strada di una vera pace, che ammetta l'uguaglianza di due popoli, israeliani e palestinesi, con gli stessi doveri e gli stessi diritti, stesso rispetto e mutuo riconoscimento. C'è anche uno sforzo cristiano importante nel costruire la pace nella nostre società israeliana e palestinese in Terra Santa.

Nella terra che è sacra per le tre grandi religioni monoteiste, oggi è ancora possibile  un  dialogo  con  ebrei  e  musulmani?

Il dialogo è possibile e deve essere possibile. Se qualcuno dice che è impossibile, deve renderlo possibile, perché sono popoli che vivono insieme e devono dialogare insieme. Il fatto di esser insieme nella Terra Santa è un fatto storico. È la storia che ci ha radunati tutti insieme, cioè la provvidenza di Dio. E' il Signore della storia che ha permesso, in questi duemila anni, che le tre religioni vivessero così a contatto di gomito. Questo vuol dire che Dio ci chiama a parlare insieme, benché le religioni siano differenti. E difatti c'è un dialogo di vita nello stato di Israele vero e proprio, dove non c'è l'occupazione:  ci sono ebrei, palestinesi, musulmani e lì si sviluppa l'amicizia. Vi è un ambiente amichevole di collaborazione in tutti i campi della vita. Ci sono anche alcuni casi di matrimoni misti di ebrei con musulmani e di ebrei con cristiani. Dialogare è possibile. Nei territori occupati il dialogo può essere un po' più difficile, perché si tratta di una questione più politica; è un'occupazione imposta al popolo palestinese. Eppure esiste una certa forma di dialogo sia a livello politico, sia tra le persone a livello di lavoro e interreligioso. È stato costituito un consiglio dei capi religiosi di cui fanno parte due gran rabbini, tra i quali il gran rabbinato, il gran giudice musulmano e tutti noi cristiani, tredici capi delle tredici confessioni presenti a Gerusalemme. Ci incontriamo, parliamo, riflettiamo sul conflitto, sulla vita quotidiana, sulle difficoltà per giungere a visioni comuni riguardo al problema del terrorismo, della violenza, dell'insicurezza, del riconoscimento dello stato di Israele e dell'indipendenza dello stato palestinese, perché possiamo giungere un giorno, come credenti davanti a Dio, a una visione comune.

Tra gli stessi cristiani non mancano incomprensioni e tensioni. In questa situazione, come è possibile offrire al mondo una testimonianza di pace e di riconciliazione?

A Gerusalemme i cristiani sono divisi in tredici confessioni. Tre patriarcati, greco ortodosso, latino e armeno ortodosso; poi ci sono altri dieci arcivescovi o vicari patriarcali. Noi cattolici siamo sei, secondo i differenti riti:  latini, melchiti, maroniti, siri, armeni e caldei. Ci sono poi cinque chiese ortodosse:  greci, armeni, siri, copti, etiopici. E infine due confessioni protestanti:  anglicani e luterani. I rapporti tra noi sono buoni, ci incontriamo spesso. Il ritmo non è regolare, ma è quasi una struttura come di un'assemblea, di un consiglio. Il segretario è un pastore anglicano che convoca le riunioni nel patriarcato greco ortodosso. Parliamo di tutti gli argomenti che riguardano i nostri fedeli. Per Pasqua e per Natale redigiamo un testo comune che leggiamo a tutti i fedeli. A volte facciamo delle dichiarazioni comuni su fatti concreti. Abbiamo per esempio preparato un documento su Gerusalemme e sulla natura della città, sul concetto e sul significato cristiano della città.



(©L'Osservatore Romano 18 gennaio 2008)
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