A colloquio con padre Joseph Agius, rettore dell'Angelicum

Far parlare san Tommaso qui e ora

di Monica Mondo


Angelicum è il nome di una piazzetta nel centro di Roma, tra il Quirinale e piazza Venezia:  uno slargo, una rampa, un antico monastero benedettino, trionfo d'arte barocca, che cela un chiostro e un giardino impensati (recentemente un sindaco, in cerca di spazi, ne rimase ammirato. Ma ci sono restauri importanti, costosi, con un po' di aiuto... si può fare!). Qui, dal 1932, Angelicum è il nome con cui è conosciuta la Pontificia Università San Tommaso d'Aquino, che ha origine dallo studium medievale dell'Ordine Domenicano, e poi dal Collegio italo-spagnolo fondato da un vescovo peruviano nel 1580. Padre Joseph Agius, rettore dell'Università, è un uomo alto, forte, cordiale; la carnagione scura, in contrasto col candore dell'abito, tradisce l'origine mediterranea:  Malta, la sua terra. Racconta di una famiglia grande, religiosa, con un papà impiegato, ma "intellettuale" per gusto e curiosità; di zii e parenti di mamma che erano piccoli imprenditori in macelleria, un lavoro e una mentalità che proprio non attiravano un ragazzino irrequieto e poco dotato in matematica. "L'idea di stare tutto il giorno in un negozio, e poi far di conto! Ho sempre fatto fatica nelle materie tecniche, a me piacevano la storia, la letteratura, le lingue".

Ne conosce molte?

Tutti i maltesi sono trilingue, fin da bambini:  la lingua locale, l'inglese, l'italiano. Il latino era obbligatorio alle scuole secondarie. In seguito, per studio, ho imparato il greco, l'aramaico, l'ebraico. Per vivere, francese, spagnolo, tedesco.

Ma torniamo al ragazzino riottoso alla cassa contabile di famiglia. Affascinato invece dalla sapienza dell'amico di casa più caro, un frate domenicano, appunto. Il primo dei buoni maestri che gli diedero la passione per l'insegnamento, e per le materie umanistiche, che sceglie di approfondire, con la vocazione religiosa, proprio all'Università dell'Ordine, l'Angelicum, dove si ferma a insegnare, da più di trent'anni.

Ho avuto la fortuna di studiare con padre Garrigou Lagrange, che rappresentava la fama di questa Università, nel periodo preconciliare. A Gerusalemme ho avuto tra i miei professori padre Roland Devaux, Padre Pierre Benoit, e Padre Jerome O'Connor, cugino del cardinale inglese. Con loro mi sono specializzato in esegesi biblica.

Da studente assiste alla visita di Giovanni XXIII, che il 7 marzo 1963 col Motu proprio Dominicus Ordo concede il rango di "Pontificia" alla sua Università. Da professore riconosce - in una tesi di laurea in latino su san Giovanni della Croce, autografa, conservata ora con reverenza - la profondità spirituale di Papa Wojtyla, che ha studiato in quelle aule tra il 1946 e il 1948. Da rettore si confronta quest'oggi con la Lettera alla Diocesi e alla città di Roma sul compito urgente dell'Educazione ai fedeli di Roma di Papa Benedetto XVI.

Credo che dietro questa Lettera ci sia una preoccupazione costante del Papa per il relativismo, la mancanza di valori assoluti, e che voglia affrontare questo problema partendo dai giovani, proclamando un'altra visione dell'uomo a fronte dello scetticismo riguardo alla verità, o al disinteresse per la verità.

È una crisi culturale o una crisi della ragione?

La ragione, ha detto parlando a questa Università Giovanni Paolo II, è "ridotta a ruolo strumentale, escludendo dalle sue competenze la dimensione morale e quella trascendente". La ragione non può scoprire tutta la verità. Bisogna credere, per capire. La ragione non risponde a tutte le nostre domande, almeno non in modo del tutto soddisfacente. Ci sono piccole speranze, è vero, ma resta un vuoto nel cuore dell'uomo che desidera il bene assoluto.

Padre Agius è autore di una delle conferenze in Santa Maria Maggiore sull'enciclica Spe salvi.

Ho ricordato in quell'occasione che la vita mi ha dato tanto, ben più di quanto potessi immaginare. Questo capita a tutti, se siamo sinceri. Ma poi ho citato san Tommaso, che parla del desiderio più grande, il desiderio naturale di vedere Dio, che Dio stesso ha impiantato nel cuore dell'uomo. La Beatitudine perfetta, che non può rimanere insoddisfatta. È inevitabile allora che tutti i valori che ci orientano nella vita siano stabiliti da Dio stesso.

Il desiderio di Dio oggi non viene neppure più negato con rabbia, semplicemente pare che non interessi, che non ci riguardi.

Mi viene in mente Giovanni Paolo II, il suo commento alle decisioni del Parlamento europeo di escludere il riferimento alle radici cristiane nella Costituzione europea. Si possono nascondere, ebbe a dire il Papa, ma storicamente la cultura, la civiltà europea è impregnata di valori cristiani. Si può scegliere di ignorare liberamente quel che è tramandato dalla civiltà cristiana. Ma non so fino a che punto è possibile. L'Occidente è cristiano, anche se secolarizzato.

Cosa significa rinnovare, fare propria la tradizione? Voi siete eredi di una grande tradizione culturale:  che responsabilità sente?

Parto sempre da san Tommaso, ma mi spiego con tre esempi. Le mie lezioni:  io insegno Antico Testamento, parlo magari del Pentateuco, delle sue diverse tradizioni, tutte tese non a raccontare storicamente quel che è avvenuto a Mosè, per esempio, ma a parlare di Mosè tenendo conto del loro tempo e delle esigenze della comunità.

La  Chiesa:  quale il ruolo del suo Magistero?

Far parlare Cristo di nuovo, qui e ora. E questo avviene anche per i movimenti laici, di idee:  il giorno in cui non riuscissero a far parlare il loro fondatore, sarebbe la loro fine. Noi domenicani per quel che riguarda la tradizione tomistica, facciamo la stessa cosa. Tenendo conto dei problemi dei credenti, della società civile, del magistero della Chiesa, vogliamo far parlare san Tommaso di nuovo. Ma cerchiamo nel deposito della tradizione i principi da utilizzare per una proposta che aiuti l'uomo.

Questo limita anche i rischi di un'accademicità pura.

Ma non esiste l'accademicità pura; perché quando si parla del Bene, del Vero, del Bello, non c'è anche un'incidenza sulla vita dell'uomo? Anche se la materia può parere solamente teorica, la ricerca del bene assoluto ci riguarda nel quotidiano. Non credo che esistano materie puramente teoriche.

Lei è un maestro severo? Il rapporto maestro-discepolo è un incontro di libertà, e il riconoscimento di un'autorevolezza che permette di sottoporsi a un'autorità.

Parlo dell'istituzione, più che di me stesso. Di me bisogna chiedere ai miei studenti. Sulla scia di quel che stava succedendo alla fine degli anni '60, in Francia e in Italia, quando abbiamo fatto la stesura dei nostri statuti, abbiamo dato voce agli studenti nella gestione dell'Università, e siamo stati i primi a farlo. Nei vari consigli di facoltà gli studenti hanno la rappresentanza del venti per cento. Nel senato accademico c'è uno studente per ogni facoltà, e il presidente dell'associazione degli studenti. Gli studenti poi partecipano a tutte le elezioni delle autorità accademiche, dei decani e del rettore. Fin dall'inizio abbiamo considerato la nostra istituzione come una "comunità" accademica.

Così è nata l'Università nel Medioevo.

E infatti il rapporto tra professori e studenti è buono, abbiamo fama di questa familiarità in ambito accademico. Non amicizia:  il confronto è sempre fra maestro e discepolo. Ci sono norme che devono essere osservate dagli studenti, ma anche dai docenti. La nostra autorità è sempre limitata perché nella tradizione domenicana non c'è autorità personale. È sempre collegiale. Il Capitolo del convento per esempio ha più autorità che non il priore. Il Capitolo generale dell'Ordine ha più autorità che non il maestro dell'Ordine. Quindi, per tornare agli studenti, si sentono coinvolti nell'esercizio dell'autorità e sentono  maggiormente  la  responsabilità.

"Le idee, gli stili di vita, le leggi della società in cui viviamo e l'immagine che dà di se stessa attraverso i media esercitano un grande influsso sulle giovani generazioni", dice il Pontefice. Come lo si contrasta, come si opera per radicare un'altra visione dell'uomo?

Anche la nostra pedagogia esplicita questa concezione dell'autorità, che non è mai autoritarismo. In classe ogni professore ha il diritto di dedicare il venti per cento delle sue lezioni alla discussione e gli studenti possono fare domande ed esercitare la critica nei confronti dei professori. Abbiamo voluto combinare il sistema tradizionale, magisteriale dell'Europa del Sud col sistema tutoriale a cui sono abituati alcuni studenti del Nord.

Gli studenti all'Angelicum sono circa milletrecento, provengono da più di novanta paesi. Anche i professori, centocinquanta, arrivano da diverse parti del mondo. È la cattolicità della Chiesa.

Nel sistema tutoriale lo studente deve ricercare, approfondire quasi da solo, poi discutere col suo professore. Non c'è un'elargizione del sapere a senso unico. Questo metodo aiuta la ricerca della verità. Senza il dialogo con l'altro la verità non si stabilirà mai. Mai con un esercizio dell'autorità dall'alto, ma attraverso il dialogo, proprio perché si è certi della propria storia e verità. Dobbiamo formare i nostri studenti, che poi torneranno ai loro paesi, a dialogare con gli accademici, coi fedeli, con la società non credente.



(©L'Osservatore Romano 9 aprile 2008)
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