A colloquio con la burundese Marguerite Barankitse

Madre
di diecimila figli


di Pierluigi Natalia

Madre di diecimila figli. Nel suo Paese e ormai in molte parti del mondo chiamano così Marguerite Barankitse. Madre cioè di quei diecimila ragazzi che - negli anni dell'orrore della guerra civile ed etnica tra Hutu e Tutsi in Burundi - hanno trovato un asilo e un futuro nella Maison Shalom, la casa di accoglienza da lei fondata a Ruyigi, la sua città, nell'est. Lo stesso titolo - "Madre di diecimila figli" - è stato dato all'avvenimento che ci ha permesso di rincontrarla venerdì 16 a Roma:  una sua conferenza presso l'università Campus Bio-Medico di Roma. L'incontro è stato organizzato nell'ambito del corso - giunto alla settima edizione - in aiuti umanitari orientato all'educazione e alla cooperazione universitaria con i Paesi in via di sviluppo. Partiamo dunque da questa occasione per conversare con Maggie, come vuole essere chiamata la signora Barankitse.

Che famiglia è quella in cui mancano diecimila madri e una donna che non si è mai sposata e che non ha mai partorito si ritrova con diecimila figli?

Bella domanda. È una famiglia di questo mondo. Del resto, in un mondo in cui dovremmo essere fratelli e sorelle, un'unica famiglia, alcuni muoiono per obesità, altri per fame. Allora che famiglia è questa? Che mondo è questo? Come si può vivere insieme? Eppure lo si fa. Sono passati quindici anni da quel giorno e da quel giorno non li ho mai lasciati. Dio ci ha creati e noi siamo tutti principi e principesse e quei bambini sono cresciuti insieme e da allora vivono insieme senza insultarsi mai. Figli di genitori che si sono ammazzati tra loro, hanno detto:  "Noi insieme siamo il futuro di un mondo migliore". Questa non è una storia triste. Non è la storia di una famiglia triste.

Quello a cui Maggie fa riferimento è un giorno dell'ottobre 1993. Dopo aver completato gli studi in Europa, era un'insegnante presso la scuola del vescovado di Ruyigi. La sua vita cambiò una mattina in cui nella sua città settantadue persone furono massacrate sotto i suoi occhi. Poi che accadde?

Mi ritrovai tra le braccia Chloe, una bambina sopravvissuta all'orrore. In quel momento ho capito che l'odio non poteva vincere. Quel giorno presi con me venticinque bambini scampati, Hutu e Tutsi. In un mese erano già più di duecento. Tutti feriti, violentati, traumatizzati, sofferenti di gravi forme di insonnia, ossessionati dalle immagini di vicini diventati improvvisamente carnefici. Via via sarebbero stati appunto diecimila. Sono stati diecimila bambini sottratti alla violenza, nonostante le minacce e le intimidazioni ricevute.

Cosa si prova ad aver sottratto diecimila ragazzi al destino di una o forse due generazioni perdute, in Burundi come in gran parte dell'Africa falcidiata dalle guerre, dalla carestia, dalle epidemie?

Non è una generazione perduta. Io credo e penso che Dio non perda nessuno. Penso che Dio possa sorprenderci. Abbiamo sufficiente energia nel nostro cuore, nonostante le cifre che vorrebbero toglierci la speranza. L'Africa è ricca, è seduta sull'oro. Il sottosviluppo non è un destino. Non è un destino l'odio. Io posso considerarmi in questo senso un esempio. Normalmente, sarei dovuta fuggire.

Come ogni madre, anche Maggie ama mostrare i suoi figli. E lo fa per rispondere a una domanda su qualche esempio delle diecimila storie che hanno attraversato la sua.

Guarda questa foto:  è Choé quando l'ho incontrato. Era stato accecato e i suoi genitori erano stati uccisi. La vista e i genitori non potevo renderglieli. Ho provato a rendergli un po' d'amore. E lui ha imparato a vivere felice con la cecità. È diventato un musicista. Poi si è trovato di nuovo in pericolo, di nuovo obiettivo dell'odio etnico. Lo abbiamo nascosto in Italia. Era al sicuro. Ma ha voluto tornare. Guarda queste altre foto, guarda l'espressione di questi ragazzi. Erano stati bambini soldato fino a poche ore prima di essere accolti nella Maison Shalom. Guarda le loro espressioni in queste altre foto di adesso, guardali oggi che sono giovani impegnati a vivere in pace. Guarda come ero più giovane e più tesa io in questa foto con quei tre neonati. Erano stati generati dalla violenza inflitta alle loro madri da uomini che avevano appena ucciso i loro familiari. Sono nati, hanno avuto la vita. E oggi non vivono per la vendetta. Vivono per la pace, costruiscono in pace le loro vite.

Eppure, sul Burundi si allungano di nuovo le ombre della guerra. I ribelli Hutu delle Forze nazionali di liberazione sono di nuovo impegnati in combattimento con le forze governative. Perché accade ancora?

Non li capisco. Seppure avevano un qualche motivo fino al 2005 oggi non lo vedo. Quale liberazione? Il presidente è un Hutu, così come il presidente del Parlamento. Ci sono gli accordi per la condivisione del potere. Combattere serve solo ai mercanti di armi, quelle armi delle quali in Africa non c'è neppure una fabbrica. Non abbiamo bisogno di armi. Abbiamo bisogno di persone che dicano no ai massacri fratricidi. Abbiamo bisogno di leader e dirigenti con una visione a lungo termine, che amino il loro popolo e che non siano corruttibili. Non sono una sognatrice. Tutto questo è possibile. È possibile una riconversione dei cuori. Io non voglio essere testimone di un genocidio, ma sono testimone dell'amore di Dio. Sono innanzitutto un essere umano, prima che Tutsi. Apparteniamo tutti alla stessa famiglia, siamo esseri umani, siamo come un vaso di fiori, che è bello se ha tanti fiori differenti. Questa è la bellezza del mondo:  un mondo in cui tutti possano convivere insieme. Noi possiamo vivere insieme, questi diecimila bambini sono realtà.

Sono realtà anche i riconoscimenti internazionali a Marguerite Barankitse dell'impegno umanitario incominciato in quell'ottobre 1993, come il premio Nobel dei bambini ricevuto dalla regina di Svezia nel 2003; la laurea in legge honoris causa presso l'Università di Lovanio, in Belgio, nel 2004; il premio Nansen per i rifugiati attribuitole nel 2005 dall'alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr); il premio Unicef per i bambini che ha ritirato a Roma proprio questo 16 maggio. E sono una realtà gli aiuti internazionali ai progetti realizzati dalla Maison Shalom in questi ultimi anni, le molte case d'accoglienza, l'ospedale incominciato nel 2005 e che già fornisce alla comunità di Ruyigi i servizi sanitari di base (maternità, ostetricia, neonatologia, pediatria, chirurgia, medicina interna e radiologia). Ma alla comunità internazionale, all'Europa cosa chiedono soprattutto le popolazioni burundesi e africane?

L'Europa versa lacrime per noi africani. Ma per aiutare qualcuno non bisogna piangergli addosso. Quando l'Occidente parla dell'Africa, ne parla come di un continente perduto. Ma io voglio dare voce alla speranza. Perché la vita è una gioia, sempre e comunque. Tuttavia, questa è prima di tutto una questione interna, del Burundi, della regione dei Grandi Laghi, dell'Africa. Se continueremo a sentirci vittime, sempre vittime saremo. Quanto alla comunità internazionale, il suo aiuto è indispensabile. Da semplice donna vorrei però dire che andrebbero diminuite le spese burocratiche, andrebbero canalizzati molti dei rivoli nei quali spesso si disperde il grande flusso degli aiuti internazionali. È ovvio e comprensibile che ci siano delle spese di gestione da affrontare, ma potrebbero essere ridotte e razionalizzate. In questo, per la verità, è di esempio la Caritas, nei cui progetti tale dispersione non c'è e le spese tecniche sono quasi irrilevanti. Insomma gli aiuti arrivano a chi ne ha bisogno.

E a Dio che aiuto chiede una donna con i problemi di una madre moltiplicati per diecimila?

Ogni mattina, in cappella, prego Dio di accrescere in me l'amore. E la stessa preghiera faccio sulla strada, tra i miei bambini, nel cercare la giustizia. Sono bambini che mi ha donato Dio. Non posso portarli sulla mia testa. Ma nel mio cuore sì. Posso farlo perché Dio dona amore, e intelligenza. E amici che aiutano e sostengono.

E di che tipo di cattolici, sacerdoti, religiosi e laici, ha bisogno l'Africa?

Di religiosi che sappiano testimoniare il Vangelo della salvezza. Talvolta sembra che molti religiosi abbiano solo motivazioni sociali, siano impegnati solo su progetti a dimensione terrena. Preferirei averne magari meno, ma che sapessero essere testimoni dell'amore salvifico di Dio. Abbiamo bisogno di lanterne che mostrino la luce della fede.



(©L'Osservatore Romano 18 maggio 2008)
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