Il direttore dei Musei Vaticani Antonio Paolucci, premiato con il Grinzane-Ermitage

Quanti soldi sprecati per mostre inutili


di Gaetano Vallini

"Fra tante mostre che popolano ogni anno lo scenario italiano ce ne saranno il dieci per cento a dir tanto che valeva la pena fare, che lasceranno qualcosa e che faranno avanzare gli studi. Per il resto sono occasioni effimere che lasciano il tempo che trovano, che provocano soltanto stress inutili alle opere che vengono spostate da un posto all'altro". Ha le idee chiare Antonio Paolucci, Direttore dei Musei Vaticani, riguardo alla situazione espositiva italiana. In partenza per San Pietroburgo, dove nella mattinata di venerdì, riceverà il premio Grinzane-Ermitage - una sorta di riconoscimento alla carriera, sottolinea - Paolucci prende posizione nettamente sull'intervento dell'International council of museum Italia che ha chiesto alle istituzioni pubbliche e private di puntare solo su rassegne di qualità, di non affittare le opere e di non sprecare denaro nell'effimero.

Professore, dunque in Italia si organizzano troppe mostre, per la maggior parte di scarso valore. Ma perché accade ciò?

Dipende dalla speciale situazione italiana. In realtà dovremmo parlare al plurale di Italie, con tante piccole capitali; in ognuna di esse c'è una banca che ha tra i compiti istituzionali quello di apparire. Questo significa che ogni presidente di fondazione bancaria allestisce una mostra, perché è il modo più semplice, più efficace e relativamente poco costoso di rendersi visibile. Per far questo gli istituti bancari italiani impiegano nel settore dei beni culturali una quantità davvero enorme di soldi. Si calcola che nel 2006 hanno speso in mostre, restauri, finanziamenti di attività festival teatri cinquecento milioni di euro, mentre il Ministero dei beni culturali al netto delle spese del personale e del funzionamento in conto capitale ha speso poco meno di settecento milioni. In sostanza le banche spendono quasi quanto il ministero e allora mi chiedo quanto di utile e di durevole si potrebbe fare se quei soldi venissero utilizzati per la conservazione intelligente piuttosto che per l'effimero stagionale.

Ciononostante non mancano esempi positivi. Firenze quest'anno organizza in contemporanea quattro grandi mostre d'arte antica:  "L'eredità di Giotto" agli Uffizi, "Giovanni da Milano" all'Accademia, "Firenze e gli antichi Paesi Bassi" a Palazzo Pitti, "Vincenzo Danti" al Bargello. Cosa può insegnare una simile esperienza a chi si occupa di arte?

Il caso di Firenze, dove sono stato soprintendente per quasi venti anni - ne parlo con orgoglio perché considero una mia creatura quello che è oggi Firenze - è un esempio forse unico in Italia di come pubblico e privato possono effettivamente stare insieme, ottenere profitto sia l'uno che l'altro, facendo ciascuno il proprio mestiere. Perché questo succeda bisogna che lo Stato sia forte e autorevole; se è forte e autorevole allora sì che si può dialogare con il privato. Se lo Stato è debole e non autorevole, come spesso succede, purtroppo, viene cannibalizzato dal privato. Bisogna che i piatti della bilancia siano in equilibrio e allora la cosa può funzionare. Ma ripeto:  Firenze è Firenze e, come detto, ci sono tante Italie con tante capitali:  c'è Pompei, c'è Milano, c'è Napoli e così via.

Nel suo intervento a San Pietroburgo lei affronterà, tra gli altri, il tema della conservazione del museo ancient regime, ovvero del museo che conserva nell'arredamento, nei criteri espositivi e nel gusto collezionistico, i caratteri del passato. Quali problemi comporta la gestione di simili strutture? E come rendere comprensibile al pubblico di oggi simili allestimenti?

Nei musei che io chiamo dell'antico regime - e i Musei Vaticani appartengono a questo genere, come gli Uffizi, come l'Ermitage, come la Galleria Borghese di Roma - esiste un doppio problema. Il primo è relativo alla didattica dei beni culturali e il secondo di conservazione. Dal punto di vista didattico dobbiamo far capire la filosofia e la cultura pre-democratica al popolo dei musei di oggi, ovvero far comprendere la complessità culturale e simbolica dell'arredo antico. Dall'altro dobbiamo conservare una pluralità materica dove tutto convive con tutto, quindi tele, tavole, marmi, stucchi, legni preziosi, intarsi, mosaici. Quindi sostengo - anche se è una banalità perché lo diciamo tutti almeno in teoria ma poi renderlo attuabile è diverso - è necessaria una conservazione preventiva globale, che significa regolare i flussi, disciplinare il clima, protocolli precisi di diagnostica e di controllo periodico, e via dicendo. Questa è la nuova filosofia del restauro per complessi poli materici come quelli che stanno nei grandi musei storici.

Sempre nel suo intervento parlerà della necessità di un codice etico del conservatore:  potrebbe sintetizzarne i punti essenziali?

Il codice etico si riduce, a mio avviso, a due punti. Il primo è di speciale attualità nell'epoca della democrazia dei consumi, anche dei consumi culturali. Ebbene noi dobbiamo preoccuparci non tanto di quanta gente entra nei musei, dei grandi numeri (cinque milioni ai Musei Vaticani, otto al Louvre, uno e mezzo agli Uffizi, tre o quattro a Pompei e così via), con tanto di proclami trionfalistici. Dobbiamo preoccuparci invece - anche se in realtà purtroppo non ci interessa - di quanta gente esce dai musei avendo capito qualcosa e ricordando qualcosa. Il popolo dei musei oggi è fatto di gente che guarda solo la televisione, forse non ha mai letto un libro, probabilmente non saprebbe scrivere nella sua lingua madre mezza pagina senza errori. Lo sanno bene i politici, perché è questo il popolo al quale si rivolgono. Secondo punto etico:  noi conservatori dei musei dobbiamo pensare che lavoriamo non per i giapponesi, per gli americani che fanno la coda davanti agli ingressi, ma soprattutto per le donne e per gli uomini che devono ancora nascere.

A proposito di conservazione, c'è una differenza di sensibilità nella tutela delle opere d'arte tra la cultura occidentale e quella orientale?

In Russia hanno criteri di restauro, soprattutto nei monumenti, un po' diversi dai nostri. Per loro restaurare una chiesa antica significa praticamente rifarla con quei colori, con quelle dorature. Indubbiamente c'è una sensibilità del restauro che cambia notevolmente da occidente a oriente. Si arriva, andando ancora più a est, in Giappone o in Cina, a un restauro inteso come rifacimento totale, cioè conta l'idea più che la conservazione della materia specifica come ci hanno insegnato in questa parte del mondo e come noi italiani pratichiamo.

Alcuni grandi musei - tra i quali lo stesso Ermitage, che è sbarcato a Ferrara - hanno intrapreso la strada dell'apertura di sedi distaccate. Come valuta questa strategia?

Io ho molti dubbi e sostanzialmente sono contrario al museo che si disloca fuori dai suoi confini. Il museo è una particolare aggregazione storica che deve rimanere dov'è:  è la gente che deve muoversi non le opere d'arte. Questo è un criterio condiviso da quelli che fanno il mio mestiere.

È la gente che deve muoversi, dunque. Ma nei grandi musei non c'è il rischio di perdere l'essenza del tutto per concentrasi solo su poche cose?

Noi pensiamo che la gente capisca il museo. In realtà non è così perché esiste un meccanismo di attrazione pop nel museo:  la gente viene ai Musei Vaticani per vedere la Cappella Sistina e non è interessata al resto. Lo stesso accade altrove:  agli Uffizi si va per La Primavera di Botticelli; al Louvre per La Gioconda e capita di ritenere, se non si è vista La Gioconda quasi di non aver visitato il Louvre. In realtà, poi, La Gioconda non la "vede" nessuno. La super esposizione pop dei grandi capolavori provoca un effetto di accecamento su tutto il resto. In realtà non si comprende il museo, il suo specifico. E lo specifico dei Musei Vaticani non è la Sistina, che è solo una parte, ma è capire come la Chiesa cattolica attraverso i secoli ha voluto dare testimonianza e cittadinanza alle varie culture. È capire come una cultura marcatamente aniconica come l'ebraismo ha fatto propria la civiltà classica. Ci sono più donne e uomini nudi nei Musei Vaticani che in qualsiasi altro museo del mondo:  vorrà pur dire qualcosa!

Qualcuno sta lanciando l'idea del museo non più solo come istituzione di conservazione ma anche come committente di arte. Qual è la sua opinione al riguardo?

Ci sono musei e musei. Ci sono musei che hanno questa funzione, per esempio a Roma la Galleria nazionale d'arte moderna (Gnam) e il Museo d'arte contemporanea (Macro), che hanno il compito istituzionale di raccogliere e testimoniare i capolavori della contemporaneità. Che gli Uffizi o i Musei Vaticani facciano operazioni del genere non mi sembra logico:  sono musei storici in qualche modo chiusi, sono stati studiati per quello.

In questi primi mesi di direzione dei Musei Vaticani quali settori si sono rivelati maggiormente bisognosi di intervento e perché?

Due in particolare. Quello che mi sta più a cuore è quello didattico. Mi sono meravigliato arrivando qui di vedere come questo fosse un aspetto tutto sommato poco valorizzato, ed è strano che il museo identitario della Chiesa cattolica, che fa della Parola e della spiegazione della Parola la sua missione, non abbia l'efficacia didattica che secondo me potrebbe e dovrebbe avere. Il secondo intervento riguarda la struttura dei Musei Vaticani, alla quale mancava quella che fuori di qui si chiama soprintendenza ai monumenti, cioè un gruppo di specialisti che sanno occuparsi con competenza professionale del restauro dei monumenti antichi. Qui ci sono Michelangelo, Bernini:  il manuale di storia dell'architettura è qui, nei Musei Vaticani. Pian piano sto realizzando questa struttura con persone appositamente scelte e già con qualche risultato.

Può anticiparci alcune delle iniziative che vedranno impegnati i Musei Vaticani nei prossimi mesi?

Abbiamo il cantiere della Cappella Paolina, l'ultimo Michelangelo. È una cosa che ci sta particolarmente a cuore. E vogliamo celebrare il 1508; se ne occuperà il professor Nesselrath con una mostra di adeguato rilievo. Non sarà per quest'anno, perché siamo fuori tempo, però la mostra avrà proprio questo titolo:  "L'anno 1508". In quell'anno arriva Michelangelo, che dipinge la volta della Sistina, e arriva un ragazzo di ventiquattro anni che si chiama Raffaello, che realizza la Stanza della Segnatura. La storia dell'arte moderna comincia a Roma nel 1508. Cinquecento anni dopo noi abbiamo il dovere di ricordarlo.



(©L'Osservatore Romano 11 luglio 2008)
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