Intervista a Ermanno Olmi, Leone d'Oro alla Mostra del cinema di Venezia

Ottimista per disperazione


di Luca Pellegrini

Attende con ansia di sottoporsi ai fasti veneziani. Teme di viverli con spavento e fatica, perché rifugge le grandi celebrazioni. Riceve però a settantasette anni compiuti e una ricca vita d'artista alle spalle il Leone d'Oro alla carriera. Conserva sempre, come antidoto, le immagini dei boschi che si aprono e si animano dinanzi al suo buon ritiro di Asiago. Boschi che gli sussurrano segreti, come ha raccontato, con una vena di ecologismo spirituale, proprio nel Segreto del bosco vecchio tratto da un profondo racconto di Buzzati.

Il suo bosco cosa le sussurra ogni giorno?

Il linguaggio del bosco è intraducibile con le parole convenzionali degli uomini. Dovrei parlare di sentimenti. Il bosco è una declinazione di sentimenti, appare con mille sfaccettature, è simile alla parola amore, che di per sé si riferisce ad un significato molto alto. Questa altezza è resa dall'infinita possibilità di modi di amare.

La natura, con i suoi elementi - terra, aria, acqua, fuoco - appare in tutti i suoi film; è l'interlocutrice prediletta del contadino, che intesse con lei un dialogo quotidiano. La civiltà contadina è stata cantata come atto d'amore e memoria condivisa nell'Albero degli zoccoli che a Cannes nel 1978 stupì e commosse la platea, ricevendo la Palma d'Oro. Che cosa suggerisce all'uomo questa civiltà che sembra, o è, drammaticamente perduta?

La natura, dopo essere stata considerata dall'umanità ciò che significa concretamente, ossia la sopravvivenza, sta soffrendo:  quell'alleanza stabilita all'uscita dall'Arca, quando l'arcobaleno ha congiunto il trascendente con l'immanente, è di nuovo tradita. Che cosa troviamo all'origine di questo tradimento? Non solo la mancanza di rispetto, ma addirittura la dura e dolorosa prevaricazione sul più debole. Noi crediamo di poter prevaricare tutte le regole naturali per aumentare in qualche modo i nostri profitti. La natura ci lascerà fare ancora per un poco, dopodiché, come una buona madre, ci darà una bella tirata d'orecchi. E questa volta sarà molto dolorosa.

In ciascuno dei suoi film scopriamo realizzato e rinnovato ciò che Rossellini profetizzò del suo cammino artistico agli inizi degli anni Cinquanta:  "Questo modo di fare il cinema significa scoprire il mondo". Al culmine del suo percorso artistico quale mondo pensa di avere alfine scoperto e fatto conoscere?

Non si tratta di scoperte che in qualche modo portano un cambiamento delle condizioni attuali. Nell'istante in cui si sono formati i cieli e i mondi, si è anche determinata una realtà che non ha più modificato i caratteri dell'origine. Siamo noi che modifichiamo il rapporto con questa realtà, talvolta addirittura profanandola. Quindi, come dire, nessuna scoperta per quanto concerne la realtà dell'origine. La scoperta è di volta in volta il modo diverso con cui riesco a mettermi in relazione con questa realtà. Se si pensa a come l'uomo biblico guardava all'astro nel cielo cercando le ragioni dell'origine, oggi lo scienziato lo fa in un altro modo. Ma entrambi sono rivolti al mistero che è nascosto negli astri del cosmo, perché di questo cosmo altro non sono che un pulviscolo. Anche la scienza, se non è arrogante e presuntuosa, è un modo per scoprire e amare le nostre origini universali.

Monsignor Gianfranco Ravasi, suo amico e in questi mesi anche compagno di lavoro - con lui e Claudio Magris state tentando di dar vita ad un racconto visivo su Gesù che unisca storia e mistero, umanità e trascendenza, documento e contemplazione - le riconosce "una straordinaria bontà quasi strutturale, illuminata da uno sguardo chiaro e luminoso". Questa bontà la portò ad entrare in sintonia, nel 1965, con quella del Papa ricordato oggi dalla storia come "buono", Giovanni XXIII, raccontato nella pellicola E venne un uomo.

Una bontà che si fa perdono. Ho più volte ricordato che Cristo, in alternativa alla legge del taglione, propone il perdono. Una rivoluzione senza pari. Dopo Cristo il mondo è cambiato, non perché l'umanità sia più buona. Sono la libertà e la responsabilità ad essere cambiate. Siamo disposti a dare il perdono, come mi sono domandato in Cantando dietro i paraventi? Siamo capaci di chiederlo? Anche questo è un atto che rende grandi, oltre che buoni. Ho usato un'immagine che mi piace:  un uomo in ginocchio è più grande di un uomo in piedi.

Ma i suoi film sono percorsi anche dalle scie del male, come nel Mestiere delle armi; oppure sono attraversati da inquietudini, come nell'ultimo, assai discusso Centochiodi.

Le inquietudini ci sono sempre. Il male è come la condizione insormontabile per poter vivere il bene. Voglio dire che se in qualche modo riusciamo a cogliere il senso di pienezza, di appagamento che dà un rapporto finalizzato al bene, da lì troviamo la forza per affrancarci in qualche modo dal male. Perché il male è una delle condizioni incancellabili e irrinunciabili della realtà fisica, in cui è compresa la nascita ma anche la morte:  dal momento in cui si nasce non facciamo che combattere la morte. Questo non ci deve impedire, anzi ci deve spronare alla soddisfazione che ci procuriamo ravvedendoci dal male attraverso tutte le opportunità che possono presentarsi a noi come occasioni di bene. Sono quelle che ci fanno vincere l'indifferenza, la paura, i cedimenti. Quando ci s'innamora, quando una madre tiene in braccio il suo bambino, è consapevole del fatto che vivere comporta anche affrontare il rischio del male, il rischio che il figlio possa morire o avere difficoltà grandi nella vita, ma sa anche benissimo di poter superare tutto questo con la speranza dell'amore. La speranza rende sovrano l'amore. E del resto è molto bello che Giovanni ci ricordi nel suo Vangelo che una donna nel momento del parto soffre di grandi dolori dei quali subito si dimentica nel momento in cui la sua creatura è venuta al mondo.

Ha confessato che Cristo le è sempre stato vicino come amico e come punto di riferimento. Ma lo ha anche sentito come qualcuno che per tutta la vita le è stato col fiato sul collo; è il suo modo di descrivere il dinamismo della fede, l'ansia dell'inquietudine, la voce della coscienza?

Quel fiato sono tutte queste cose insieme. Voglio dire:  spesso cerchiamo di fuggire dalle scelte che la nostra coscienza ci vorrebbe far prendere. Questo è già un modo per renderci conto di come quel fiato non annulla la nostra responsabilità. Ma il fiato di Cristo sul collo mi ricorda che la mia debolezza, il mio cedimento, trovano in quel fiato anche una specie di sostegno. È come se Cristo ci dicesse:  "Vedi, ce l'ho fatta anch'io ad essere uomo. Allora devi farcela anche tu!". Questa immagine mi aiuta a essere più vicino alla realtà che alla teologia, a rendere il mio rapporto con Cristo il più reale possibile da parte mia e, credo, anche da parte sua. Lui accetta che io abbia le debolezze, il dubbio, il timore ad affrontare da solo la mia coscienza. Questo timore in compagnia di Cristo non è solo un conforto:  qualche volta il suo è anche il fiato sul collo che diventa una sorta di rimprovero. Ma è sempre quello di un amico, il rimprovero di Colui che mi dice la verità e mi dona il coraggio di affrontarla.

Pensa di aver rappresentato con il suo cinema il "fiato sul collo" di Cristo, la bontà del cristianesimo?

Io non mi ritengo adatto e capace a rappresentare il buono. Mi guardo con estrema sincerità allo specchio. Posso, però, rappresentare tutto ciò che nella vita riesce a proiettare la speranza. Sono un ottimista, ma lo sono perché so che è l'unico modo per vincere la disperazione. Così come ritengo come valori inestimabili l'amicizia e la lealtà, perché sono quelle condizioni che mi procurano motivi di speranza. La vita che cos'è se non l'affermazione di una speranza? Il bambino che nasce è inconsapevole, eppure in questo suo stato compie, attraverso le ragioni fisiologiche che lo aggrappano alla vita, continui atti di speranza. Un bambino non ha assolutamente l'idea della morte, ha solo l'idea della vita; poi, nel tempo, purtroppo con illusioni, sofferenze - a volte di una tragicità tale che diciamo "gridare vendetta al cospetto di Dio" - percepisce le conseguenze del male. Però l'unico modo, ribadisco, per affrontare la disperazione, il male, la morte, tutto ciò che vediamo come difficoltà dell'esistere, è di farlo con la speranza. Anche nei momenti in cui la fede, che deve essere sempre messa alla prova del dubbio, non riesce più a fornirmi l'aiuto necessario, quale alternativa ho se non l'amore e la speranza?

In Lunga vita alla signora! ci ha raccontato la storia fantastica e dura di giovani che nell'innocenza, nell'entusiasmo, nel candore si affacciano alla vita e prendono contatto con uno degli aspetti più difficili e talvolta torbidi della storia, il potere.

Lunga vita alla signora! è stato un modo provocatorio per esclamare:  lunga vita al potere! Perché la signora che ospita per questa cena sontuosissima nel suo castello, che non parla, beve pochissimo, in realtà non ha il potere, ma soltanto l'ossequio di coloro che vogliono avere un riferimento e un riconoscimento dal potere. Attorno a questa tavola siedono non tanto i potenti, ma coloro che rendono tale il potere degli altri perché ne sono al servizio, vogliono servirlo. Il potere è, infatti, un concetto astratto e per raccontarlo mi sono servito della favola. Coloro che cercano di esercitarlo sugli altri in verità fanno riferimento, per essere legittimati, a un potere che va oltre il loro. Per questo non c'è limite al potere. Ancora oggi c'è qualcuno che pensa di poter superare il potere di coloro che, prima di loro nella storia, lo hanno esercitato in modo smisurato. Metto in guardia dal fatto che non c'è limite in questa corsa. Ma ho cercato di dimostrare, e lo credo veramente, che anche nell'amore non c'è limite. Questo ci insegna il cristianesimo.

L'aria fresca che Libenzio, il protagonista di quello splendido film, corre a respirare alla fine, fuggendo dal castello della "signora", simboleggia il rifiuto del potere e del peccato.

Libenzio, ed io con lui, ha capito che in quell'atto di libertà, rifiutando in fondo il peccato, sceglie la vita e non la morte. Mi spiego:  se anche avessi conosciuto il più potente dei potenti, come nel corso di quella cena, e se anche avessi avuto la possibilità di averlo come alleato nella vita, così non avrei fatto altro che avvallare il fatto di volermi riferire a un potere sempre maggiore, arrivando di nuovo a commettere quel peccato che sta all'origine della caduta di Lucifero e poi, passando all'uomo, quello originale di presunzione, di superbia, il peccato di Adamo ed Eva.

Ma lei come è riuscito nel corso della vita a rimanere lontano dai richiami dei mercanti del tempio?

Mi scusi il termine crudo:  perché non mi sono mai fatto fregare dal concetto astratto del potere. Le ho parlato dell'amore. Se noi pronunciassimo la parola amore come pronunciassimo la parola potere, rimarremmo in una dimensione ideologica. Quando l'amore diventa vero amore? Quando si trasforma nel verbo amare. Devo confessare, per quello che ne so della vita che ho vissuto, che ho visto degli uomini felici per avere scelto di amare e ho visto degli uomini miserabilmente soli per aver scelto di essere potenti.

Perché le piacciono le favole?

Perché le favole sono come le parabole. La favole sono un modo per capire la realtà estraendola dal suo contesto e rendendo tutto emblematico. Nelle favole si condensano tutti i nodi, le trame, tutto ciò che è nascosto nella vita reale. Le favole, come le parabole, sono formate da realtà esemplari. Nella parabola del seminatore io capisco sia l'atto del seminare in quanto atto agricolo, sia il significato morale in quanto atto di colui che seminando liberamente riconosce le diversità dei terreni.

Lo scorso anno ha fatto sapere:  basta favole, ora solo la realtà, solo documentari.

In verità io ho detto:  basta col film di finzione narrativa. Quello che volgarmente chiamiamo documentario si ritiene che abbia soltanto il compito di raccontare determinate realtà. Ma, a sua volta, racchiude dentro di sé un sentimento. Avevamo iniziato con l'immagine del bosco. Se io giro un documentario e dico:  ecco, questo è un bosco, lo vedo e lo mostro formato da varie piante. Ma se io scopro il sentimento del bosco, ecco che lui comincia a raccontarmi la sua favola. E non la racconta attraverso le parole, ossia una narrazione verbale, ma attraverso un sorta di sussurro di sentimenti, di emozioni, di incanti, di stupori, che non sono la finzione. Diciamo che il cinema narrativo è prevalentemente un bosco raccontato in un teatro di prosa mentre il documentario è un'opera che direttamente ci fa cogliere tutta la realtà del bosco con i suoi sentimenti nascosti.

Il 5 settembre salirà sul palco della sala grande della Mostra del cinema di Venezia per ricevere il suo terzo Leone:  dopo quello d'Argento nel 1987 con Lunga vita alla signora! e quello d'Oro nel 1988 con La leggenda del santo bevitore, ora riceve il Leone d'Oro alla carriera. Come vive questo riconoscimento cinematografico?

Mi pare che sia un modo da parte di molti amici per dirmi che il mio lavoro è stato in qualche modo motivo di alleanza tra noi, voglio dire tra chi fa il cinema e chi lo va a vedere. Credo di avere sempre fatto cinema con onestà, parlando di cose di cui sentivo il bisogno, confrontandomi con gli altri. Più che servire il cinema, ho servito questa alleanza tra me e il pubblico, tra me e gli spettatori. Pur nel buio della sala potrei guardare tutti volto per volto e quindi amico per amico. È quello che ho sempre provato fin da bambino e credo tutti noi abbiamo provato:  quando correvamo per la strada o in mezzo ai campi per incontrare i nostri piccoli compagni e giocare con loro. Così la vita riesce ad essere un bel gioco fatto con un sentimento lieto.



(©L'Osservatore Romano 4 settembre 2008)
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