Intervista a Helmut Lachenmann, Leone d'Oro alla carriera alla Biennale musica di Venezia

Ritroviamo il tempo
per sederci e ascoltare


dal nostro inviato Marcello Filotei

È più bella una foto di Gina Lollobrigida o il ritratto della madre di Albrecht Dürer con il suo naso bitorsoluto? Non deve essere stato facile rispondere per i dodicenni scolari di Helmut Lachenmann, compositore tedesco premiato il 3 ottobre dalla Biennale musica di Venezia con il Leone d'Oro alla carriera. "Non sapevo più come fare a spiegare un concetto di bellezza che fosse dinamico. Quando provavo a proporre la musica di Stockhausen mi rispondevano semplicemente che era brutta. Ma quella domanda mise i miei allievi in agitazione, si innervosirono, poi una ragazza disse sotto voce a un'altra "credo la brutta sia la più bella". Finalmente scoprivano che la bellezza non è un carattere oggettivo, che la foto della Lollobrigida era molto bella ma sostituibile, magari con quella di un'altra donna. Il dipinto di Dürer invece era unico, irripetibile, pieno di amore verso una persona che aveva avuto una vita difficile. Il problema non era più cosa era bello e cosa era brutto, ma cosa era intenso e cosa invece era banale". La musica di Lachenmann, forse, è proprio una battaglia pacifica contro la banalità. L'uomo è pacato e spiritoso, il musicista prudente nelle scelte, ma capace nei decenni anche di creare accese discussioni, a partire da quel lavoro per orchestra e percussioni che diede scandalo a Francoforte nel 1969.

Come ricorda quegli anni movimentati?

Non sono orgoglioso di queste cose, ma non posso negare che le proteste abbiano attirato l'attenzione del pubblico su di me. Quello non era però il mio primo lavoro a essere eseguito, seguiva di due anni il mio esordio alla Fenice del 1967, l'anno in cui riuscii finalmente a scrollarmi di dosso la personalità di Luigi Nono, con il quale avevo studiato dal 1958 al 1960. Mi ci sono voluti sette anni di silenzio prima di rimettere una nota sul pentagramma. Ero provato dalla durezza con la quale mi aveva trattato. Mi faceva analizzare partiture di tutti i generi, ma quando provavo a comporre mi bacchettava. Una volta ricordo che avevo scritto una nota lunga, legata, lui mi disse:  "cos'è questa? Una melodia? Tu non sei un compositore borghese che deve compiacere il pubblico e il padrone". Se inserivi un trillo potevi sentirti dire:  "Credi di essere Couperin che deve far ballare la corte francese?".
Insomma fu un periodo duro, ma imparai molto. Poi, come è necessario che accada, ho dovuto allontanarmi dalla sua influenza per trovare la mia strada. Dopo l'esecuzione del 1967, cominciarono ad arrivare le commissioni, ho scritto diversi pezzi e quelli che più mi sono stati utili per la carriera sono stati quelli che hanno fatto discutere. Ma se quelle sono state le opere considerate importanti dalla critica, dal mio punto di vista una cosa fondamentale è stato decidere di scrivere un lavoro per voce e piano. È una cosa che considero davvero avventurosa, anche se non spettacolare, basti pensare che dopo i compositori romantici nessuno si è più cimentato su un terreno del genere.

Oltre che a Venezia con Nono lei ha studiato anche ai corsi estivi di Darmstadt, in una temperie di grande cambiamento, c'erano musicisti come Maderna, Berio, Boulez e Stockhausen e il supporto teorico di Adorno. Che ritiene ancora valido di quelle posizioni e cosa è stato invece superato dal tempo?

In quell'ambito si è soprattutto riflettuto sul materiale sonoro. Fino ad allora si lavorava semplicemente su quello che la tradizione offriva. A Darmstadt invece la cosa principale era capire quali fossero le qualità intrinseche del materiale e scrivere una musica che le riflettesse. Questa idea rimane di estrema attualità. Certo oggi non c'è nessuna ragione di insistere a proporre un ipertecnicismo che già all'epoca mi intimidiva molto, soprattutto perché trasformava i musicisti in ingegneri del suono. A Darmstadt, per semplificare, i compositori non componevano musica, la superavano. La gente in sala diceva "questa non è musica" e io dicevo:  "bene, finalmente stiamo andando oltre". In realtà stavamo ripensando l'idea stessa di musica. Comporre, in quel periodo, non significava organizzare e godere dei suoni, questo era già stato fatto. Darmstadt ha avuto il grande merito di avviare una riflessione, certo con errori, manierismi e arroganza, ma la musica di Boulez, di Stockhausen, di Nono o di Berio, per fare solo qualche esempio, è sempre un'avventura:  è arte ed è stata ottenuta attraverso un necessario processo di sviluppo del linguaggio che era necessario.

Perché era necessario?

Perché la tradizione della musica occidentale consiste proprio nell'aprire costantemente nuove frontiere. Dal canto gregoriano a oggi questo è sempre accaduto. I linguaggi musicali si sono susseguiti, rincorsi e superati. In altre culture questo non avviene. Le tradizioni orientali, per esempio, sono estranee al concetto di sviluppo, e da migliaia di anni mantengono immutate le loro musiche.

Quale è il ruolo della musica oggi?

La musica contiene in sé una profonda magia. Per questo le persone in auto o mentre fanno i lavori di casa ne hanno bisogno. La magia consiste nella capacità di accomunare le persone, che provano la stessa emozione nello stesso momento. Questo ci fa sentire più uniti e sicuri, ma può essere pericoloso. Non a caso i sistemi totalitari danno un'importanza fondamentale alla musica, mentre nel capitalismo diventa un bene di largo consumo.
Se pensiamo a compositori come Mozart o Beethoven notiamo che anche loro sono diventati un ingranaggio di un sistema economico che nemmeno immaginavano. Non ho niente contro questo e non voglio fare il moralista, ma bisogna riflettere sul fatto che anche i grandi maestri, se affrontati distrattamente, diventano musica di consumo, magari spezzettata come avviene spesso per radio:  il primo movimento di una sonata e poi subito dopo l'overture di un un'opera e poi ancora l'adagio da una sinfonia. Così si perde il senso di quello che si ascolta.
Bisogna ritrovare il tempo per sedersi e ascoltare, ascoltare e basta, senza fare niente altro, ascoltare un'opera dall'inizio alla fine:  questo è il tempo dell'arte. Io ho fatto tanto rumore con la musica, ma oggi non c'è più bisogno di questo. Il problema non è trovare un rumore nuovo o originale, ma favorire una nuovo modo di ascoltare. Si dovrebbe studiare il meccanismo della dialettica. Una cosa inaccettabile in un dato contesto in un altro diventa necessaria e La madre di Dürer può essere molto più bella di una foto della Lollobrigida.



(©L'Osservatore Romano 5 ottobre 2008)
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