A colloquio con Antonio Pappano sull'apertura della stagione di Santa Cecilia

Come Giovanna d'Arco folgorò Claudel


di Marcello Filotei

Ci ha ripensato sul treno per Bruxelles Paul Claudel, quando l'ha vista, come in un sogno, incatenata al rogo che ripensava alla sua vita. Aveva già detto di no a Arthur Honegger perché "non si può dorare l'oro". Poi ha cambiato idea ed è tornato indietro. Ne è scaturita un'opera visionaria, pluristilistica, una Giovanna d'Arco al rogo talmente moderna da essere ripresa da Roberto Rossellini che ne ha fatto un film memorabile. Capita di rado di ascoltarla, ma l'Accademia Nazionale di Santa Cecilia ha deciso di aprirci la stagione il 12 ottobre. Sul podio il direttore stabile Antonio Pappano, che spiega come la scelta dipenda sia da ragioni pratiche, sia da motivazioni artistiche. "Le inaugurazioni tradizionalmente devono coinvolgere l'orchestra e il coro, per tenere insieme tutta la famiglia dell'Accademia. I pezzi che hanno un organico di questo genere sono pochi. La Giovanna d'Arco al rogo è un lavoro che già conoscevo e più in generale apprezzo molto Honegger. Quello che mi interessa, principalmente, è la fusione di musica e letteratura in una storia drammatica ed emozionante. È come vivere gli ultimi momenti della vita di Giovanna. Si dice che prima di morire si riveda in un secondo tutto quello che si è vissuto:  Claudel mette in scena quel secondo".

Come?

Davanti agli occhi di Giovanna scorrono le bugie, le superstizioni, le paure, ma anche l'orgoglio di chi sa che ogni novità è sempre accolta con sospetto. Honegger e Claudel fanno riferimento non solo alla Francia della protagonista, ma anche alla loro epoca, a quel 1935 che vide completato il lavoro in un'Europa sull'orlo del baratro.

Come è tradotta musicalmente questa tensione?

La parte del coro è particolarmente dura. Giovanna è trattata malissimo. Sono di una cattiveria incredibile, godono nel vederla soffrire, inneggiano al fuoco del rogo nel quale si identificano. Ma c'è anche una forte ironia. Il tribunale è fatto di animali invece che di persone, una specie di Colosseo dove le bestie non sono nell'arena, ma sugli scranni dei giudici. Tutto questo viene restituito da una musica che utilizza diversi generi, con colori diversissimi. È impossibile individuare uno stile, il linguaggio cambia ogni cinque pagine.

Ma come si tiene insieme un lavoro che svaria dai riferimenti alle passioni bachiane al jazz?

Con il carisma della protagonista, è lei che tira lo spettacolo, in questa edizione è Romane Bohringer. Il mio compito è mantenere un filo di tensione drammatica costante.

La Giovanna d'Arco al rogo è sicuramente una macchina teatrale pensata per delle grandi figure di protagonista - è stata scritta per Ida Rubinstein ed è stata interpretata tra le altre da Ingrid Bergman - ma al tempo stesso si basa su un rapporto tra testo e musica molto innovativo?

Ci sono momenti in cui la musica si ferma e l'opera diventa teatro di prosa. In altri momenti il parlato di Giovanna è messo assieme precisamente con l'orchestra e con altre voci che commentano quello che sta dicendo. È un atteggiamento molto moderno. La difficoltà sta nel trovare un bilanciamento tra la precisione e la libertà, elementi entrambi necessari. Quando la parte è scritta dettagliatamente non si deve pretendere dall'attrice che lo scandisca in modo matematico, al tempo stesso la libertà non può portare all'anarchia. Bisogna trovare dei punti di convergenza tra orchestra, coro e solisti. In quei punti bisogna stare tutti insieme, tra un momento d'incontro e l'altro si può lavorare con più agio. Ci vuole fantasia.

Honegger e Claudel avevano una vena molto diversa, il primo rigoroso e asciutto, il secondo travolgente, quasi fluviale. Chi ha fatto un passo indietro per trovare una sintesi?

Sicuramente Honegger. Il libretto è la cosa principale di questo pezzo, ma il talento di Honegger si esprime soprattutto nella sua capacità di proiettarsi verso la conclusione. Lui ha una visione precisa dei finali, in qualsiasi lavoro. Parte sapendo esattamente dove vuole arrivare e sceglie dei percorsi. In questo caso la scena del rogo, una conclusione ovvia che stiamo tutti aspettando, viene preparata da una serie di marce che con diverse andature conducono per mano l'ascoltatore verso il patibolo, con lentezza, ma inesorabilmente. Se l'allestimento funziona è un effetto molto cinematografico. Il compositore, inoltre, pur rimanendo fedele al testo di Claudel, ne ha enfatizzato alcuni aspetti modificando gli accenti di alcune parole:  hérétic, sorcière, cruel, ad esempio, vengono musicati tutti con l'accento sulla prima sillaba, sbagliato in francese ma assolutamente giusto in questo ambito perché amplifica l'effetto drammatico, porta con sé un certa severità e crea un'inquietudine in chi ascolta.

Questo allestimento è una forma non definibile precisamente:  è molto mosso per essere un oratorio e troppo statico per essere un'opera. Come si trova il bilanciamento tra questi due estremi?

Fin dall'inizio abbiamo deciso che non avremmo fatto solo un concerto, ma il pezzo ha bisogno comunque di un sostegno visivo, che crei un mondo attorno alla figura della protagonista. Ci sono ovviamente degli elementi statici, come l'orchestra e il coro, ma ci sono anche scene, video, luci, soprattitoli, movimenti. La scena è formata da un grosso parallelepipedo avvolto da teli sui quali verranno proiettate delle immagini, tra le altre le carte del processo. Dentro alla struttura c'è una sedia enorme, sulla quale si muoverà un mimo. La protagonista, starà su una pedana davanti. L'orchestra e il coro dietro. Per tenere tutto insieme occorre senso della misura, ma soprattutto ci vuole naso.



(©L'Osservatore Romano 10 ottobre 2008)
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