A colloquio con Vincenzo Saraceni, presidente dell'Amci

La malattia non è uno spettacolo


"In una storia di servizio alla Chiesa e al mondo della salute e della sofferenza che dura da oltre sessant'anni, potrei ricordare tanti eventi che hanno segnato il nostro cammino - spiega Vincenzo Saraceni, presidente dell'Associazione medici cattolici italiani (Amci), tracciando un breve bilancio degli anni trascorsi - voglio ricordare l'evento che ritengo più straordinario, quando Giovanni Paolo II venne al congresso mondiale dei medici cattolici organizzato dall'Amci a Roma nel 1982. Osammo chiedere al Papa un pronunciamento sul tema della sofferenza; credo di poter dire che la Dolentium hominum istitutiva del dicastero pontificio per la Pastorale degli Operatori Sanitari e la lettera apostolica Salvifici doloris rappresentano il frutto provvidenziale di quell'incontro.

Nel medioevo, al momento della morte di un monaco, tutto il monastero si riuniva per accompagnare la sua "nascita al cielo". La nostra cultura, invece, censura la morte e il dolore, o li rende un pretesto per battaglie ideologiche senza reale amore e rispetto per il singolo.

È vero che la cultura contemporanea, nella sua lettura massmediatica, vuole esorcizzare la morte di cui ha paura perché per essa non trova giustificazioni appaganti. In Italia, comunque, permangono ancora costumi che circondano la morte del suo significato sacrale, come le ancora molto diffuse manifestazioni popolari di omaggio rituale reso ai parenti defunti che non sono solo espressione spontanea di religiosità ma anche manifestazione di radicato convincimento di "colleganza" con i propri defunti. Credo che l'uomo, a prescindere dalle proprie convinzioni religiose, debba accettare che la morte è una delle componenti del vivere e che, anzi, il nostro vivere quotidiano cambia nella misura in cui si riflette su questo destino.

Al desiderio della vita eterna si sostituisce spesso il desiderio di una "vita interminabile". Colpa dei medici, degli scienziati o dei media?

L'aspetto più preoccupante è che la cultura della vita sia oscurata a tal punto che una donna possa decidere di usare un farmaco abortivo solo di fronte alla possibilità teorica di essere in gravidanza. È ancora più sconcertante che il messaggio che questo costume obiettivamente finisce con il lanciare è quello della banalizzazione della pratica abortiva che rimane, sotto qualsiasi punto di vista lo si voglia considerare, comunque un dramma, una decisione sofferta, in cui troppo spesso la donna rimane sola.

Eluana Englaro è al centro di una battaglia giudiziaria che ha fatto da spartiacque nella giurisprudenza italiana, tanto da determinare la necessità di una legge sulla fine vita. Eluana è in stato vegetativo da sedici anni ma è viva e la sua condizione è un mistero. La sua presenza interroga tutti sul significato della vita, sul vero compito della medicina

Per noi cattolici la vita è sacra ma comunque essa deve costituire un bene non disponibile e il medico, secondo la plurimillenaria tradizione ippocratica, è posto a tutela della vita. Questo mi sembra sia scritto nella nostra Costituzione e abbiamo per questo sempre ritenuto che una legge sulla fine della vita non fosse necessaria e che la soluzione dei problemi difficili posti dalla sofferenza, a volte veramente atroce, possa ricercarsi nell'alleanza tra medico, malato e famiglia. Ma le recenti sentenze sul caso Englaro ci stanno orientando ad accettare una legge che con chiarezza escluda qualunque ipotesi di eutanasia.



(©L'Osservatore Romano 5 novembre 2008)
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