I novant'anni di monsignor Giovanni Nervo, fondatore della Caritas italiana

La povertà maggiore
è la mancanza di fede


di Gaetano Vallini

"Sono stato come un capo cordata in una scalata alpina, che inevitabilmente ha più visibilità nei media, ma la scalata è egualmente di tutti". Usa questa immagine monsignor Giovanni Nervo, novant'anni oggi, 13 dicembre, per sottolineare il suo personale contributo alla storia della Caritas italiana. Fu a lui che trentasette anni fa i vescovi affidarono l'incarico di farla nascere. In un'altra intervista in occasione del venticinquesimo della fondazione, con lo stesso sorriso imbarazzato, usò un'immagine differente, ma il concetto era lo stesso:  "Non ho fatto altro che prendere un pullman che qualcuno mi ha messo in mano e guidarlo". E a quanti ancora oggi lo indicano come il "fondatore" della Caritas risponde "che non è vero"; e precisa:  "Giuridicamente il fondatore della Caritas italiana è stato il cardinale Poma, presidente della Conferenza episcopale italiana (Cei), che il 2 luglio 1971 firmò il decreto di costituzione. Culturalmente e spiritualmente il fondatore è stato Paolo VI, con il suo discorso al primo convegno delle Caritas diocesane nel settembre 1972. Organizzativamente è stato un gruppo di amici, sacerdoti e laici, su mandato della cei, che ci hanno creduto fermamente e ci hanno lavorato con piena dedizione". Tutto giusto. Ma il suo è stato un contributo essenziale.
Nato nel 1918 a Casalpusterlengo (Milano) in una famiglia povera e sfollata per la guerra, ordinato sacerdote nel 1941 nella diocesi di Padova, monsignor Nervo è stato protagonista diretto di 15 anni di vita della Caritas, quattro come presidente e dal 1975 al 1986 come vicepresidente (lo statuto definitivo prevedeva un vescovo alla presidenza). Con lui la Caritas ha mosso i primi passi e compiuto le iniziali scelte strategiche, cercando di diffondere una cultura della solidarietà anche fuori dall'ambito ecclesiale. Lasciata la vicepresidenza per scadenza del mandato, è stato coordinatore per cinque anni dell'ufficio Chiesa-Istituzioni della Cei, ma ha continuato a occuparsi della Caritas della quale è "membro a vita" del consiglio nazionale. Nel 1996 ha ricevuto la laurea ad honorem in Economia dall'università di Udine e nel 2003 in Scienze dell'educazione dall'università di Padova. Attualmente è presidente onorario della Fondazione Emanuela Zancan.
Per molti Giovanni Nervo - una vita in prima linea, sulle frontiere della povertà, alla ricerca di risposte concrete - resta un punto di riferimento. Ancora oggi quando in un convegno lo si cita o lo si ascolta in uno dei suoi appassionati interventi, lo si fa con l'ammirazione, la stima e la riconoscenza dovute a un maestro. La sua è la testimonianza preziosa di un cammino importante che ha visto impegnata la Chiesa italiana a interpretare e a vivere la dimensione della carità.

Monsignor Nervo, nella Chiesa che stava cominciando a recepire lo spirito del concilio Vaticano ii quale fu la novità della Caritas?

Bisogna tener presente che quando nel 1971 è stata istituita la Caritas italiana, da trent'anni operava in Italia un grande organismo caritativo assistenziale:  la Pontificia opera assistenza (Poa), attiva nelle diocesi attraverso le Opere diocesane di assistenza (Oda). Era un grande organismo erogatore di beni e di servizi, strumento del Papa per sostenere la popolazione nel periodo della guerra e del dopoguerra con gli aiuti dei cattolici americani. Cambiata la situazione economica e sociale del Paese, nel 1970 Paolo VI sciolse la Poa e sollecitò la Cei a darsi un proprio organismo pastorale caritativo, però con un'altra impostazione, in sintonia con il rinnovamento conciliare, cioè con una funzione di animazione e coordinamento, molto bene espressa nel citato discorso di Paolo VI:  "Non è concepibile che il popolo di Dio cresca nello spirito del Vaticano ii se tutti i suoi membri non si fanno carico dei bisogni di chi è in difficoltà". Era l'indicazione alla prevalente funzione pedagogica della Caritas. Essa ha poi contribuito a far crescere la consapevolezza che la carità non è marginale nell'esperienza della fede, proponendo, nello spirito del Concilio, la Chiesa come comunità di fede, di preghiera, di carità in continua osmosi fra di loro.

Ritiene che con le sue posizioni, non di rado di frontiera, la Caritas abbia svolto un ruolo in qualche modo profetico nella Chiesa e nella società italiana?

Ci siamo posti nell'atteggiamento interiore di Papa Giovanni XXIII quando scriveva il diario:  con l'attenzione a cogliere i messaggi che il Signore gli mandava, attraverso la sua parola, le ispirazioni interiori, i fatti della vita ed essere più pronto a rispondere con fedeltà. Noi abbiamo colto dei messaggi, per esempio, nell'accoglienza dei profughi vietnamiti, nel volontariato, nel servizio civile degli obiettori di coscienza, e così via. Abbiamo richiamato l'attenzione delle comunità cristiane su questi messaggi e ci siamo trovati in prima linea per rispondere con fedeltà. Tra molte altre esperienze di prima linea una in particolare l'abbiamo vissuta come segno concreto di speranza:  i gemellaggi nati dopo il terremoto del Friuli ed estesi poi ad altre situazioni analoghe. Nell'estate del 1976 si stimava che nel Friuli fossero presenti circa diecimila volontari. Pensammo:  verrà l'autunno e l'inverno, gli studenti andranno a scuola, gli operai al lavoro; questa gente rimarrà sola. Proponemmo alle diocesi e alle Caritas diocesane che ciascuna si facesse carico di un Paese gravemente colpito, non tanto per mandare soldi o altre aiuti, ma perché a rotazione un gruppo di volontari andasse a vivere con loro, per condividere le loro difficoltà. Risposero circa ottanta diocesi:  fu un'esperienza splendida di comunione umana ed ecclesiale. Ricordo quando accompagnai il direttore della Caritas di Pavia a Braulins, un paesino completamente distrutto:  chiese al sindaco di che cosa avessero bisogno. Il giovane sindaco ci pensò un po' e poi disse:  "Che facciate coraggio a questa gente". Così alcuni volontari posero la tenda lì e rimasero con loro. È la carità che si fa condivisione.

Qual è stato il ruolo della Caritas italiana nello sviluppo del volontariato nel Paese?

La Caritas organizzò il primo convegno nazionale del volontariato a Napoli nell'autunno 1975:  parteciparono oltre 300 persone, prevalentemente giovani, da varie parti d'Italia, di orientamenti culturali e politici diversi, con una forte carica di cambiamento. Di quel convegno nella letteratura del volontariato non si trova traccia. Per l'opinione pubblica il volontariato appariva ancora un fenomeno insignificante. Ci rendemmo conto che il nuovo volontariato era diverso da quello tradizionale, prevalentemente di carattere assistenziale. Come Caritas italiana ci impegnammo fortemente nella formazione e lasciammo invece l'organizzazione e la rappresentanza al Mo.V.I. (Movimento di volontariato italiano), promosso e fondato da Luciano Tavazza.

Dall'"altruismo ingenuo" e spontaneo si è dunque passati all'impegno responsabile e organizzato di oggi. Tuttavia di recente lei ha affermato di temere che il volontariato perda la sua anima, cioè la gratuità. Da dove nasce questa sua preoccupazione?

Negli ultimi trent'anni nel volontariato c'è stato un profondo cambiamento. Quando organizzammo quel primo convegno, il volontariato era servizio completamente gratuito, i partecipanti si erano pagati loro le spese di viaggio e di soggiorno. I primi servizi venivano svolti esclusivamente da volontari. Ma quando poi, per rispondere in modo efficace ai bisogni, si passò a servizi strutturati, con personale qualificato a tempo pieno e quindi equamente remunerato, il volontariato non era più sufficiente. Allora si diede vita alle cooperative di solidarietà sociale. In seguito si diffuse ampiamente l'idea del volontariato e anche un po' la sua mitizzazione. Ne nacque anche una certa confusione, perché si applicò il nome di volontariato a tutte le espressioni di solidarietà sociale. Le cooperative sociali hanno grande valore, ma non sono volontariato, ma imprese sociali; le associazioni di promozione sociale (Acli, Agesci e così via) hanno grande valore sociale, ma non sono volontariato. L'elemento costitutivo del volontariato è la gratuità:  un volontariato pagato non è volontariato, è un'altra cosa. Per stimolare la riflessione su tutto questo ho dato un titolo provocatorio a una mia recente pubblicazione:  "Ha un futuro il volontariato?". La gratuità è l'anima del volontariato:  se perde la sua anima è morto. Ricordo che ancora trent'anni fa ebbi a dire, suscitando qualche reazione:  "Stiamo attenti, perché di soldi il volontariato può anche morire". A maggior ragione lo ripeterei oggi.

Se dovesse raccontare il momento più significativo nella sua personale esperienza alla Caritas quale citerebbe?

Un incontro con Paolo VI, ai margini di una udienza generale, durante un convegno nazionale delle Caritas. Ci avevano messi davanti in prima fila. Quando il Papa è arrivato a me, ha chiesto al maestro di camera chi ero. Gli hanno detto il mio nome. Ha preso le mie mani tra le sue mani con intenso affetto, e mi ha detto:  "Continuate, continuate, andate avanti; non scoraggiatevi, senza premere troppo, ma andate avanti". Io non capivo, e sinceramente mi pesava quel "senza premere troppo". Ricordo che, ritornato nell'assemblea del convegno chiesi subito pubblicamente a monsignor Bartoletti, segretario della Cei, che la presiedeva:  "Se la Cei ha qualche cosa da dirci, per favore ce lo dica:  non ce lo mandi a dire dal Papa". Ho risolto l'enigma quattro anni dopo. Nel terremoto del Friuli la diocesi di Bologna si era gemellata con Resia, un paese completamente distrutto della Carnia. Il cardinale Poma, arcivescovo di Bologna, era andato a far visita al paese gemellato. Ci trovammo a cena con l'arcivescovo di Udine, monsignor Battisti. Loro parlavano, io ascoltavo. Qualcuno fece osservare il mio silenzio. Il cardinale Poma disse:  "Sì, tace, ma fa", e ci raccontò che qualche giorno prima di quella famosa udienza era stato dal Papa, che gli aveva chiesto:  "L'avete fatta la Caritas?". "Sì, santità". "E chi ci avete messo a capo?". Il cardinale fece il mio nome. "Ma si muove, fa?", aveva chiesto il Papa. "Sì, Santità, anche troppo". Di qui il suggerimento detto con tanto affetto:  "Senza premere troppo".

C'è qualcosa che avrebbe voluto fare e che invece non è riuscito a realizzare?

Forse nel cambio delle persone non siamo riusciti a trasmettere sufficientemente l'impegno della "prevalente funzione pedagogica" della Caritas e non siamo riusciti a promuovere adeguatamente autentiche "Caritas parrocchiali" che sono lo strumento fondamentale per l'animazione della carità nelle comunità cristiane, e a realizzare quindi in concreto la prevalente funzione pedagogica che Paolo VI aveva assegnato alla Caritas, per far crescere la parrocchia come comunità di fede, di preghiera, di carità.

Qual è stato il principale insegnamento che ha tratto dalla sua lunga esperienza nella Caritas?

Che la prima carità è il Vangelo, perché la povertà maggiore è la mancanza di fede, e che per molti, che forse crederanno di non essersi mai incontrati con Gesù Cristo, la carità sarà l'ottavo sacramento che li salva.



(©L'Osservatore Romano 14 dicembre 2008)
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