A colloquio con Sua Beatitudine Emmanuel III Delly, patriarca di Babilonia dei Caldei

La Chiesa irachena
tra sofferenze e speranza


di Mario Ponzi

È una Chiesa che chiede aiuto quella in Iraq. A rilanciarne "il grido di dolore e di disperazione" sono stati i suoi vescovi, a Roma nei giorni scorsi per incontrare il Papa nella visita ad limina Apostolorum. I presuli iracheni, si ricorderà, hanno colto l'occasione della loro presenza nell'Urbe per partecipare ad alcuni eventi legati alle vicende della loro terra, e per sottolineare quello che non hanno esitato a definire l'"assordante silenzio" che ha accompagnato il drammatico evolversi della situazione in cui vivono i cristiani nel loro Paese. Hanno denunciato l'esodo in massa di milioni di persone, tra le quali sempre più numerose i cattolici. Si calcola che più del cinquanta per cento abbiano dovuto lasciare le loro case negli ultimi cinque anni. Oggi quella cattolica è una comunità di minoranza, ma nei secoli passati ha svolto un ruolo fondamentale nella costruzione della società irachena.
I vescovi si rivolgono alla comunità internazionale e chiedono aiuto perché a loro "non è rimasta che la forza della preghiera - ha detto Sua Beatitudine Emmanuel III Delly, patriarca di Babilonia dei Caldei nell'intervista rilasciata al nostro giornale prima di ripartire da Roma - e la speranza nel grande amore di Dio". Una speranza rinvigorita dalle parole del Papa il quale ha ricordato che i cristiani sono "cittadini a pieno titolo con i diritti e i doveri di tutti". Ed è andato oltre Benedetto XVI invocando la fine delle violenze e delle persecuzioni e l'inizio di una stagione per consentire a tutti "di vivere nella sicurezza e nella concordia reciproca". Ma il Papa ha anche ricordato ai vescovi iracheni che in questo processo "la Chiesa è chiamata a svolgere un ruolo fondamentale in vista dell'edificazione di una società nuova".

Quella presentata al Papa in questi giorni è la figura di una Chiesa in grado di svolgere, o meglio ha i mezzi per svolgere questo ruolo?

Siamo venuti qui a mostrare innanzitutto al Papa il nostro attaccamento alla Chiesa e al suo capo visibile. Questa è la nostra Chiesa, che vuole essere legata alla Chiesa universale. Una Chiesa fondata soprattutto sull'amore, sull'amore che ci unisce come Chiesa locale e poi come Chiesa universale. Una Chiesa dunque che si presenta nella piena fedeltà al mandato che le è stato affidato dal suo fondatore e pronta a compiere comunque la missione di cui è depositaria.

In Medio Oriente si assiste a una sempre più consistente emigrazione di fedeli cristiani che sta assumendo, almeno a quanto rivelato da diversi vescovi del Paese, proporzioni rilevanti. Come mai questa fuga massiccia?

È una vicenda dolorosa. Nessuno dovrebbe emigrare, perché nessuno deve emigrare; nessuno dovrebbe lasciare il proprio Paese; non dobbiamo lasciare il Medio Oriente, che è la terra amata dal Signore. Dio ha voluto questo Paese. Il Signore, il Verbo incarnato, ha scelto questo Paese, il Medio Oriente, per farsi uomo. Dunque non dobbiamo lasciare questo Paese. Anche se ci sono uomini che lo vogliono, noi dobbiamo impedire che ciò accada. Dobbiamo fare tutto il possibile affinché il nome del Signore sia sempre lodato in questa terra, nel Medio Oriente. Per questo io dico che dobbiamo rimanere nel nostro Paese, a qualunque costo.

Ciò non toglie però che i cristiani continuano ad abbandonare il Medio Oriente.

Noi non possiamo impedirlo. Gli uomini sono liberi e liberi devono restare. Liberi di cercare ciò che ritengono sia il meglio per loro. Noi siamo convinti che il meglio per ogni uomo sia ciò che riesce a custodire nella sua devozione, ciò che riesce a offrire in carità e in solidarietà ai suoi stessi fratelli.

Se questo è il messaggio che trasmettete ai fedeli e loro continuano a scegliere l'esodo probabilmente c'è qualche cosa che li spinge a scegliere questa via piuttosto che restare.

Come le ripeto l'uomo è libero. Chi sceglie di emigrare lo fa perché è convinto di trovare qualcosa di meglio in un altro Paese. Noi rispettiamo questo grande dono che ci ha dato il Signore, la libertà. Ma guai a confonderla con il liberismo, quello che priva dei principi, quello che lascia senza scopi e senza valori. Da parte nostra facciamo tutto quanto è nelle nostre possibilità per convincere la gente a restare in questo Paese, a restare nel Medio Oriente in generale proprio per non svuotare quella che è stata la terra prediletta del Signore, quella che ha amato più di tutto. Cerchiamo di far amare questa terra collaborando con tutti, offrendo il nostro amore e la nostra testimonianza di vita cristiana. Questo è il nostro dovere e questo facciamo.

Nel rendere questa testimonianza è inevitabile il confronto quotidiano con la comunità musulmana.

Sono tredici secoli che viviamo insieme, gli uni accanto agli altri. Continueremo a vivere così. Sono molto buoni i rapporti con i fratelli musulmani. Sono nostri fratelli. Dobbiamo pregare per loro come loro pregano per noi l'unico Dio.

Quale ruolo interpretano i laici nella vita della Chiesa in Iraq?

Noi chiediamo ai nostri laici soprattutto di essere un esempio per gli altri. Se sapranno vivere insieme tra loro e con gli altri, se sapranno testimoniare l'amore di Dio per tutti gli uomini, se impareranno realmente a pregare uno per l'altro allora non ci sarà più alcuna uccisione, non vi saranno più attentati terroristici. Se si fosse già instaurato questo clima di fraternità reciproca nella preghiera forse non dovremmo oggi piangere tante vittime, neppure monsignor Paulos Faraj Rahho, l'arcivescovo di Mossul, rapito il 29 febbraio dello scorso anno e ritrovato morto il 14 marzo successivo. Vittime dell'odio di uomini. Dovere dei laici è dunque impegnarsi nella vita della Chiesa e diffondere il messaggio di pace del Vangelo.

Dov'è maggiormente radicata la presenza della Chiesa nella società irachena?

Ci impegniamo in tanti settori ma io dico sempre che prima di tutto dobbiamo far sì che la Chiesa si radichi nei cuori del nostro popolo, nel cuore di tutti gli uomini. Allora sì che la Chiesa sarà presente nelle diverse realtà del Paese:  dovunque ci sarà un uomo buono, devoto, aperto all'amore fraterno e solidale lì sarà radicata la Chiesa.

In cosa si traduce in questo periodo innegabilmente difficile la vicinanza della Chiesa con la popolazione irachena?

Soprattutto in una proposta, l'unica che ci può salvare in questo momento:  amatevi gli uni gli altri, lodate il Signore con la vostra vita.

E per il futuro cosa si prospetta? quali sono le attese della gente, soprattutto in vista delle ormai prossime elezioni?

Dobbiamo solo pregare affinché il Signore ci aiuti e ci metta nelle condizioni di poter continuare a rendergli lode nonostante tutte le difficoltà. Difficoltà, sia chiaro, create da uomini per altri uomini. Sono gli uomini infatti che crean0 difficoltà, tutte le difficoltà. Noi ci dobbiamo impegnare affinché nessuno crei più né problemi né difficoltà. Del resto tutti i Paesi hanno difficoltà e problemi.

Però per l'Iraq si profila una situazione forse finalmente diversa da quella vissuta in questi ultimi tempi?

Lo speriamo vivamente. È di giorno in giorno una prospettiva diversa, verso il bene. Preghiamo per questo.



(©L'Osservatore Romano 1 febbraio 2009)
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