A colloquio con monsignor Enrique Eguía Seguí, vescovo ausiliare di Buenos Aires
e segretario generale della Conferenza episcopale argentina in visita «ad limina Apostolorum»

La fede non si acquista in un supermercato


di Nicola Gori

Non si può ridurre il fenomeno religioso a un supermercato della fede, dove ognuno prende ciò di cui ha bisogno a seconda del giorno e delle necessità. Nemmeno si può considerare l'offerta religiosa come qualcosa di accettabile in toto ed equiparabile in ogni sua espressione. Occorre parlare chiaramente, perché se da un lato il grande movimento della religiosità popolare è profondamente inciso nel cuore degli argentini, dall'altro, rappresenta una sfida per la Chiesa che cerca di far crescere e maturare tra la gente una fede autentica. Lo dice il vescovo Enrique Eguía Seguí, ausiliare di Buenos Aires e segretario generale della Conferenza episcopale argentina nell'intervista al nostro giornale, alla vigilia della visita ad limina dei presuli argentini.

Secondo le ultime statistiche dell'annuario pontificio, i cattolici in America del Sud non sono in aumento numericamente, ma hanno subito una leggera flessione. Qual è la situazione in Argentina?

Quando si parla di America Latina, si deve tener conto del grande movimento che riguarda la religiosità popolare. Con ciò non voglio dire che questo sia sufficiente per dirsi praticanti. L'Eucaristia è il culmine e la pienezza della vita cristiana. Comunque, la maggioranza del popolo argentino si dice cattolico. Le ultime inchieste fatte dal Conicet (Consiglio nazionale delle ricerche scientifiche e tecniche) indicano delle percentuali abituali, quasi un 80 per cento di cattolici sul totale della popolazione. Vi è una scala di valori naturali che sono ben radicati nella famiglia e che sono aperti alla trascendenza e all'aspetto religioso. Mi riferisco in particolare al fatto che la gente si avvicina alla comunità ecclesiale in alcuni momenti importanti della vita, come il battesimo, i funerali, la devozione ai santi. Tutto ciò si riflette chiaramente nella vita religiosa che gravita intorno ai santuari. È vero che la grande maggioranza del popolo argentino - che ha questa religiosità profondamente incisa nel cuore -, a volte non segue il cammino ordinario della partecipazione all'Eucaristia domenicale. D'altra parte, non possiamo dire che vi sia una perdita della fede nel Paese, perché la gente non si reca alla messa; piuttosto, quello che ci interpella è la sfida di sostenere una fede che nasce da un'esperienza di vita nella propria cultura religiosa. Occorre sostenere questa fede, accrescerla e fortificarla. Per questo, ci siamo proposti un obiettivo già da molti anni, indicato chiaramente in alcuni orientamenti e documenti.
Tutte le realtà ecclesiali dell'Argentina hanno lavorato in questo campo con una spirito di comunione, perché tutti si sentano integrati e facciano l'esperienza di appartenenza alla Chiesa. A questi progetti, vi uniamo il grande impulso missionario fornito dal documento di Aparecida. Questa sfida di definire l'identità di discepoli missionari è stata pienamente accolta dalla Chiesa argentina. Questo ci aiuterà a sostenere una catechesi permanente e fortificare l'identità del discepolo, che implica un forte incontro con Cristo e, allo stesso tempo, un impegno nella fede con un atteggiamento missionario. La grande sfida della Chiesa non è quindi tanto l'evangelizzazione dei non credenti, ma di far crescere la fede dei credenti. Procediamo su questo cammino, senza lasciar da parte l'altro aspetto che riguarda la necessità di evangelizzare la cultura per giungere a tutti.

Ha citato Aparecida. Come la Chiesa argentina ne mette in pratica le conclusioni?

Stiamo ancora lavorando sul come approfittare del contenuto del documento di Aparecida. Si tratta di un lavoro molto lento, perché veniamo a contatto con i forti valori che contiene. Per il momento, il primo passo che la Chiesa ha compiuto è stato quello per lo più di scoprire il carattere missionario della pastorale ordinaria. Innanzitutto, si tratta di lavorare sempre con un'ottica missionaria:  dai battesimi, alle catechesi, agli incontri biblici, alla pastorale sacramentale, alle scuole. Occorre, cioè, dare una dimensione missionaria alla pastorale ordinaria, non accontentandoci semplicemente di accogliere quelli che vengono a noi, ma approfittare dell'opportunità per promuovere un impegno maggiore nelle parrocchie.
Si parla anche di arrivare a un modello di parrocchia missionaria. Questo è il primo aspetto già assimilato, dato che ogni diocesi ha il proprio piano pastorale. Devo ammettere che è complicato trasformare i piani pastorali, perché occorrono uno sforzo e una creatività molto grandi per fare dell'ordinario un'opportunità missionaria. L'altro aspetto nel quale dobbiamo progredire, come chiede anche Aparecida, è la realizzazione di gesti missionari concreti. Ci si deve dedicare a missioni programmate, dobbiamo uscire per le strade per avvicinare l'uomo in tutti gli ambienti, culturali, politici, sociali. Possiamo dire che la missione avviata ad Aparecida in Argentina si sviluppa attraverso due direzioni che sgorgano da una stessa origine:  la riscoperta di un'identità missionaria vera e propria, cosa che implica un profondo rinnovamento; è la realizzazione di gesti concreti che ci aiutino ad arrivare a tutti.

Le sette costituiscono ancora un problema per l'Argentina come per gli altri Paesi dell'America del Sud?

Non credo che sia un fenomeno attualmente molto in crescita. Notiamo che la gente che frequenta le sette molte volte rimane delusa, cambia idea spesso e facilmente passa da una all'altra. Il problema odierno non sono tanto le sette, quanto un'esperienza religiosa molto mobile ed eclettica:  la gente va in una setta, va in un'altra Chiesa e, allo stesso tempo, frequenta anche la Chiesa cattolica. Non è tanto l'influenza delle sette quanto piuttosto il fatto che la gente ha una vita religiosa nella quale tutto è vissuto nello stesso modo; ognuno si sente libero di andare a un santuario della Vergine, e senza problemi il giorno dopo, partecipare a un'assemblea di una setta e poi di nuovo tornare in Chiesa. È un fenomeno che riguarda soprattutto quanti abitano nei quartieri più popolari. È qui che la gente entra ed esce molto rapidamente da una setta all'altra. Per questo, nelle zone popolari ci siamo preoccupati moltissimo di poter mantenere aperte le cappelle, per assicurare una presenza cattolica.

Qual è la vostra più grande preoccupazione?

La nostra preoccupazione principale è che siamo in un tempo in cui tutto è vissuto sullo stesso piano. Ci chiediamo come mostrare che, in realtà, l'esperienza della fede nella Chiesa cattolica è la più completa, e che non è la stessa cosa stare oggi qui e domani là, e dopo domani cambiare ancora idea. Credo che in questo caso siamo in linea con il modo in cui viene considerato il fenomeno religioso nella cultura contemporanea. Esso appare come un grande scaffale del supermercato nel quale ogni giorno si sceglie un involucro diverso di uno stesso prodotto. A volte ciò sembra veramente così:  un supermercato della fede, dove dipende dalla mia necessità la scelta della Chiesa di cui oggi ho bisogno, per sceglierne magari un'altra domani. La grande sfida è di poter proporre la fede cattolica come quella che offre pienezza nell'esperienza religiosa.

Nell'ambito della difesa della vita e della dignità della persona umana, come si muove la Chiesa in Argentina?

La Chiesa argentina celebra il "giorno del bambino", che in relazione al tema della difesa della vita è fissato al 25 marzo, solennità dell'Annunciazione. La Chiesa vi aderisce sia a favore della difesa della vita sia per sensibilizzare l'opinione pubblica sui bambini non nati. Come comunità ecclesiale cerchiamo di impiegare un linguaggio positivo per difendere la vita, dal momento del concepimento, e della sua dignità. In Argentina si tenta anche di vincolare la difesa della vita con la dignità umana e la necessità di lavorare contro l'esclusione e la povertà. Il messaggio della Chiesa va in questa direzione.

Cosa fa la Chiesa per combattere la povertà e aiutare i più sfortunati?

La Caritas è presente capillarmente nel Paese ed è molto stimata dalla gente. Se c'è qualcosa che unanimemente si riconosce alla Chiesa è la sua credibilità nell'ambito sociale con l'offerta di aiuto ai più poveri. Nello svolgere questo servizio vi è moltissima creatività e autonomia da parte di tutte le seimila parrocchie del Paese. Pertanto, ogni centro evangelizzatore ha una sua Caritas, dove la solidarietà è sempre ben esercitata. Certamente, l'organizzazione deve essere migliorata. Però, un fatto va riconosciuto:  è stata sempre molto efficace come strumento per evangelizzare. La Caritas non offre solo cibo, vestiti e denaro, ma anche, insieme con il gesto della carità, il messaggio del Vangelo, con un atteggiamento di accoglienza e di comprensione.



(©L'Osservatore Romano 14 marzo 2009)
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