Colloquio con il senatore a vita Oscar Luigi Scalfaro

De Gasperi?
Un fuoriclasse assoluto


di Carlo Di Cicco

Sessanta anni di impegno politico che hanno attraversato l'intera storia dell'Italia repubblicana. In questa intervista a "L'Osservatore Romano" il senatore a vita Oscar Luigi Scalfaro - presidente della Repubblica dal 1992 al 1999 - racconta la sua esperienza di cristiano "ancora impegnato" e spiega quali sono, a suo avviso, i criteri dell'azione politica, che "deve essere anzi tutto pensiero".

Lei ha partecipato ai lavori della Costituente. Ci può dire perché è così appassionato nella difesa della Costituzione?

Quando ripenso alla prima seduta dell'Assemblea costituente come l'ho vissuta - giovane magistrato, al quale venne chiesto di candidarsi - ricordo che mi colpì molto, quel 25 giugno 1946, il gruppo democristiano. Era il maggiore - con 207 seggi, seguito dai socialisti con 115 e dai comunisti con 104 - dei grandi partiti popolari. Constatai che i giovani erano numerosi e tutti provenienti dall'Azione cattolica. Si disse che era stato dato un ordine preciso. Vero è che l'Azione cattolica aveva educato i giovani a operare nella comunità della quale facevano parte. Non avremmo la Costituzione che abbiamo se non ci fosse stata questa forte presenza di cattolici ben preparati e capaci di dialogare con chi aveva pensiero diverso. La nostra Costituzione fu considerata il meglio di quanto scritto fino allora. Oggi la politica è cambiata. Suona grande richiamo l'affermazione di Paolo VI che "la politica è il più alto atto di carità". Cioè, è per la polis, è "per gli altri". Il male maggiore è quindi una politica che non sia al servizio degli altri. Questo è antipolitica.

Quando parla della Costituente sottolinea che era composta per buona parte da giovani. I giovani di oggi sono gli eredi di questa Costituzione? Sono interessati a essa?

Non solo giovani, c'erano persone mature e anziani. Oggi sono soprattutto impegnato con molti giovani, e noto grande interesse per la Costituzione, per l'epoca e le ragioni che l'hanno generata; ma essi lamentano mancanza di punti di riferimento. Noi da giovani ne avevamo in abbondanza sia nella società civile, sia nel mondo religioso. Ricordo il presidente del mio circolo cattolico, un impiegato di banca, persona di eccezionale trasparenza. Era facile trovare nel mondo della scuola professori di assoluto valore. I giovani, se vengono interessati a temi fondamentali, hanno un risveglio forte e sanno ben distinguere tra la coerenza dei principi e la miseria del compromesso, inteso in senso deteriore.

La Costituzione ha recepito i Patti lateranensi che nella società italiana sono sempre rimasti un punto controverso. Come valuta quegli accordi e la decisione di inserirli nella carta costituzionale?

Sul piano giuridico si è discusso:  perché prendere un trattato, che può essere modificato con la volontà delle parti, e inserirlo nella Carta che si prevede abbia una durata certamente maggiore? Ricordo quando Francesco Saverio Nitti si rivolse più volte alla Democrazia cristiana perché rinunziasse a questa proposta. Poi allargò il discorso per esprimere la gratitudine a Pio XII per quanto aveva fatto durante la guerra - e in particolare gli aveva comunicato che suo figlio, ritenuto morto, era vivo e prigioniero - e, con una forte conflittualità interiore che ci commosse profondamente, concluse il suo intervento in aula:  "Epperciò se non si trova una forma conciliativa che possa riunire tutti, e l'articolo 5 diventa materia di divisione e conflitto col Vaticano, io anche con il sacrificio delle mie idee, se necessario, voterò per l'articolo 5" [il riferimento all'articolo dei Patti Lateranensi che poi diventerà l'articolo 7 nella stesura finale della Costituzione]. Sul piano politico la chiusura della questione romana fu un passo grandioso. Anche Togliatti, con acuto intuito politico, votò in favore. Certo, Mussolini, con i Patti Lateranensi, di fronte alla Chiesa e al mondo cattolico aveva incassato una considerevole vittoria. De Gasperi, che dal fascismo aveva subito persecuzione e carcere, di fronte alla Chiesa che aveva trattato con i suoi persecutori, parlando al gruppo democristiano diede ragione all'operato della Chiesa che contribuiva efficacemente alla  pacificazione tra credenti e cittadini. Lo ascoltammo con grande emozione.

Ma questi rapporti tra la Chiesa e lo Stato vi hanno creato qualche volta dei problemi?

La Chiesa ha certamente sempre il diritto di dire il suo pensiero. In genere ha rispettato la libertà dei parlamentari cattolici. In qualche caso c'è stato un intervento più pressante. Osservo:  il parlamentare in quanto cattolico ha dovere di fedeltà alla dottrina cristiana e come parlamentare della Repubblica ha il dovere di rispettare la Costituzione. Questo doppio vincolo si risolve nella libera coscienza del parlamentare alla quale incombe di fare sintesi e quindi di risponderne davanti agli elettori e davanti alla Chiesa. È dunque il singolo a decidere. E un parlamentare che non può rispondere in coscienza delle sue scelte non serve a nessuno, tanto meno alla Chiesa.

Perché lei appare oggi molto più sensibile alla laicità di quanto non lasciasse trasparire nei primi anni della sua militanza politica?

La laicità non me l'hanno insegnata dei laicisti arrabbiati, ma i preti con il catechismo. Mi hanno insegnato che lo Stato è la casa di tutti. Le cose che dissi quando venni eletto Presidente della Repubblica mi sono state insegnate da Santa Romana Chiesa. Nella vita politica, ho avuto polemiche con il mondo comunista, e persino una parte della sinistra cattolica mi definì "anticomunista viscerale". Ritengo di non aver mai mutato le mie opinioni di principio e mi accorgo che oggi ripeto sostanzialmente, per quanto riguarda i valori fondamentali, ciò che dissi fin dall'Assemblea Costituente. La disciplina è essenziale in ogni partito, ma a volte nelle correnti del mio partito si registrava un eccesso di disciplina che rasentava l'intolleranza. Ho aderito una sola volta alla corrente dei centristi di Scelba e Gonella perché ho sempre condiviso il centrismo degasperiano, il quale fu scelta fondamentale che determinò una vasta adesione alla Democrazia cristiana ed è stato la politica di resurrezione dell'Italia dalla dittatura fascista e dalla guerra. Il problema principale del mondo cattolico se vuole contare politicamente è quello della formazione della persona come cristiano e cittadino. Occorre rispondere all'invito che più volte De Gasperi ha rivolto al gruppo democratico cristiano:  "Anche la vostra vita privata deve essere in armonia con i principi che sostenete nella vita pubblica". D'altra parte ogni partito è forte quando gli aderenti credono negli ideali del partito stesso, e non vogliono iscriversi nella schiera, in aumento, di quelli che guardano e attendono il carro vincente. Se non curiamo il tema della formazione ai valori della democrazia e della vita cristiana è inutile pensare che un albero senza cure possa dare frutti.

Come è stato possibile che un politico come lei, alieno dalle correnti e dai giochi politici, sia divenuto presidente in un momento particolare della storia d'Italia?

Certamente fu un settennato alquanto difficile. Eravamo abituati a battaglie dure e anche a critiche aggressive, ma iniziarono attacchi e insinuazioni che turbarono profondamente il clima democratico. Per la mia elezione furono i socialisti a fare un passo decisivo, con Craxi, del quale ho un ricordo di grande rispetto. E lui me ne diede atto in modo commovente. Una delle fiabe che c'è nella politica, anche in ambienti cattolici, è l'esistenza di una morale distinta tra vita privata e pubblica. La verità ha pieno diritto di cittadinanza in politica. Spero di aver sempre rispettato la verità, ma qualora non l'avessi fatto la colpa è soltanto mia.

Lei ha avuto anche rapporti con Moro. Da un punto di vista di temperamento si sente più vicino a lui o a Scelba?

Sia Scelba che Moro sono due forti testimoni dei valori della Democrazia cristiana. Scelba con la sua intransigenza nella difesa della democrazia e nella totale lealtà anche sul piano internazionale. Moro con il suo essere cristiano forte e coerente e con la totale disponibilità ad aprire un dialogo anche con gli schieramenti più lontani al fine di trovare un denominatore comune. Ho chiarissima la memoria del ritorno di Trieste all'Italia dopo un lungo calvario e del discorso di Scelba (4 novembre 1954), alla presenza del Presidente Einaudi, in un clima di generale emozione. Espresse l'impegno di fedeltà agli accordi anche nei confronti di Tito. La piazza rispose con fischi e urla, ma questo era l'impegno e Scelba lo rispettò. Con Moro ho avuto un rapporto ottimo, affettuoso. A volte non ho condiviso le sue scelte, ma la collaborazione fu sempre leale e completa. L'ultima volta che lui parlò, prima del rapimento, io stesso l'avevo sollecitato. Il suo intervento fu essenziale. Zaccagnini, allora segretario della Democrazia cristiana, soffrì più di ogni altro sia per la decisione in base alla quale lo Stato non può trattare con l'antistato che in seguito per l'incomprensione che lo colpì.

Che ricordo ha di De Gasperi?

Come politico era un fuoriclasse assoluto, con la sua impareggiabile capacità di vedere lontano. Si pensi alla scelta dell'alleanza con gli Stati Uniti nel Patto Atlantico riconosciuta più tardi dallo stesso Berlinguer che lo definì:  "un ombrello protettivo". Ricordo il successo del suo viaggio a Washington e l'eco dei suoi discorsi da Presidente del Consiglio in Parlamento alla presenza sempre di un folto gruppo di Ambasciatori. Iniziava con una chiara visione della realtà mondiale e poi esaminava la posizione dell'Italia come una tessera nel grande mosaico. La sua oratoria era scarna e fortemente efficace. Rimane un alto esempio di cristiano nella vita politica. Mi ha voluto molto bene. Conservo la lettera che mi scrisse poco prima di morire:  "Perché non ci diamo il tu, se ci vogliamo tanto bene?". Ancora oggi è colui che più mi ha colpito e segnato in profondità.

Come politico cattolico avrà anche qualche ricordo dei Papi. Ne racconta qualcuno?

L'incontro con i Papi mi fu sempre di profondo conforto. Quanta tenerezza dalla paternità di Pio XII nei numerosi incontri, tante volte inaspettati. Se constato l'astio che ancora oggi c'è nei confronti di Papa Pacelli mi convinco che l'uomo evidentemente perdona tutto a un suo simile, ma non che sia più intelligente di lui. Certo è stato un grande santo. Non dimenticherò mai:  "benedico lei e tutti quelli che ha nel cuore". Era sorprendente l'affabilità di Giovanni XXIII, che ti metteva immediatamente a tuo agio. Quanti incontri, prima a Venezia poi a Roma. Fu lui a dare un imprevisto risveglio alla Chiesa. Paolo VI da noi "fucini" era venerato per la sua grande cultura e ammirato per il suo continuo tormento perché gli sembrava che la Chiesa non fosse presente a sufficienza in tutte le diverse attività e le fatiche dell'umanità. Paolo VI ha vissuto sofferenze incredibili. Pensiamo alla tragedia di Moro suo grande amico:  "Signore tu non hai ascoltato la nostra preghiera". Di Giovanni Paolo I ricordo quando mi ha chiamato a Venezia a parlare della Madonna, e mi aveva fatto parte delle sue preoccupazioni pastorali. La sua presenza così rapida al ripensarla mi affascina e mi commuove profondamente. Di Giovanni Paolo II ricordo la sua capacità di ascolto durante la colazione dopo la sua Messa. Quando pregava a lungo in ginocchio si sentiva che parlava con Dio e quando si rivolgeva alla folla trasmetteva la voce di Dio.

A novant'anni si può ancora nutrire della speranza?

Guai se si spegnesse la speranza che il sole domani risorgerà.



(©L'Osservatore Romano 26 aprile 2009)
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