Intervista a Kevin Macdonald, il regista di «State of Play»

Realtà e finzione
Due mondi complementari


di Luca Pellegrini

Raccontare fa parte dei cromosomi di famiglia. Il nonno, Emmerich Pressburger, di origini ebraiche, nato nell'impero austro-ungarico all'inizio del secolo, errabondo in Europa e rifugiatosi nella campagna inglese allo scoppiare della guerra, scrittore divenuto poi sceneggiatore - vinse un Oscar nel 1943 per 49° parallelo - infine regista, rilasciava negli anni Ottanta questa confessione:  "Credo che un film debba avere una buona storia, una storia chiara e debba anche avere, se possibile, qualche cosa, forse la più difficile di tutte, un poco di magia... Proprio perché è intoccabile, perché è molto difficile affidarle una parte, la magia non è qualche cosa con cui trattare. Puoi soltanto tentare di preparare alcuni nidi, sperando che un pochino di quella magia possa scivolarvi dentro".
Il nipote, oggi regista, l'ha raccolta assai bene, questa bella eredità di famiglia:  Kevin Macdonald ha 41 anni, è nato a Glasgow e vive a Londra. È un serio documentarista - anche lui ha conquistato il suo Oscar, vincendolo nel 2000 con A day in September, in cui ricostruiva l'attacco terroristico agli atleti israeliani durante le tragiche Olimpiadi di Monaco del 1972 - e un abile, scrupoloso regista, che è riuscito a intessere, con le sue preziose pellicole, alcuni "nidi" assolutamente non trascurabili nella storia del cinema. Nel 2003, con La morte sospesa, racconta un'altra drammatica vicenda, anch'essa realmente accaduta:  due scalatori sulle Ande peruviane alle prese con il sacrificio, la morte e la sopravvivenza; nel 2006 ancora morte e paura (e premi) nell'Uganda marchiata a sangue dalla follia del dittatore Idi Amin, L'ultimo re di Scozia, film cui arride un nuovo successo internazionale; infine, in questi giorni sugli schermi europei e nord-americani e a fine settimana su quelli italiani, State of Play, versione aggiornata, intrigante e molto ben diretta, delle tradizionali, poco pulite e pericolose connessioni e interdipendenze tra giornalismo e potere politico, tra il dovere della verità che dovrebbe sottostare al primo e quello dell'onestà che dovrebbe orientare il secondo. Fiction e documentario sono, per Kevin Macdonald, due mondi complementari. Realtà e finzione, per il regista, sembrano inseparabili.
"Nei miei documentari per il grande schermo ho sempre cercato di inserire alcune caratteristiche del cinema di fiction, ad esempio il modo col quale raccontare una storia anche realmente accaduta, oppure come creare la suspence. Quando poi ho affrontato film di fiction, ho semplicemente cercato di fare il contrario, ossia portare alcune istanze del documentario, come l'esattezza e la verità, in una storia inventata. Nel caso dell'Ultimo re di Scozia, ad esempio, ho voluto girare nelle località ugandesi che sono state realmente teatro delle follie di Idi Amin, rimanendo aderente al massimo alla realtà dei posti, degli edifici, delle facce. Anche per State of Play una delle mie preoccupazioni è stata come essere originale:  ci sono tantissimi film ambientati a Washington D.C., ma io volevo rendere la mia storia di giornalismo e corruzione il più possibile vera, dandole una prospettiva realistica sia negli interni dove lavorano i giornalisti e i politici sia negli esterni dove si svolgono le scene di azione. Allora sono andato a cercare la versione della città che viene vissuta ogni giorno, più che creare il palcoscenico del potere e dell'informazione normalmente allestito per questo genere di film".

La paura:  dell'imprevedibilità, del nemico, della follia, della violenza, dell'inganno, del potere, della falsità, della corruzione, della morte. Nei suoi film la paura, in queste diverse declinazioni, è una protagonista non secondaria. C'è qualche ragione particolare?

Sarebbe facile rispondere confessando di essere una persona che spesso ha paura. Ma credo di essere anche un classico storyteller, ossia mi piacciono le storie - leggerle, immaginarle, raccontarle - e la paura ne fa sempre parte. Oggi il cinema si è dimenticato di quanto è importante e piacevole raccontare storie e raccontarle bene. Sempre, in ogni buona storia, l'eroe - in tutti i miei documentari e film c'è sempre un eroe, il più delle volte personaggio ambiguo e complesso - deve confrontarsi con alcune difficoltà reali e con fatti che lo terrorizzano. Accade anche a noi di avere spesso paura, pur se non siamo eroi. La paura fa parte della vita e può essere dovuta all'inganno, al tradimento, all'abbandono. Le storie che ho raccontato nei miei film preparano ad affrontare queste brutte esperienze, spesso inevitabili.

L'Uganda di Idi Amin, come molti altri Paesi del continente africano, nasce dalle ceneri, ancora calde, degli imperi coloniali. Nell'Ultimo re di Scozia desiderava anche ricordare come in quelle ceneri covano, forse ancora oggi, mostri imprevedibili?

Quello che ho cercato di raccontare in quel film è una versione originale del mito di Faust. Infatti, la storia è quella di un giovane dottore, innocente e ingenuo, trasportato soltanto dal suo interesse egoistico, che tenta di farsi amico il dittatore ugandese, un vero maniaco dell'egoismo, soltanto perché questo lo fa sentire più vicino al potere, dunque più importante e degno di attenzione. Ma, nel momento in cui si accorge che per essere qualcuno, sta vendendo la sua anima, capisce di essere in trappola, di non poter più scappare. È ciò che accade oggi a molti giovani dell'Occidente, che vanno nel cosiddetto Terzo mondo, in India o Thailandia o in Africa, usando quei Paesi come un campo giochi per i loro abusi di potere, per le loro nefandezze, per un egocentrismo che non pensa alle conseguenze, su se stessi e sugli altri, delle azioni che si compiono.

Sembra quasi affascinato dalla figura di questo odioso dittatore, come del resto lo è stato di altri mostri della storia, come Klaus Barbie, il feroce nazista francese raccontato nel documentario Il nemico del mio nemico - Cia, nazisti e guerra fredda.

È difficile spiegare perché ci affascinano certi personaggi. Io ho cercato razionalmente di esaminarlo perché volevo capire bene le motivazioni che mi hanno portato a scrivere e dirigere questi film. Penso di essere interessato a umanizzare quei personaggi che sono stati interpretati soltanto in modo unidimensionale, etichettandoli facilmente come dei mostri. Idi Amin e Klaus Barbie sono stati elevati a personificazione del male, ma, come è accaduto con il bellissimo film tedesco La caduta sugli ultimi giorni di Hitler nel bunker di Berlino, la gente si sente offesa e sconvolta da questa umanizzazione. È un grande errore:  le persone diaboliche e maligne non sono state, all'inizio della loro vita, diverse da noi. Sono stati bambini come tutti noi, hanno giocato come bambini, hanno amato. Mi sembra importante vedere il lato umano anche nelle peggiori persone dell'umanità, per conoscerle meglio, identificarle ed evitare, per quanto possibile, che ne nascano ancora nel futuro.

Il gioco tra impegno della verità e potere nella falsità sembra predominante in State of Play, ove tutti, nel bene o nel male, sono responsabili di una società che sembra non funzionare a pieno regime, che soltanto a parole si dice la migliore possibile, ma poi nei fatti...

Tutti abbiamo in testa un'utopia, l'idea di una società perfetta, il desiderio di circondarci soltanto di persone buone. Ma nessuno, ed è la condizione umana, è soltanto buono o soltanto cattivo. I personaggi per me più interessanti, nella letteratura e nel cinema, sono quelli più ambigui, che hanno una moralità incerta e spesso devono lottare contro il male che alberga dentro di loro, fare guerra ai propri impulsi cattivi. In State of Play abbiamo a che fare con due personaggi centrali, quello del giornalista interpretato da Russell Crowe e quello del politico da Ben Affleck, ambedue ambivalenti. Il primo impersona un giornalista che va ben al di là di quelli che sono i limiti imposti dall'etica professionale:  lui minaccia molti dei suoi interlocutori, registra conversazioni illegalmente, ricatta per avere la storia che insegue a tutti i costi. Ma, cosa più importante, vuole aiutare il suo amico politico e, facendolo, questa amicizia si scontra con la sua integrità giornalistica. Penso che questa battaglia tra i propri interessi personali e ciò che, invece, dovremmo fare e scegliere nella nostra carriera, sia un'esperienza abbastanza comune a tutti. Anche Ben Affleck è un personaggio interessante:  mi è sempre piaciuta l'idea di una persona cattiva, responsabile di alcuni delitti, ma politicamente mossa da una causa giusta, avendo deciso di bloccare la privatizzazione, avviata per questione di soldi e guadagni, dei sistemi di difesa americani, appaltati a gruppi di mercenari reduci dalla guerra in Iraq. I suoi propositi sono giusti, ma il suo ragionamento è totalmente sbagliato quando afferma che vale la pena uccidere tre o quattro persone, ossia scegliere il male minore, per non permettere che accada qualche cosa di molto peggio. Alla fine pagherà per queste sue scelte immorali.

Oggi i giornali possono ancora essere lo specchio del declino etico e culturale che attanaglia e svuota di valori molte delle società e fungere, con le loro denunce, a diga per questo declino?

Io amo i giornali, ma questo amore è frutto di nostalgia. L'idea di un giornale di cultura è ancora molto attraente, ma è un rimpianto. Il problema non è tanto dei giornali che lentamente scompaiono. Ciò che veramente importa è che non muoia il giornalismo. Se la carta stampata è sostituita da internet - ed è uno scontro che viviamo nel film con il personaggio della giovane apprendista interpretata da Rachel McAdams, che puntualmente dimentica la penna perché abituata ormai alla tastiera - la cosa mi preoccupa fino a un certo punto, anche se stiamo vivendo un progressivo cambiamento del sistema dell'informazione. Quello che mi preoccupa veramente è che la gente legge sempre meno, anzi alcuni non leggono più. Vogliono la notizia scritta in due righe perché non hanno più tempo e pazienza per arrivare alla terza. Seriamente ritengo che i giornalisti svolgano una funzione importantissima nelle società democratiche, quando fanno domande difficili a coloro che sono al potere. C'è un vecchio motto che dice:  "La notizia vera è quello che non vogliono esca e sia stampata, tutto il resto è operazione cosmetica".

Il suo prossimo impegno cinematografico la fa tornare indietro nel tempo, al ii secolo dell'era cristiana, anche questa volta per una lontana e remota storia di colonialismo e di eroi.

Il libro da cui è tratto il film che comincerò a girare in settembre in Ungheria e poi, per i due mesi successivi, nel nord della Scozia, è tratto dal romanzo The Eagle of the Ninth scritto nel 1954 da Rosemary Sutcliff. È stato il mio libro preferito quando avevo tredici anni e lo ricordo vividamente perché la storia ha avuto un potere "mitico" su di me. Narra del giovane soldato Marcus Aquila, che vive soltanto dei sogni e degli ideali dettati dalla sua condizione di legionario romano. Ma il nome della sua famiglia è stato infangato quando quindici anni prima il padre, a capo della nona legione, sparì con tutti i suoi soldati nella Britannia appena conquistata. Vuole rivendicare l'onore perduto. Parte alla ricerca dell'aquila d'oro della legione scomparsa per riportarla a Roma. Gli capita, però, un terribile incidente che lo rende invalido all'esercito e così tutti i suoi sogni si infrangono, perché servire l'Impero nella legione era tutto ciò che desiderava. Cresciuto e educato in modo monolitico ai valori della romanità, è un uomo disperato. Si fa amico lo schiavo celtico Esca, comincia a crescere e a capire che ci sono altre culture, comincia a guardare al di là dei confini. Oltrepassa il Vallo di Adriano, si addentra in un mondo sconosciuto, come accadeva in Vietnam ai soldati americani di Apocalypse Now. È un film sullo scontro delle culture, sulla occupazione di nazioni da parte di altre e sulle ragioni della fine di un impero, che per me inizia quando si comincia a dubitare della certezza assoluta della propria superiorità culturale.



(©L'Osservatore Romano 30 aprile 2009)
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