Dal concilio Vaticano II al dialogo con gli ebrei il cardinale Mejía racconta la sua vita

«Il Papa vuole venire in sinagoga»
E Toaff citò un salmo in ebraico


di Nicola Gori

Pioniere del dialogo con gli ebrei, grande esperto della cultura e della lingua ebraica, testimone del Vaticano II e protagonista della stagione del dopo concilio. Argentino, ottantasei anni, alle spalle un lungo servizio alla Chiesa e alla Santa Sede, il cardinale Jorge María Mejía, archivista e bibliotecario emerito di Santa Romana Chiesa, si racconta al nostro giornale in questa intervista piena di ricordi personali e di particolari inediti.

Lei ha partecipato al concilio Vaticano II in qualità di esperto, portando la sua esperienza pastorale e culturale latinoamericana. Che cosa ricorda di quegli anni?

Eravamo alla fine della seconda sessione del Vaticano II quando, con mia grande sorpresa, giunse a casa mia un collega argentino, monsignor Carmelo Juan Giaquinta, il quale mi portò una busta, proveniente dall'arcivescovado di Buenos Aires. Con quella lettera si comunicava che la Segreteria di Stato mi aveva nominato esperto al concilio. In effetti rimasi un po' sorpreso, perché fino a quel momento mi ero occupato di altre cose, per esempio della importante rivista cattolica argentina "Criterio". Devo dire che l'impegno al concilio mi ha assorbito molte energie. Nella tribuna degli esperti, dove presi posto, incontrai personalità di grande rilievo. Tra queste, Henri de Lubac, che avevo contattato per la mia tesi in teologia all'Angelicum, Jorge Arturo Medina Estévez, poi cardinale e prefetto della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, ed Egidio Viganò, destinato a divenire rettore maggiore dei salesiani. Oltre naturalmente a un teologo di nome Joseph Ratzinger.

Quali furono i suoi compiti?

Venni incaricato di incontrare i vescovi argentini e uruguayani, con i quali avevo già avuto contatti prima del Vaticano II. Ci riunivamo una volta al mese e da quelle riunioni vennero fuori delle proposte e delle richieste che furono poi presentate al concilio. Devo dire che non ero membro di nessuna delle commissioni conciliari. Ricordo che, durante la preparazione della costituzione Gaudium et spes, alcuni vescovi e io stesso eravamo preoccupati del fatto che non si tenesse troppo conto del male e del peccato nel mondo e della presenza del diavolo. Alcune delle nostre osservazioni vennero accolte e inserite nel documento. Questo era quanto avveniva nell'aula conciliare. All'esterno, invece, c'era un gruppo di alto livello che si riuniva e di cui facevano parte, tra gli altri, Yves Congar e lo stesso Ratzinger. Io venni invitato a queste riunioni, nelle quali il teologo Hans Küng era tra i più attivi nel proporre questioni da discutere. Mi preoccupai di registrare le domande e le risposte che venivano formulate nel corso di quegli incontri. Ho ancora tutto qui da me nell'archivio.

È maturato durante il Vaticano II il suo interesse per l'ebraismo?

È cominciato prima. A Buenos Aires e in alcune province, come Entre Rios e Santa Fe, c'è un'importante presenza ebraica, frutto dell'emigrazione promossa dal barone francese Hirsch. Mi sono interessato all'ebraismo essenzialmente per due motivi. Il primo è perché, essendo docente di Sacra Scrittura, mi resi conto che era importante conoscere l'ebraico moderno per avere una maggiore dimestichezza con l'ebraico biblico. Decisi allora di iscrivermi a un istituto di Buenos Aires per l'insegnamento dell'ebraico moderno. Quando mi presentai per l'iscrizione, furono molto sorpresi nel vedere un sacerdote, ma mi accettarono senza nessun problema. Gli studenti erano tutti ragazzi ebrei, l'unico non ebreo ero io. Questo ha facilitato l'apertura al dialogo. Il secondo motivo è legato all'incontro con un rabbino. Si chiama Leon Klenichi e, sapendo che ero docente di Scrittura, mi chiese di incontrarlo e di parlare. Aveva rapporti con il seminario rabbinico fondato a Buenos Aires da un rabbino americano e mi propose di far incontrare studenti e professori cattolici ed ebrei. Fui d'accordo e chiesi il consenso dei superiori della facoltà di teologia dove insegnavo. L'amicizia con il rabbino Klenichi dura ancora oggi.

In che modo ha messo a frutto l'esperienza di quegli anni?

Dal 1974 il Segretariato per l'unità dei cristiani, per volere di Paolo VI, cominciò a occuparsi istituzionalmente anche dei rapporti con l'ebraismo. Avevo collaborato con il Segretariato durante e dopo il concilio. Anche per questo si rivolsero a me quando, appena un anno dopo la creazione della Commissione per i rapporti religiosi con l'ebraismo, morì il suo primo segretario Pierre-Marie-Stanislas de Contenson, un illustre domenicano. Mi dissero che i superiori, cioè il cardinale Johannes Willebrands e il vescovo spagnolo Ramón Torrella, dopo aver sentito il segretario di Stato Jean Villot, avevano deciso di chiamare me al suo posto. Avevo già avuto esperienze in questo campo che mi furono utili:  quando venne eletto segretario del Consiglio episcopale latinoamericano (Celam) l'allora vescovo di Mar del Plata Eduardo Francisco Pironio, io fui nominato segretario del Dipartimento per l'ecumenismo e per i rapporti interreligiosi. Mi occupai di mantenere il contatto con gli ebrei. Dall'altra parte avevo il mio amico Klenichi, il quale lavorava come incaricato dei rapporti ecumenici e interreligiosi nell'Anti-defamation League, l'associazione ebraica internazionale con sede negli Stati Uniti. D'accordo con lui avevamo già fatto una prima riunione tra rabbini ed esperti cattolici a Bogotá nel 1968, nel contesto del congresso eucaristico internazionale al quale partecipò anche Paolo VI. Dal 2001 mi venne richiesto di occuparmi di un piccolo gruppo di dialogo con rappresentanti del gran rabbinato di Israele. Si trattava di un gruppo di lavoro a numero chiuso, con otto esponenti per parte. Abbiamo fatto sette riunioni, ognuna seguita da un comunicato pubblicato in italiano e in inglese su "L'Osservatore Romano".

C'è qualche ricordo particolare legato alla storica visita di Giovanni Paolo II alla sinagoga di Roma del 13 aprile 1986?

La cosa nacque così:  Giovanni Paolo II era solito organizzare dei pranzi di lavoro. Un giorno - si stava preparando un viaggio papale negli Stati Uniti - con mia grande sorpresa l'allora sostituto Eduardo Martínez Somalo mi invitò a uno di quegli incontri. Non capii bene il motivo della mia presenza fino a quando il Papa non iniziò a parlare:  tra le altre cose disse che l'arcivescovo di Los Angeles gli aveva proposto di visitare una sinagoga della città. Il Pontefice pose la questione a me in quanto segretario della Commissione per i rapporti religiosi con l'ebraismo. Dissi che se si doveva andare in una sinagoga, si sarebbe dovuto cominciare da quella della diocesi del Papa, Roma. Giovanni Paolo II mi chiese se ciò, a mio giudizio, era possibile. Io risposi che si poteva provare e lui mi incoraggiò a farlo. Chiamai allora il rabbino di Roma Elio Toaff, che conoscevo bene. Aveva già incontrato una volta il Papa nella sagrestia di San Carlo dei Catinari:  era il giorno in cui in Italia era stata votata la legge che introduceva l'aborto e Toaff voleva esprimere al Papa la sua solidarietà. Spiegai al rabbino, scegliendo accuratamente le parole, che il Pontefice sarebbe stato disposto a visitare la sinagoga di Roma come gesto di amicizia e di vicinanza. Il rabbino mi rispose con una citazione in ebraico, tratta dal salmo 117:  "Benedetto colui che viene nel nome del Signore". Mi disse che ne avrebbe parlato con il consiglio e che poi mi avrebbe fatto sapere. Cosa che fece il giorno successivo:  e la risposta fu positiva. Si scelse di comune accordo la data di domenica 13 aprile, anche se nella stessa mattinata Giovanni Paolo II aveva una canonizzazione.

Insieme con il cardinale Etchegaray lei ha promosso la giornata di preghiera per la pace ad Assisi il 27 ottobre 1986. Quali frutti ha lasciato?

Sono stato nominato l'8 marzo 1986 vice presidente della Pontificia Commissione Iustitia et Pax. Poco dopo il cardinale Etchegaray - che ne era presidente - mi informò che il Papa aveva chiamato lui, insieme al presidente del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso e al Prefetto della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, per una consultazione. Giovanni Paolo II voleva promuovere un incontro di preghiera con i cristiani e con i non cristiani disposti ad accettare il suo invito in una città simbolica. Il tema era la pace. Il Papa aveva chiesto al cardinale Etchegaray di proporre alcune città, ma non Roma, per non dare l'impressione che gli altri dovessero venire nella casa del Papa. Tra le città possibili c'erano Gerusalemme e Assisi. Con i vari segretari dei dicasteri ci siamo ritrovati per esaminare quale impostazione dare alla giornata di preghiera, di digiuno e di pellegrinaggio. In particolare si decise che non sarebbe stata una preghiera comune ma, secondo il desiderio del Pontefice, si sarebbe pregato tutti nello stesso luogo, gli uni accanto agli altri. Mi ricordo che il Papa rispettò il digiuno fino al giorno successivo. Nonostante tutto ci fu qualche critica. Giovanni Paolo II, nel discorso rivolto il 22 dicembre di quell'anno alla Curia romana, ritornò sul tema e ribadì appunto che non si era trattato di una preghiera comune, ma di una preghiera in un luogo comune.

Nel 1994 venne nominato segretario della Congregazione per i vescovi. Che ricordo ha del prefetto di allora, il cardinale Bernardin Gantin?

Venni chiamato dall'allora segretario di Stato cardinale Angelo Sodano e mi chiese se ero disposto ad accettare la nomina a segretario della Congregazione per i vescovi. Devo dire che si trattava di un incarico completamente diverso da quello che avevo fatto fino ad allora, ma accettai. Il Papa mi invitò a pranzo il giorno dopo la nomina, cioè il 6 marzo 1994. In quell'occasione trovai il coraggio di chiedergli perché fossi stato chiamato proprio io a quell'incarico, dato che provenivo da esperienze diverse. Il Papa mi guardò e mi disse che c'era un motivo importante:  invitare i vescovi a occuparsi dei temi della giustizia e della pace.

Quattro anni dopo sarebbe arrivata la nomina ad archivista e bibliotecario di Santa Romana Chiesa.

Era il 28 febbraio 1998. Giovanni Paolo II informò il cardinale Gantin di avermi nominato archivista e bibliotecario di Santa Romana Chiesa. Mi ricordo che il cardinale mi chiamò al telefono alle otto di sera dicendomi che doveva vedermi subito. Con mia grande sorpresa venne a trovarmi a casa per informarmi della promozione. Mi confessò anche che gli dispiaceva che io andassi via, perché tra di noi si era instaurata una piena sintonia. Per questo, mi chiese di rimanere al dicastero fino al 25 marzo. Gantin era un uomo di grande semplicità di spirito, non aveva alcun atteggiamento formale che facesse sentire a disagio le persone. Nessuno ignora il suo impegno per i vescovi. Nonostante le difficoltà, non ho mai visto il cardinale Gantin perdere la calma o lasciarsi prendere dalle preoccupazioni. Mi chiedeva sempre il parere per trovare le migliori soluzioni ai problemi. Aveva un forte senso di Chiesa. Confermo che nessun problema è stato risolto senza applicare i principi evangelici. Diceva che il Vangelo ci insegna che non c'è giorno senza la sua pena. Ma poi aggiungeva sorridendo che questo non è vero nella Congregazione dei vescovi, perché ogni giorno ce ne sono almeno due o tre.

Un ricordo personale di Giovanni Paolo II?

Sono stato suo compagno di classe all'Angelicum. Quando, il 16 ottobre 1978, venne annunciato il nome del nuovo Papa, rimasi meravigliato che fosse proprio il cardinale arcivescovo di Cracovia. Durante una plenaria del Segretariato per l'unità dei cristiani, il cardinale Willebrands ci informò che il Papa voleva salutare tutti uno per uno. Fino a quel momento non avevo detto a nessuno che ero stato compagno di studi di Giovanni Paolo II. Quando mi misi in fila e arrivò il mio turno, il cardinale Willebrands mi presentò. Ma guardandolo, il Papa disse che non c'era bisogno di presentarmi, perché ci conoscevamo da 40 anni. Tutti si domandavano cosa volessero dire quelle parole. Il Papa allora spiegò che eravamo stati compagni di studi all'Angelicum e aggiunse che io conoscevo la teologia tomistica meglio di lui. Diventai rosso dall'imbarazzo e volevo andarmene via, ma il Papa disse che bisognava salutarci come prima, cioè con un grande abbraccio. Giovanni Paolo II alle volte mi chiamava con il mio nome, Jorge, e questo suscitava una certa meraviglia negli altri. Ricordo che l'ultimo giorno della sua vita terrena, la mattina del 2 aprile, sono salito nell'appartamento pontificio e mi sono messo in ginocchio accanto a lui prendendolo per mano. Ho visto la sua faccia sofferente ma cosciente. Ha voltato la testa e allora gli ho detto:  "Santo Padre, sono Jorge". Lui ha fatto un cenno con gli occhi e allora gli ho sussurrato in spagnolo:  "La vida por usted".



(©L'Osservatore Romano 15 luglio 2009)
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