A colloquio con Barbara Cupisti regista di due documentari sul Medio Oriente

Il grido (censurato)
di chi non ha più voce


di Luca Pellegrini

È entrata nelle case dove il dolore è di casa. Con pudore, si è prima fermata davanti ai ritratti viventi di madri che urlano silenziose la loro angoscia, poi si è chinata sui volti dei figli che sono ancora in vita. Barbara Cupisti non si è lasciata scoraggiare dalle difficoltà quasi insormontabili delle riprese, conscia dell'urgenza morale di non dimenticare il dolore di tante donne e quello di tanti giovani senza ideale, senza futuro.
Nel 2007 ha portato a termine il primo documentario del dittico dedicato alla Terra Santa e alla guerra che la dilania:  Madri è stato presentato alla Mostra del Cinema di Venezia, ha emozionato e commosso il pubblico, ha poi vinto il David di Donatello nel 2008 come miglior documentario.
Il materiale girato, però, comprendeva numerose immagini e storie di bambini e ragazzi in balìa, a diverso titolo e modo, del lungo e acerbo conflitto. Così, entrata in sintonia con la sconvolgente storia di Elik Elhanan e Ali Abu Awwad, il primo israeliano e il secondo palestinese, ha deciso di spingersi ancor più in profondità per comprendere le ragioni della guerra e proclamare quelle della speranza. Vietato sognare, dopo essere stato invitato al Festival del cinema di Dubai e a quello di Trondheim in Norvegia, ha vinto il premio Amnesty 2009 alla recente Mostra internazionale del nuovo cinema di Pesaro.
Raccontare i conflitti, le sofferenze di interi popoli e instillare la tenue luce della pace costruita ogni giorno da uomini e donne di un coraggio estremo.
"Per molti di noi la guerra israelo-palestinese è ormai un rumore di fondo. Io volevo ricordare - afferma la regista italiana - che dietro i numeri ci sono dei volti, delle persone. Tante volte ci dimentichiamo di quello che accade vicino a noi, non prestiamo più vera attenzione. C'è una frase bellissima che dice una di loro:  "Sto urlando senza voce". Perché non ha più la forza di gridare, nessuno la sente più. Questo è terribile".
Madri si sofferma sui volti e le testimonianze di quindici madri, sette israeliane e otto palestinesi, che hanno perduto i figli nel corso della guerra. Il documentario inizia con un accorato appello:  "Una madre è sempre una madre. È difficile sostenere la perdita di quel sorriso che le madri desiderano tanto e di quelle voci che sono scomparse. È ora di mettere fine ai lutti dei due popoli, le madri hanno il potere di mettere fine alla distruzione della vita, hanno il potere di ricostruire un ponte di riconciliazione con spirito gentile e generoso".
Barbara Cupisti gira con delicata discrezione e grande partecipazione emotiva.
"Io ho cercato di essere il più distaccata possibile proprio perché il dolore va trattato con grandissimo rispetto. Non volevo essere assolutamente invadente, fare domande, ho fatto di tutto affinché questo dolore uscisse e avesse la possibilità di essere ascoltato".
È impressionante, tra i tanti, seguire il racconto di una mamma che modella questo suo grido e il vuoto della sua esistenza in sculture incomplete, oppure le due mamme israeliane che hanno perso le due rispettive figlie nell'attacco terroristico del 2001 a opera di un kamikaze palestinese, del quale fa poi un ricordo, straziante, la madre. Sono orizzonti che sembrano inconciliabili, in cui il dialogo e la comprensione si fanno difficilmente strada.
Poi, però, Barbara Cupisti ha incrociato la strada tortuosa di due paladini della pace e con loro è nato Vietato sognare.
"Non si può essere soltanto pessimisti. Tutti hanno il diritto di pensare che ci possa essere un futuro migliore. Nelle madri della Terra Santa io trovavo questa speranza, perché è la figura della donna quella che ricostruisce e dà forza all'interno della famiglia e della società. Il messaggio delle madri si lega bene a quello dei figli, perché è compito loro far sì che questi giovani, dopo aver attraversato immani sofferenze e violenze, riescano a trovare le ragioni per proseguire e costruire un futuro migliore. Mi sono imbattuta nella storia di Elik e Ali - due soldati che hanno ucciso e combattuto - e questa storia non mi ha più lasciato. La madre del primo è un'israeliana che ha perso la figlia in un attentato suicida a Gerusalemme; quella del secondo, membro di Fatah e imprigionata per anni, è morta dopo aver combattuto per i diritti delle donne in una società che gliene riconosce ben pochi. I due sono figli di queste madri straordinarie, entrambe tra le fondatrici di "Parents' Circle", un gruppo di genitori israeliani e palestinesi che hanno perso i figli nella guerra ed ora insieme lavorano per portare la pace. A loro volta Elik, che vive negli Stati Uniti, ha fondato l'associazione "Combatants for Peace" e Ali il movimento "Al Tariq" (la via), che vuole dare ai bambini un'educazione alla non violenza, cosa non facile essendo molti di loro cresciuti "con i carri armati davanti casa"".
Nel documentario li vediamo parlare, portare incessantemente e ovunque, anche alle Nazioni Unite, un messaggio che sembra, invece, poco ascoltato e accolto nei loro Paesi. Inoltre, percepiamo appena le ragioni del loro incredibile cambiamento.
"Nel film arrivano soltanto al finale. Entrambi hanno avuto una perdita traumatica in famiglia:  Elik quella della sorella, come ho già detto, e Ali l'uccisione a freddo, in un modo atroce, del fratellino, colpito da un soldato israeliano all'ingresso del suo villaggio. Gli ha sparato un colpo in testa perché stava togliendo le pietre dalle mani dei bambini che le tiravano contro i mezzi dell'esercito israeliano. Questi fatti hanno cambiato in modo radicale la loro vita e non per niente nel finale del film entrambi parlano del significato della vendetta:  vendicandosi non si può riottenere la persona cara che è stata uccisa. La vendetta chiama soltanto altro sangue. Per questo, il loro impegno per la pace e per il dialogo tra i due popoli in guerra assume proporzioni eroiche".
La pace è ancora al centro dei suoi prossimi interessi cinematografici.
"Sto lavorando sulla Marcia mondiale della pace e della non violenza che inizierà il prossimo 2 ottobre in Nuova Zelanda e terminerà il 2 gennaio nella Terra del Fuoco in Argentina. Passerà attraverso 120 paesi e 300 città, in alcuni impegnati seriamente per la pace e in altri dove ci sono, invece, ancora conflitti in atto, di ogni genere:  armati, ideologici, sociali, civili, religiosi, economici. Io utilizzerò la marcia come un link, un'occasione per parlare di alcune situazioni private all'interno di questi conflitti. Non mi interessa, infatti, girare un film che ne dia una spiegazione storica, sociale o politica, ma soffermarmi esclusivamente sull'essere umano. In questo percorso arriveremo in Palestina e Israele:  la marcia partirà dal Ponte di Allenby, che collega la Cisgiordania con la Giordania e, dividendosi, arriverà sui due versanti, a Ramallah per quello palestinese e in un luogo ancora da definire per quello israeliano. I partecipanti si troveranno, ciascuno nel loro lato, davanti al muro che li divide e su ambo i lati del muro verrà proiettato il mio documentario".
Molti potranno così vedere Vietato sognare. Ancora una volta, invece, non lo vedranno gli italiani, nemmeno in televisione - ricordiamo che la produzione è di Rai Cinema - come già è accaduto con Madri. Non è facile capire cosa esattamente è successo. "Bisogna chiederlo a loro - risponde la Cupisti - hanno trovato qualsiasi tipo di giustificazione per evitare la distribuzione nei cinema e la messa in onda televisiva:  il film è brutto, non è riuscito, non è equilibrato, non è veritiero. Vietato sognare non ha avuto un ufficio stampa, non ha trovato un distributore internazionale, tutte le copie utilizzate le ho stampate a mie spese. Sia su Madri, che è stato proiettato alla Camera dei Deputati, sia su Vietato sognare sono state fatte due interrogazioni parlamentari, chiedendo alla Commissione di Vigilanza della Rai di indagare il motivo per il quale non sono stati mai trasmessi. Mi hanno anche bloccato e chiuso un bellissimo progetto, dedicato alla povertà nell'Occidente, quello che ha scelto di avere e non di essere, che allunga la mano per dare la moneta al povero senza saper aprire il cuore. Un documentario ispirato alle lettere di don Primo Mazzolari. A chi possa aver fatto paura il coraggio di quindici madri che piangono i loro figli, la testimonianza di due ragazzi che parlano di pace, il volto di una società incapace di amare, questo non so davvero spiegarmelo".



(©L'Osservatore Romano 17 luglio 2009)
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