Intervista al presidente della Conferenza episcopale regionale brasiliana Oeste 1

Un'attenta opera di formazione
per arginare le sette


di Nicola Gori

La sfida più grande che attende la Chiesa dell'Oeste 1 del Brasile è la formazione, a tutti i livelli. Certamente, vi sono anche altre difficoltà, tra le quali la secolarizzazione, l'invadenza delle sette, la vastità del territorio che frena l'evangelizzazione, ma tutto è superabile con la formazione dei cristiani per farne degli adulti nella fede, ben preparati all'annuncio del Vangelo. Ne abbiamo parlato con monsignor Antonino Migliore, vescovo di Coxim e presidente della Conferenza episcopale regionale dell'Oeste 1 in questi giorni in visita ad limina.

Qual è la situazione della popolazione indigena del Mato Grosso?

Attualmente, in Mato Grosso do Sul della popolazione fanno parte 70.000 indigeni. Questi popoli si trovano, attualmente, confinati in piccole aree o sparpagliati in fazendas e nelle periferie delle grandi città. La maggior parte delle terre si trovano in pratica ancora senza regolamentazione. Con la conseguenza di un aumento spaventoso della violenza, con assassinii, minacce, prigioni, droghe, fame e il suicidio di giovani e adolescenti nel popolo guarani-kaiowá.
In questa complessa situazione, la Chiesa cerca di intervenire in aiuto delle popolazioni indigene in vari modi a seconda delle situazioni particolari. Nella nostra regione, gli indios sono presenti nelle due diocesi di Dourados e Jardim. A Campo Grande, esistono gruppi indigeni, chiamati "desaldeados" (usciti dal villaggio), cioè che hanno scelto di vivere in città, quasi perdendo la propria cultura e adattandosi alla nuova, a quella urbana.

I fondamentalismi e la diffusione delle sette stanno allontanando la popolazione dalla fede?

Questi fenomeni non allontanano dalla fede, ma dalla dottrina della Chiesa cattolica. Il popolo brasiliano è un popolo profondamente religioso. Prova ne sono varie espressioni usate comunemente:  "Se Dio vuole", "Grazie a Dio", solo per citarne alcune. Nelle regioni dell'interno (per esempio nel nostro Pantanal), la religiosità popolare, il cui culmine è la "reza do Terço" (recita del rosario), è molto diffusa.
Anche la pratica religiosa è intensa, specialmente nelle confessioni evangeliche. In esse, la religione è un fenomeno di interesse personale. Si presentano come risolutrici di tutti i problemi, promettono cure e miracoli in qualsiasi momento:  è la cosiddetta "teologia della prosperità". Molti cattolici cambiano religione, andando dietro a queste promesse, specialmente quando si trovano in difficoltà (salute, economia, matrimonio).

In cosa si concretizza l'opzione preferenziale per i poveri?

La solidarietà, specialmente tra i poveri, è una caratteristica del popolo brasiliano. Si manifesta in molte maniere:  condivisione del cibo durante gli incontri comunitari, reciproco aiuto nella costruzione delle case, accoglienza in casa, adozione di bambini abbandonati. L'opzione preferenziale per i poveri, da tempo scelta dalla Chiesa dell'America latina, dovrebbe essere assunta in maniera più decisa dai ministri ordinati. Alle volte, c'è un'incoerenza tra le parole e la pratica personale e pastorale. Mi riferisco allo stile di vita di alcuni dei nostri sacerdoti. Ma anche la pastorale, molte volte, non ha lo slancio missionario, non va alla ricerca di coloro che si sono allontanati, non dà la debita attenzione alle periferie, non privilegia i poveri.
Un segnale di questo è la presenza massiccia degli evangelici nelle periferie. Qui notiamo un fenomeno strano:  la Chiesa è presente con molte opere sociali, ma qui ha pochi fedeli. Sarà mancanza di evangelizzazione esplicita? Sarà che non usiamo i mezzi - criticabili! - che usano loro?

Quali frutti vi attendete dalla Missione continentale?

Tutti ne parlano, nei documenti ufficiali e nella pastorale ordinaria, ma, riflettendo in profondità, non sappiamo bene in che cosa consista. Si dice espressamente che non si tratta di iniziative nuove, ma di uno spirito che deve penetrare in tutto. Così, c'è pericolo che tutto rimanga molto nebuloso, teorico e riducibile ad alcuni segnali esterni, come la "cappelletta missionaria".
Noi, nel nostro Regionale, ci incarichiamo della celebrazione delle sante missioni popolari, dove vogliamo formare un popolo di missionari, che approfondisca la sua fede nell'incontro con Gesù Cristo ed esca dall'egoismo, spirituale e pastorale, andando incontro ai fratelli, specialmente quelli che si sono allontanati. Sono vari anni di lavoro, che daranno avvio alla pastorale della visitazione permanente. Così speriamo che la dimensione missionaria sia la nota principale di tutta la pastorale. In sintesi, vogliamo passare da una pastorale di mera conservazione a una pastorale decisamente missionaria.

Ci sono difficoltà nell'evangelizzazione dei territori impervi della zona e dunque difficili da raggiungere?

Parlando di distanza, possiamo intenderla in senso geografico o culturale. La situazione geografica delle nostre comunità è caratterizzata dalle grandi distanze:  le diocesi hanno un territorio, in media, di 50.000 chilometri quadrati e le parrocchie di 5.000. Questo comporta la presenza di comunità nell'interno, molto lontano dalle città e dai centri parrocchiali. I parroci vi si recano quando possono, generalmente una volta al mese. In alcune, non si può andare nel periodo delle piogge. Dove si sono formati dei centri direttivi, si celebra il culto domenicale. Si incentivano i piccoli gruppi di riflessione biblica, si rivolge una cura delle anime più approfondita, in occasione della festa del patrono. Anticamente esisteva la pastorale della "desobriga" (visita pastorale):  il missionario, quando arrivava in una comunità, impartiva la catechesi e amministrava tutti i sacramenti. In queste comunità dell'interno, le famiglie battezzavano i figli in casa. Era normale in quell'epoca, dato che il sacerdote arrivava solo ogni 3 o 4 anni o, nella migliore delle ipotesi, ogni anno. Attualmente, nonostante le condizioni di viaggio siano molto migliorate, è difficile sradicare questo costume.
Parlando di distanza culturale, dobbiamo ammettere che la nostra Chiesa rimane molto distante dal mondo della cultura, del lavoro e dei giovani. Come detto nelle periferie l'annuncio esplicito del Vangelo è fragile. La nostra pastorale ha una struttura molto farraginosa. La maggior parte del tempo è dedicata alle attività nella chiesa matrice:  luogo di culto, salone parrocchiale, centro di catechesi. È per questo che, stimolati dalla Missione continentale, stiamo lavorando alla settorializzazione delle parrocchie, decentralizzando le attività della matrice e incoraggiando nuovi centri direttivi:  coordinatori di settore e di quadri, animatori dei gruppi di riflessione. La sfida più grande è quella della formazione, a tutti i livelli.



(©L'Osservatore Romano 5 settembre 2009)
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