A colloquio con don Carlo Nanni, rettore della Pontificia Università Salesiana

L'insegnante? Un mestiere terribile e necessario


di Silvia Guidi

"Non avere maestro è come non avere a chi domandare e, ancora più profondamente, non avere colui davanti al quale interrogare se stessi, il che significherebbe restare chiusi all'interno del labirinto primario che in origine è la mente di ogni uomo; restare chiuso come il Minotauro, traboccante d'impeto senza via d'uscita". Dopo una conversazione con don Carlo Nanni, rettore dell'Università Pontificia Salesiana, vengono in mente le parole di María Zambrano sull'educazione come un bisogno primario, come l'"alimento" necessario al giovane come il cibo e l'aria che respira perché sviluppi le sue potenzialità e scopra se stesso. Non avere interlocutori, non avere maestri da ascoltare e seguire - anche da contestare, ma sempre all'interno di un dialogo - lascia i ragazzi impantanati nel piccolo ambito della loro immaturità, nella presunzione acerba che può trasformarsi in apatia o in aggressività arrogante, bruciando via il tempo che dovrebbe essere più denso di energie e di scoperte nei pomeriggi vuoti in sala giochi o emulando l'ultima bravata vista su YouTube per cercare scampo alla noia; in sintesi, tutto quello che viene frettolosamente archiviato come "disagio giovanile" o "bullismo".

Cosa significa per lei educare?

È un mestiere terribile e necessario quello dell'insegnante; oggi è difficile, ma forse ancora più vitale che in altre epoche della storia. La famiglia si è svuotata di tanti aspetti; ha perso gran parte della sua rilevanza come cellula economica e come luogo capace di trasmettere cultura. È rimasta la sede degli affetti, ma tutte le altre grandi funzioni sociali si sono spostate altrove. L'educazione viene ridotta alla semplice istruzione; nel mondo anglosassone education è diventato sinonimo di school education. Dall'illuminismo in poi, l'educatore non è tanto il genitore quanto il maestro. La cultura è solo quella scolastica, non solo sotto i regimi totalitari, ma nella mentalità diffusa; l'educazione viene ridotta alla "socializzazione", allo stabilire relazioni con gli altri.

...e il ragazzo viene invitato a educarsi da solo.

Questo non è solo un problema della pedagogia contemporanea, ma affonda le sue radici nell'antropologia, nel modo con cui l'uomo concepisce se stesso. Dagli anni Settanta in poi si è innescata una rivoluzione silenziosa, come l'ha definita Inglehart, dei modi quotidiani dell'esistenza individuale e collettiva, con un interesse rinnovato per la qualità della vita, per la difesa dei diritti umani soggettivi ed ambientali e la lotta per quelli civili, per i grandi problemi del mondo come la fame, l'Aids, le minoranze oppresse e così via.

Fin qui, tutto bene.

Ma c'è anche un effetto collaterale negativo:  il rischio di azzerare ciò che ci accomuna, di oscurare del tutto la prospettiva di un qualche bene comune. In senso più specifico, il personale prevale sull'istituzionale; il tempo libero e del divertimento sul tempo dell'occupazione e dell'impegno. L'enfasi sulle libertà soggettive può arrivare a fare dell'io individuale l'unico metro di giudizio di ciò che è vero, buono, giusto, bello. La prospettiva dell'autorealizzazione può diventare talmente assoluta da subordinare a sé ogni altra. L'altro, il noi, l'umanità presente e futura, sono tagliati fuori della visione personale o ridotti a oggetto.

Creando quella che lei chiama "l'esperienza soffice".

Anche il tempo perde la sua direzione, la sua concretezza; viene psicologizzato, staccato dallo spazio e dal mondo e ridotto a vissuto soggettivo. Le stesse relazioni interpersonali sono vissute più a livello emozionale che razionale, più nell'attimo fuggente che nella concretezza e continuità di una storia. Senza coscienza della continuità dell'esistenza propria e altrui la vita stessa si riduce a un complesso di sensazioni slegate, a emozioni, bisogni e desideri senza altra direzione o mèta che non il loro immediato e isolato esaudimento. L'esperienza diventa soffice, irreale; i nostri genitori avevano a che fare con la fatica di ogni giorno, i muri delle case da ricostruire, le strade da riparare, non potevano cancellarla con un colpo di mouse. Nella Rete spesso anche il dialogo è soft, limitato a chi la pensa come me; non c'è la realtà, che è fatta anche di conflitti.

Anche secondo lei "il problema dei giovani sono gli adulti"?

Agli educatori direi medice, cura te ipsum; l'uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni, diceva Paolo vi. Lavorare sulla personalità più che sui ruoli, più sulle motivazioni che sull'esito non è assolutamente facile:  mettere in discussione i livelli profondi della mentalità è come remare contro corrente. Ma non siamo soli, abbiamo un grande modello da seguire. Gesù è stato un educatore eccezionale:  si fa prossimo, viene incontro, prende l'iniziativa, accoglie personalmente, dialoga anche con chi non la pensa come lui, comprende, non condanna ma neanche giustifica un comportamento sbagliato, propone un "di più" che dipende dalla storia di ognuno, tenendo conto anche delle esigenze del Regno, della reale situazione sociale. Quello dell'educare è un lavoro che scommette sui tempi lunghi, serve un cuore grande, che deve essere coltivato. Ma non è un "volemose bene", è un rapporto diretto verso qualcosa da acquisire, una relazione di aiuto che si fonda sulla conoscenza della natura umana. Per questo non può dimenticare la dimensione verticale della vita:  Max Horkheimer la chiamava "la nostalgia del totalmente altro". I ragazzi hanno ragione a chiedere la luna; è il loro desiderio di infinito che chiede una risposta.



(©L'Osservatore Romano 23 settembre 2009)
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