L'arcivescovo Amato parla dei cinque nuovi santi che il Papa proclama domenica 11 ottobre in piazza San Pietro

Costruttori di una cultura
di pace


di Nicola Gori

A conclusione della prima settimana di lavori del Sinodo dei vescovi, domenica 11 ottobre, in piazza San Pietro, il Papa canonizza il vescovo Sigismondo Felice Felinski, i sacerdoti Francesco Coll y Guitart e Giuseppe Damiano De Veuster, il religioso Raffaele Arnáiz Barón e suor Maria della Croce Jugan. Abbiamo chiesto all'arcivescovo Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, di parlarci dei nuovi santi.

Dopo le canonizzazioni del 26 aprile scorso, domani è la volta di un secondo gruppo di cinque santi. Chi sono?

Si tratta di un polacco, un belga, due spagnoli e una francese. Il nome più conosciuto è quello di padre Damiano de Veuster, l'eroe di Molokai, il protettore dei lebbrosi. La sua è una epopea di civiltà evangelica. Partito come missionario, questo sacerdote belga ebbe dai suoi superiori la missione nelle Hawaii. Qui si offrì volontario per andare tra i lebbrosi dell'isola di Molokai. Questi mancavano di tutto e vivevano abbandonati a se stessi. Allora i malati di lebbra erano totalmente ripudiati dalla società e vivevano confinati in una zona segregata dell'isola. Abbandonata ogni speranza di guarigione i lebbrosi si abbrutivano nel vizio. Quando arrivò, padre Damiano trovò sporcizia, ozio, degradazione, violenza. I cadaveri insepolti venivano divorati dalle bestie. Gli ottocento lebbrosi dell'isola vivevano in una bolgia infernale.

Quale fu l'opera di padre Damiano, che un film di qualche decennio fa fece conoscere al grande pubblico?

Il film corrisponde solo in parte alla durissima realtà, la quale, era molto più tragica della rappresentazione cinematografica. Padre Damiano non si perse d'animo e iniziò subito la sua missione lavando, medicando, consolando, seppellendo i morti. Trattava i malati come suoi fratelli. Costruì per loro casette accoglienti, incanalò l'acqua potabile dalle vicine montagne, edificò due ospedali e due orfanotrofi, insegnò a coltivare la terra. Lui stesso da giovane era stato un abile contadino. Tra i lebbrosi più di duecento erano cattolici. La sua straordinaria carità fece moltiplicare le conversioni. Costruì due chiese e alcune cappelle. Nella predicazione diceva con semplicità:  "Noi lebbrosi". E i malati presero a considerarlo come uno di loro. Dopo undici anni di convivenza con i malati, padre Damiano scoprì di essere anche lui lebbroso. Fu questo un momento che lo avvicinò ancor più ai suoi fratelli sfortunati. Intensificò la sua pietà eucaristica con la celebrazione della messa, dei sacramenti, con la predicazione, con la visita agli ammalati. Il 28 marzo 1889 celebrò la sua ultima Eucaristia. Si spense il 15 aprile 1889, a 49 anni. Sul letto di morte compì il suo ultimo gesto di carità. Pregò il suo medico curante di lasciarlo e di andare a prendersi cura di un'anziana malata. I 1.166 lebbrosi di Molokai lo piansero come padre e come fratello buono.

Che riflesso ebbe la figura di padre Damiano in patria?

Il Belgio lo celebrò subito come eroe nazionale e fece riportare in patria le sue spoglie. Nel 1995, dopo la sua beatificazione, il vescovo di Honolulu ottenne di poter portare a Molokai le reliquie della mano destra di padre Damiano, che aveva consolato e benedetto gli ammalati.

E per noi oggi?

Padre Damiano, imitando Gesù nel suo atteggiamento di accoglienza e di guarigione dei lebbrosi, è modello dei missionari cristiani, ma è anche un grande benefattore dell'umanità. In lui l'amore di Dio era accompagnato dalla pratica della carità verso i lebbrosi, che appartengono ancora all'umanità più emarginata della nostra società.

E il miracolo per la canonizzazione?

Il miracolo per la sua canonizzazione riguarda la guarigione straordinaria e scientificamente inspiegabile di una signora hawaiana da un cancro maligno con metastasi diffuse.

Un altro modello di carità è una religiosa francese.

Un'altra grande figura della carità evangelica è la suora francese, Maria della Croce, al secolo Jeanne Jugan (1792-1879), autentica madre Teresa di Calcutta ante litteram. Era denominata, ancora in vita, la madre dei poveri. Sin da giovane accoglieva e serviva gli anziani poveri e abbandonati. Andava anche in giro a fare la questua per il loro mantenimento. Con l'aiuto di altre giovani fondò la Congregazione delle Piccole Suore dei Poveri e prese il nome di suor Maria della Croce. Nel 1845 l'Accademia di Francia la insignì del premio Montyon, destinato a un francese povero autore dell'azione più virtuosa. La sua opera benefica si diffuse anche in Europa. Morì a 87 anni a La Tour Saint-Joseph, lasciando una congregazione fiorente con ben 2.200 religiose. Nutrita di eucaristia, Jeanne Jugan fu una donna forte, coraggiosa, intraprendente, ma, allo stesso tempo, semplice, umile, modesta. Per gli anziani abbandonati lei era veramente il volto misericordioso e provvidente del Signore. La guarigione di un medico anestesista da adeno-carcinoma all'esofago è stato il miracolo presentato per la sua canonizzazione.

Tra i nuovi canonizzati vi è anche un vescovo polacco.

Il polacco Sigismondo Felice Felinski (1822-1895), di famiglia nobile, a quattordici anni si impegnò con voto di castità davanti all'immagine dell'Annunciazione. Dopo gli studi di matematica all'università imperiale di Mosca e corsi di specializzazione a Parigi, frequentò l'Accademia Ecclesiastica Cattolica di San Pietroburgo. Ordinato sacerdote fondò un rifugio per i poveri e la Congregazione della Famiglia di Maria. Pio ix lo nominò nel 1862 arcivescovo metropolita di Varsavia. La capitale polacca viveva un momento tragico. Da quattro mesi tutte le chiese erano state chiuse dalle autorità russe. Seguendo le direttive della Santa Sede, il nuovo presule riconsacrò la cattedrale e fece riaprire tutte le chiese con la celebrazione delle quarant'ore e l'esposizione del Santissimo Sacramento. Nei sedici mesi in cui resse la diocesi, migliorò la preparazione del clero, la catechesi, l'assistenza dei poveri. Fondò un ricovero per i bambini e una scuola che affidò alle cure delle suore da lui fondate. Ma soprattutto rafforzò la comunione dell'episcopato polacco con il Papa. Con coraggio si dedicò alla difesa della libertà della Chiesa di fronte al Governo russo. Per questo il 14 giugno 1863 fu deportato ed esiliato a Jaroslavl sul Volga. Qui rimase per venti lunghissimi anni. La sua profonda fede e la sua grande bontà gli meritarono anche in esilio l'appellativo di "santo vescovo polacco". Liberato nel 1883, non poté tornare a Varsavia. Passò gli ultimi dodici anni in una città dell'odierna Ucraina, dove costruì una scuola, un asilo per l'infanzia, una chiesa e un convento per le suore della Famiglia di Maria. Visse povero. Senza avere mai più di una veste. Sono quattro i pilastri della sua santità:  fede nella divina Provvidenza; devozione ardentissima all'eucaristia; amore alla Vergine Maria, in onore della quale compose poesie e meditazioni; un grande amore per la Chiesa, da lui considerata come "il più grande tesoro sulla terra, il fine della sua vita, l'unico amore sulla terra". Monsignor Felinski restò fedele al motto:  "Per essere polacco sulla terra, ci vuole una vita nobile e pia". Morì in concetto di santità a Cracovia, dove si trovava di passaggio, l'11 settembre 1895. Le sue spoglie sono ora custodite nella cattedrale di Varsavia. Il miracolo per la canonizzazione è stata la guarigione di una suora da grave anemia aplastica.

Gli altri due santi sono religiosi spagnoli.

Il primo, Francesco Coll y Guitart (1812-1875) è un domenicano, fondatore delle suore domenicane dell'Annunciazione. Vivendo in un periodo molto critico per la Chiesa cattolica in Spagna si dedicò alla predicazione e alla diffusione della pratica del santo rosario. Fondò una congregazione di suore con lo scopo di occuparsi delle bambine bisognose, dando loro istruzione e possibilità di seguire la loro vocazione. Il miracolo per la sua canonizzazione è stata la guarigione di una neonata, colpita da encefalopatia ipossico-ischemica. L'altro santo spagnolo, Raffaele Arnáiz Barón (1911-1938), è un frate oblato dell'Ordine cistercense della stretta osservanza. Di famiglia benestante, Raffaele fu un bambino facile da educare, docile e naturalmente inclinato al bene. Amante dell'arte, si iscrisse alla scuola superiore di architettura. Avendo visitato la trappa di San Isidro de Dueñas fu attratto dalla vita monastica e chiese di esservi ammesso. Così a 22 anni si ritira in monastero. Dopo pochi mesi una grave forma di diabete mellito lo lasciò quasi cieco. Rientrato in famiglia a Oviedo, a poco a poco si ristabilì in salute. Dopo due anni Raffaele è riammesso in monastero, nella condizione di "oblato", cioè di monaco senza voti pubblici e, dal punto di vista giuridico, l'ultimo della comunità. A causa della sua salute malferma spesso è costretto ad allontanarsi dal monastero, dove rientra definitivamente nel 1937. Di profonda spiritualità, così descrive la sua esperienza religiosa:  "È la quarta volta che abbandono tutto per seguire Gesù, e credo che questa volta sia stato un miracolo di Dio. L'unica cosa a cui aspiro in monastero è:  unirmi assolutamente e interamente alla volontà di Gesù; vivere solo per amare e soffrire; essere l'ultimo, eccettuato per quel che riguarda l'obbedienza". Morì di coma diabetico all'età di 27 anni il 26 aprile 1938 e lascia il ricordo vivo di un eroismo umile e sorridente. Fu il giovane ricco che, affascinato da Gesù, sacrifica se stesso per la redenzione del mondo, guidato e sorretto da Maria. Il miracolo per la sua canonizzazione è stato la guarigione da una grave malattia di una giovane donna incinta. Sono insomma cinque figure di esistenza cristiana esemplare, fatta di amore a Gesù, di preghiera e di carità, altrettanti inviti a tutti i battezzati a trafficare i loro talenti per immettere nella famiglia umana una cultura non di odio e di divisione, ma di misericordia e di pace.



(©L'Osservatore Romano 11 ottobre 2009)
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