A colloquio con Melania Mazzucco

Sogno di sparire
dentro i miei personaggi


E sulla sua scrittura dice:  "Vorrei che i miei libri fossero una sorta di filologia della vita quotidiana"

di Giulia Galeotti

Mi sveglio un po' emozionata. Non è così scontato avere la possibilità di fare una lunga chiacchierata con una delle scrittrici che più ami, la creatrice di Vita, Norma e Marietta. Ma mi ritrovo anche con un'ombra di preoccupazione; temo soprattutto il suono della sua voce. È una cosa che mi porto dietro sin da piccola:  ricordo bene lo shock che provai ascoltando per la prima volta le voci di Lalla Romano e Oriana Fallaci. Tanto le loro pagine mi avevano affascinata ed accarezzata, quanto il suono delle loro voci mi sembrò stridulo, sgraziato, fuori posto. Ma con Melania G. Mazzucco, andrà diversamente (e scoprirò che anche lei, come lettrice e scrittrice, condivide i miei timori). Così, un po' in anticipo, suono al citofono. Melania apre il portone:  è alta, magra, i capelli raccolti.

Iniziamo dal suo rapporto con la pittura, cui tra l'altro ha dedicato due romanzi (un affresco era al centro de La camera di Balthus, mentre Tintoretto è protagonista de La lunga attesa dell'angelo).

Mi interessa molto tutto ciò che fa parte della nostra storia culturale visiva, anche perché come italiana mi sento legata, forse ancor più che alla nostra grande letteratura, a una tradizione fatta soprattutto di immagini sia pittoriche che cinematografiche. Mi sembra paradossale che noi italiani, pur avendo "questa" storia culturale, diamo invece pochissima importanza alla storia delle immagini. Ormai non siamo più nemmeno in grado di leggerle:  se andiamo in una chiesa con dei ragazzi, non abbiamo più gli strumenti per interpretarle. Invece come italiana voglio riappropriarmi di questa storia cui sento di appartenere. Inoltre, mi piace molto il modo con cui il pittore (ovviamente non il pittore del XX e XXI secolo, perché poi la pittura è diventata un'altra cosa) si confrontava con i suoi temi. Mi affascina perché spesso i pittori si interrogano sul modo in cui comunicare:  paradossalmente, anche questo è vicino al modo in cui lo scrittore si confronta con la sua materia. Ad esempio, a tutti i pittori hanno chiesto di raccontare l'ultima cena, però "Le ultime cene" di Tintoretto hanno qualcosa d'inconfondibile, e sono anche molto diverse tra loro:  quelle che dipinse a 20 anni sono diversissime da quelle che realizzò a 60.

È ciò che dice Tintoretto:  "Quello che ci identifica non sono i temi o i soggetti che ci vengono commissionati, che sono determinati dalla religione, dalle richieste del mercato e dallo spirito del tempo, ma il sentimento che a quei temi e a quei soggetti infondiamo affrontandoli dopo che mille altri prima di noi li hanno affrontati".

A me piacerebbe riuscire a fare lo stesso con i romanzi, nel senso che io cambio, e quindi non potrei scrivere nello stesso modo un romanzo che ho scritto a 25 anni e un romanzo che scrivo adesso che ho passato da poco i 40. Perché vorrei che i romanzi facessero parte di me come persona, oltre che di me come scrittrice:  sono qualcosa che mi accompagna nelle varie fasi della vita. È il loro essere legati a me ciò che li tiene insieme. Non sono mai romanzi autobiografici nel senso tecnico del termine, però riflettono le crescite, i cambiamenti.

A differenza di altri scrittori facilmente riconoscibili per temi o linguaggio, i suoi romanzi sono molto diversi tra loro. Volendo trovare un elemento comune, potremmo individuarlo nella sua scelta di narrare secondo un tempo che non è mai cronologico? Un modo di narrare che, forse, riflette la nostra memoria, che non è mai rettilinea.

Sicuramente ciò che tiene insieme i miei romanzi è proprio il modo in cui essi si relazionano con il tempo. Non è stata una cosa voluta quando ho cominciato a scrivere. Però poi mi sono resa conto che il mio modo di raccontare è un po' questo:  muoversi nel tempo dei personaggi e delle loro vite con la stessa fluidità con cui ci muoviamo nella nostra. Perché in effetti le nostre vite non sono rettilinee, e non è rettilineo nemmeno il percorso di un'artista:  vorrei che le due cose fossero sempre parallele. Credo che nessuno di noi cominci a scrivere avendo una direzione:  si torna anche indietro a volte, si fanno degli andirivieni. Pensiamo a Tintoretto:  comincia a dipingere in un certo modo, poi cambia strada. Poi però questa strada che ha preso non gli piace più, e torna indietro di nuovo:  ma ovviamente non è più il Tintoretto di 20 anni prima. Credo che tutti noi facciamo questo percorso non rettilineo. Anche le storie che viviamo lo sono, nel senso che quand'è che una storia è veramente conclusa? Uno ricomincia, incontra di nuovo delle persone, riapre dei capitoli. Anche i miei libri hanno questo movimento:  improvvisamente i ricordi di scene accadute 15 anni prima diventano molto pregnanti, come se fossero vissute adesso.

Un altro suo tratto caratteristico è l'essere anche una storica:  dietro i suoi libri c'è sempre un grande lavoro.

Questo mi ha sempre appassionato come romanziera. L'ho anche scritto ne Un giorno perfetto, definendola filologia della vita quotidiana. Mi piace ricostruire un mondo per poterci entrare, e per farlo devo lavorare anche da storica. Di alcune cose non so nulla. Ad esempio quando ho deciso di scrivere Vita, a parte i racconti che mi erano arrivati, non sapevo e invece dovevo riuscire a vedere la casa in cui Diamante era stato. Per questo, ho bisogno di fare un'investigazione sul campo, di lavorare sulle fonti, spesso sulle fonti effimere, cioè sulle memorie, i ricordi, le fotografie lasciate da gente che non pensava affatto di essere fonte. È stato molto importante anche lavorare con le fonti orali, parlare con le persone. È avvenuto, ad esempio, per Il bacio della Medusa (che avevo ambientato in Piemonte perché a quel tempo ero convinta che la mia famiglia venisse da lì). Quindi sono andata, e ovviamente non parlavo il patuà, non sapevo molto della vita di quelle persone e allora ho cominciato a farmi raccontare. Per Vita è stato importante perché dovevo ricostruire la storia del nonno anche interrogando i nipoti di quelli che erano stati con lui. Lavorare in questo modo è un po' da storica, è un lavoro d'investigazione, ma ovviamente sempre con un progetto romanzesco.

Ne La lunga attesa c'è un uso incredibile del veneziano, dei suoi termini.

Ovviamente tutti i documenti del Cinquecento erano in veneziano:  allora mi son detta beh, se voglio scrivere un libro su Tintoretto devo essere in grado di sentirlo parlare. All'inizio con grande spavento, poi invece con fascino:  adesso riesco a leggere i poeti in lingua veneziana (alcuni, tra l'altro, bellissimi), da me ignorati perché nella storia della letteratura italiana non ci sono. Del resto, è anche quello che ho fatto per la Schwarzenbach (Lei così amata). È un'avventura della conoscenza:  ho sempre vissuto la scrittura (come anche la letteratura) come un'esplorazione di territori ignoti, che non sono solo quelli dell'inconscio (il che m'interessa fino a un certo punto). L'ignoto è ciò che non so, sono lingue che non conosco, epoche nelle quali non sono stata, un'età che non è la mia, è lo scrivere di una ragazza morta nel 1942 come se fosse stata una mia amica. Per me questo è un progetto che vale la pena vivere, e che quindi mi può occupare tanto tempo. Ci metto tanto a scrivere. Sono un po' lenta.

Tornando ai romanzi che non finiscono e al tempo non cronologico della vita, trovo affascinante rileggere un libro a distanza di anni. È come se fosse un'altra cosa, perché la tua vita intanto è diventata un'altra cosa.

Mi succede quando mi rileggo:  Il bacio della Medusa ho cominciato a scriverlo nel 1992, quindi è passato molto tempo e improvvisamente è lontano da me, però ci ritrovo, mentre lo leggo, esattamente quello che ero allora. È lo stesso quando rileggo un libro non mio:  lo leggo anche nel parallelo che sono stata. Quindi, in quel momento, è come se avessi due vite. Questa è una ricchezza della letteratura, che si salda completamente alle nostre esistenze. Per sempre ti riattiverà la persona che sei stata. Tra l'altro, non ritroverai per nulla quelle cose:  ho riletto libri cercando una scena che non ho più trovato.

Due frasi mi sembrano in contraddizione. In Vita scrive "solo ciò che viene raccontato è vero", mentre in Un giorno perfetto "solo ciò che si compie è vero". Dove sta la verità?

Quello che si dice in Vita è una considerazione a cui sono arrivata lavorando a quel romanzo (come anche a La lunga attesa:  sono due libri apparentemente molto diversi, ma in realtà simili perché nascono entrambi sulla leggenda familiare). Mi sono resa conto che i meccanismi di produzione della memoria sono assolutamente identici. Mi interessa cercare di capire cosa ognuno di noi racconta di sé, e cosa vorrebbe fosse accaduto alla sua vita. Nel momento in cui mio nonno, tornato dall'America, cominciò a raccontare certe cose, per noi queste cose erano vere. Nello scrivere Vita mi sono resa conto che alcune di quelle cose erano effettivamente vere, ma altre no (magari erano accadute ad altri, però mio nonno sentiva che erano accadute a lui). All'inizio ho deciso di non accettarle nel romanzo, ma poi mi sono chiesta che senso avesse questa operazione, dal momento che per mio nonno (e per la nostra famiglia) quelle cose erano accadute, dunque erano vere. Secondo me, nella produzione dell'identità personale queste cose erano diventate vere, quindi erano vere. In questo senso ciò che viene raccontato diventa vero, e il romanzo finisce per essere vero. In Un giorno perfetto, invece, la frase ha a che fare con il vivere quotidiano, in cui ciò che fai esiste e ciò che non fai può anche svanire. Quindi qui era più una battuta del personaggio, mentre l'altro era un discorso sull'identità e la memoria.

Nelle recensioni ai suoi libri ritorna spesso l'aggettivo epico. Ci si ritrova?

Probabilmente sì, nel senso un po' classico del termine. Ad esempio credo che Vita tutto sommato fosse un libro epico, anche se il desiderio era di rompere quest'epica, di smontarla nel suo farsi raccontandone la costruzione. Però l'idea era di fare un'epica popolare. La cosa bella dell'epica è il grande arco narrativo delle storie del passato. Di Omero ricordo che mi piaceva il fatto che c'erano dieci modi di raccontare un personaggio, dieci epiteti, anche se tu al secondo canto avevi già chiarissimo il personaggio. E poi la capacità di manovrare tutte quelle storie che hanno al centro un'unica azione. Non penso però di essere propriamente un autore epico, perché in realtà mi piace stare dentro la storia, mi piace raccontare scegliendo ogni volta il punto di vista dei personaggi. E questa è una cosa antiepica per eccellenza, temo.

Nelle sue storie c'è molto da perdonare. Cosa pensa del perdono?

I miei personaggi hanno molte cose da farsi perdonare. Ma in realtà penso che non sono solo loro, è ciascuno di noi:  semplicemente, bisogna avere l'onestà di riconoscerlo. Quindi la grande questione è quella del cosa si può fare. È chiaro che l'offesa non viene mai sanata:  Vita tradisce mio nonno, e l'ha tradito per sempre, nel senso che un uomo di quell'epoca non riesce a superare lo stigma, perché molte volte ciò che la società pensa di noi diventa più importante di ciò che noi pensiamo. Probabilmente lui ha perdonato Vita come persona, ma non è riuscito a perdonarla ufficialmente, perché a quel tempo non si poteva. Se ragioniamo con gli occhi del mondo è una grande prigionia. Credo che bisogna riuscire a guardare nel proprio cuore per capire se ce la puoi fare. Secondo me si può.

A me però la domanda è venuta pensando a Valentina:  se si salverà (e io credo di sì), riuscirà a perdonare suo padre?

Penso che anche Valentina, se sopravvivrà (cosa che è stata affidata all'amore dei lettori:  se i lettori ameranno questo personaggio, lei vivrà), riuscirà a perdonare. Tra l'altro, una delle prime storie che scrissi era la storia di un padre che, da un giorno all'altro, scopre che il figlio ha fatto una cosa spaventosa. Inizialmente l'uomo non vuole avere più niente a che fare con lui, ma poi comincia un percorso per stargli comunque vicino. Effettivamente è un aspetto che m'interessa. Ma non saprei spiegare perché:  uno scrittore non sa dire perché alcuni temi tornano nei suoi libri.

Ne Il bacio della Medusa scrive che "le coppie felici non hanno storia".

Come si fa a raccontare un amore senza peripezie? Mi commuovo sempre quando incontro persone anziane che si sono messe insieme a 20 anni e ora ne hanno 90. Certo, alcune volte il grande amore è una mistificazione, ma tante altre volte senti proprio questo:  aver veramente vissuto con la tua persona, essere diventata metà di una parte. Come Filemone e Bauci:  mi dicevo, che storia meravigliosa, quanto sarebbe bello raccontarla! Ma non sono mai stata capace, non so se lo sarò mai. Perché poi essendo una persona molto inquieta, mi ritrovo nelle crisi, nei momenti di passaggio. Però certo, quello sarebbe per uno scrittore una bella sfida. Magari ci si proverà!

Molti dei suoi personaggi sono bambini. Ha detto che le piace scrivere delle persone in fieri, quando non si ha una sola identità, ma tante, "quando tutte le strade sono aperte, e il tempo si coniuga solo al presente". A me però sembra che i suoi bambini facciano scelte molto più grandi di loro, e che quindi siano già segnati, nel male o nel bene.

Mi colpisce il modo in cui la vita graffia sui bambini, la profondità del loro dolore. La minima frase che diciamo e, più ancora, le cose che facciamo, restano incise profondamente in loro. E ciò vale sia per i bambini che hanno avuto un'infanzia difficile, sia per i bambini felici. Ciò che faccio agisce su di loro, e questo mi fa pensare che è grande la nostra responsabilità nei loro confronti. Mi piace raccontare un'epoca in cui la vita ti penetra completamente. Il bambino in fondo si trova sempre in una situazione forte, perché per lui è forte anche se la madre un giorno fa tardi nell'andare a prenderlo a scuola. Magari è solo colpa del traffico, però lui per un'ora e mezza si è sentito abbandonato e tu quel tempo non glielo toglierai più.

I padri dei suoi romanzi sono padri terribili:  Felice divora i figli, Vita sogna di essere la figlia di Caruso e Kevin si inventa un altro padre. Tintoretto li riabilita o è la conferma del padre terribile?

Per me Tintoretto è stato un grande padre. Naturalmente era un grande padre con una grande personalità in un momento in cui l'autorità paterna era tutto. Quindi non vorrei che si giudicassero delle scelte (come quella di mandare le figlie in convento) perché appartenevano alla sua epoca. Anzi, mi sembra che Tintoretto abbia vissuto contro la sua epoca con Marietta, facendo più del necessario. A me piace molto il rapporto che riesce a sviluppare con lei. Proprio perché mi sembra una paternità conquistata, scelta, non necessariamente una paternità di sangue o imposta. Tant'è che tra le cinque figlie quella con cui si comporta da padre in tutti i sensi è quella che, forse, non è nemmeno sua figlia.

Tintoretto, però, almeno come padre si pone il problema:  "Continuo a chiedermi qual è la relazione fra il padre e il figlio, fra il prodotto e il produttore. Sono davvero cera che modelliamo, pagine bianche su cui scriviamo, tele grezze su cui dipingiamo?".

Per me questa è una grande domanda per la quale non ho risposta. Se è vero che abbiamo un'influenza enorme sui bambini che alleviamo, è anche vero però che c'è qualcosa di assolutamente indifferente a tutto ciò. In fondo, fratelli e sorelle crescono nelle stesse condizioni, ricevendo a volte lo stesso amore o lo stesso disamore, ma fanno scelte diverse, sono del tutto diversi:  quindi ci deve essere qualcosa d'irriducibile. È questa la cosa affascinante:  quanto possiamo modellare questa cera vergine e quanto, però, è irriducibile la materia. Un artista lo sa. Anche Michelangelo sapeva bene che nella pietra c'era qualcosa che non poteva mai domare. Noi sappiamo che per quanto riusciamo a impostare un romanzo, a lavorarlo, a costruire i personaggi, c'è sempre qualcosa che ci sfugge.

Lei sembra avere poca fiducia nella politica:  in quella di ieri (Felice a inizio Novecento), dell'altro ieri (Venezia nel Cinquecento), di oggi (Elio).

(Ride). Nel creare il personaggio di Felice Argentero, l'onorevole ricco che capisce che se non entra in politica sarà difficile per le sue aziende, mi ero ispirata direttamente a cose accadute nell'Italia del primo Novecento. Era interessante lavorare sul modo in cui la politica è stata vissuta. E anche sull'eternità di certe cose:  è scioccante scoprire che alcuni meccanismi politici sembrano essere rimasti alla Venezia del Cinquecento. Possibile? È cambiato tutto, eppure c'è qualcosa che resta. Indubbiamente Un giorno perfetto è un libro politico:  lo scrissi nel 2002 perché mi sembrava giusto raccontare ciò che stava succedendo all'Italia. Secondo me è successo qualcosa di enorme. Poi spetta agli storici raccontarlo, come riuscirono a fare Tacito o Sallustio.

Tra i suoi libri Un giorno perfetto è quello in cui l'incomunicabilità è assoluta. Finanche ne Il bacio, Norma alla fine viene capita almeno dalla cognata che inizialmente l'aveva più avversata.

Siccome al centro de Un giorno c'è una tragedia, volevo dimostrare che se almeno alcuni piccoli spiragli fossero stati aperti, probabilmente la tragedia non ci sarebbe stata. Quando si va a ricostruire qualsiasi evento negativo è esattamente così:  la tragedia accade perché tutto va male, perché tutte le cose che si potevano fare non si sono fatte. Nella vita normale, invece, a volte ci sono dei piccolissimi spiragli che non ti accorgi che sono importanti, ma che comunque apri e poi le cose vanno un po' meglio. Al centro del libro c'è un delitto che tutti avrebbero potuto evitare, e che invece nessuno ha evitato:  la sfida come autrice era raccontare quel dramma. Tutti dicono che il contemporaneo non è tragico, ma non è affatto vero. Volevo dare dignità alla tragedia contemporanea, narrandola in maniera anche grottesca (perché la realtà contemporanea è assolutamente grottesca, eccessiva).

Come fa a non mettere troppo di sé nei suoi personaggi?

Vorrei che i miei lettori non pensassero a me come persona, ma come a chi ha raccontato loro quella storia. Come quando penso a un romanziere che mi ha raccontato storie che mi sono piaciute.

Leggendo lei non ha la curiosità di sapere qualcosa sulla vita dell'autore?

No, mai. A volte, addirittura, nemmeno quella di vederne il volto. Pensi che della Morante, autrice che ho molto letto, non avevo mai visto una foto. Ricordo che quando lei morì vidi su un giornale l'immagine di questa donna anziana in un letto d'ospedale. Rimasi traumatizzata:  non mi doveva essere mostrata così. L'amavo per tutte le storie che mi aveva raccontato:  che faccia aveva, se stava male, non lo volevo sapere. Per me lo scrittore è quello che mi ha parlato mentre lo leggevo. A volte è anche curioso incontrare la persona, però, per lo più, vorrei essere dentro le storie. Il mio desiderio è di frantumarmi completamente, di esistere attraverso i personaggi che racconto.

Ho pensato a tante sue figure leggendo questa frase dell'ultima enciclica:  "Una delle più profonde povertà che l'uomo può sperimentare è la solitudine. A ben vedere anche le altre povertà, comprese quelle materiali, nascono dall'isolamento, dal non essere amati o dalla difficoltà di amare".

La solitudine è assolutamente una povertà estrema:  l'ho sempre percepito. Anche perché credo che ognuno si arricchisca solo nel confronto con gli altri. Cosa saresti se non ti nutrissi degli altri, di ciò che riesci a dare agli altri, di ciò che gli altri danno a te? Anche solo la curiosità verso la vita ti viene dalla vita degli altri. Fin da bambina sono stata così.

Però nelle sue storie c'è tanta solitudine.

C'è tanta solitudine perché in realtà è molto difficile riuscire a dare ciò che uno  ha.  La  cosa che forse mi intristisce di più, è che spesso tutto resta inespresso. La persona non riesce a comunicare il sentimento, né le sue potenzialità.

I suoi romanzi hanno spesso versioni originarie molto lunghe:  evidentemente lei ha il coraggio di tagliare.

Di tutto ciò che lasciamo cadere, ciò che non è maturo cade e non cresce più, ma il resto è come se mettesse un seme che poi ritorna, e ritorna meglio. Questo forse è anche un invito a chi scrive:  spesso non si vuole toccare nulla. Invece se lo lasci lì, e poi ci pensi, ti accorgi che ci sono delle cose che lì non ci stanno, ma che poi, sicuramente, staranno da un'altra parte. Il bello di lavorare come ricercatrice sugli arsenali degli artisti è proprio quello di vedere qualcosa che è caduto da un quadro, da un libro, e che poi, 20 anni dopo, è diventato altro. Tintoretto disegnava centinaia di figure sui suoi album, poi a volte li metteva nel quadro, altre no. E su questo foglio che Tintoretto aveva in bottega, e che non aveva mai utilizzato, ci disegna dietro Marietta, e diventa un pezzo di un quadro suo".
Non ho il coraggio di chiederle uno dei suoi fogli tagliati. Potrei anche trovare la scusa, dirle che mi serve un foglio da minuta per sbobinare l'intervista. Ma oggi si usa il computer, e io non sono Marietta.



(©L'Osservatore Romano 22 ottobre 2009)
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