Durante la visita a Brescia e Concesio Benedetto XVI assegna alla collezione "Sources chrétiennes" il Premio internazionale Paolo VI,
Nobel cattolico che nel 1997 era andato a Jean Vanier fondatore della Comunità dell'Arca

Il coraggio della complessità


di Giulia Galeotti

Era la notte di Pasqua 2001. A Lourdes faceva davvero molto freddo. I più fortunati erano riusciti a trovare posto in Chiesa, ma noi, giunti in ritardo, assistemmo alla messa sulla spianata. Eravamo tantissimi, seduti sotto pile e pile di coperte da campo:  con il buio e il freddo che aumentavano. A un certo punto, però, diffondendosi come un'onda, un passaparola iniziò a scaldarci tutti. Jean Vanier non era in chiesa:  stava seguendo la celebrazione all'addiaccio come noi. In fondo, non poteva essere altrimenti:  prima ancora che le parole, sono stati i gesti di quest'uomo ad aver dato senso e bellezza all'esistenza di milioni di persone sparse nel mondo.

La sua vita è caratterizzata da brusche inversioni di rotta. Mi sembra, però, che (sia pure in forme diverse), dalla scelta che lei compì a 12 anni nel 1942 entrando in Marina a ciò che ha scritto dopo l'11 settembre 2001 ritorni sempre il profondo bisogno di costruire la libertà e la pace.

Direi di sì. Quando entrai in Marina, vi fu sicuramente questo elemento. Ma quando poi decisi di lasciarla, vi fu ancora il desiderio di trovare una nuova strada per costruire la pace. E fu quella di seguire Gesù, e di vedere dove mi avrebbe condotto. Quando fondai l'Arca nel 1964, vi fu in me un forte desiderio di giustizia, di unità e di pace da perseguire accogliendo persone che erano state profondamente rifiutate (negli anni Sessanta molti disabili venivano nascosti negli istituti). Man mano che l'Arca crebbe, crebbe in noi la consapevolezza di stare effettivamente lavorando per la pace. Giacché la nostra comunità era divenuta ecumenica e interreligiosa, compresi in maniera più profonda l'importanza di scoprire una comune identità di pace nel nostro mondo. Quindi sì, v'è questo filo rosso, ma v'è anche il desiderio di seguire Gesù, il principe della pace.

Se dovessi riassumere il suo percorso dall'agosto del 1964 a oggi, sceglierei una frase di Etty Hillesum:  "Amo così tanto gli altri perché amo in ognuno un pezzetto di te, mio Dio. Ti cerco in tutti gli uomini e spesso trovo in loro qualcosa di te".

Gli ebrei e, in particolar modo, i discepoli stavano aspettando un messia che avrebbe messo i romani alla porta, e che avrebbe ridato dignità al popolo ebraico. Ma Gesù non è venuto solo per liberare gli ebrei dal giogo dei conquistatori romani, è venuto per dare la libertà a ogni persona. È il mistero di Cristo:  dare la libertà a ciascuno in modo che vi fosse la pace, e che tutti noi imparassimo ad amarci gli uni gli altri superando i muri e i fili spinati delle frontiere. Credo che quando il mondo è diventato carne, Dio è divenuto il fratello maggiore di ciascun essere umano che è esistito, che esiste e che esisterà. Il cuore del messaggio di Gesù è che ogni persona è preziosa; è venuto a cambiare i nostri occhi, in modo tale da renderci capaci di vedere che ogni persona lo è. E ogni persona è preziosa perché ciascuno di noi diventa il luogo dove Dio risiede. Credo che Etty Hillesum avesse davvero il senso profondo dell'importanza del valore di ciascuna persona come il luogo in cui Dio risiede, o in cui è chiamato a risiedere.

La sua vita è dedicata alla disabilità mentale, ma il suo messaggio sul valore della diversità vale per ogni differenza:  a proposito del massacro in Ruanda, lei ha scritto "uccidere l'altro perché è diverso, significa voler uccidere quella parte di tenebre che ciascuno ha dentro di sé".

Siamo veramente spaventati dalla differenza. E giacché ci spaventa, ci chiudiamo nella nostra tribù, nel nostro clan, nel nostro gruppo. Così, abbiamo perso la consapevolezza della nostra comune identità di figli di Dio. Ciascuno di noi è chiamato a essere figlio di Dio. Invece ci creiamo un'identità nazionale o religiosa, e disprezziamo gli altri, li guardiamo dall'alto in basso, non vediamo in loro nulla di buono.

Ha scritto osservazioni molto interessanti sul delirio di onnipotenza dell'uomo di oggi. È un punto su cui ritorna anche Benedetto XVI nell'enciclica "Caritas in veritate", ricordando come la missione della Chiesa sia proprio "una missione da compiere, in ogni tempo ed evenienza, per una società a misura dell'uomo, della sua dignità, della sua vocazione". Questo rispetto per l'uomo ci chiama in causa in ogni ambito, per esempio in riferimento alla tecnologia.

L'umanità ha scritto prima con la penna, poi con la macchina da scrivere, e infine con il computer:  ogni tecnologia è e può essere bellissima. La domanda di fondo, però, è che uso ne facciamo. Usiamo la tecnologia per aiutare le persone a diventare più umane, oppure la usiamo per avere più potere? Molta tecnologia è stata creata per la guerra, per ottenere armamenti migliori e più efficaci, per raggiungere sempre più potere. Quindi, se usiamo la tecnologia per il potere, se la usiamo per schiacciare le persone, allora noi distruggiamo ciò che è umano. Se invece la usiamo per aiutare le persone a diventare più umane, allora davvero la utilizziamo per crescere nel rispetto e nell'amore per gli altri, e, in particolar modo, per chi è debole e ferito, per chi è diverso. Perché ogni essere umano è prezioso, a prescindere da quelle che siano le sue capacità o le sue incapacità, la sua fede o la sua cultura.

Un altro punto su cui lei ritorna spesso è la complessità dell'uomo:  "Ogni uomo è un connubio misterioso di bene e di male, di luce e di tenebre, di speranza e disperazione, vita e morte, fede e dubbio, verità e menzogna, amore e odio". Lei crede che gli uomini di oggi siano in grado di cogliere questa complessità dentro se stessi?

Vi sono moltissime persone che soffrono incastrate nella dipendenza dall'alcol, dalla droga, dal sesso e anche dal lavoro. Ma se tanti sono consapevoli della loro dipendenza, non sanno, però, come venirne fuori:  toccando con mano la loro incapacità di cambiare, non sanno come andare avanti. Perfino sotto il nazismo tanti non volevano Hitler, ma non sapevano come muoversi perché erano terrorizzati, dato che il terrore regnava ovunque. Siamo intrappolati nell'angoscia e nella paura, e pur volendo uscirne non sappiamo come. La dipendenza non viene solo perché una persona beve troppo:  dietro v'è la depressione, l'angoscia profonda, la sensazione di non valere nulla. E così la vera domanda è:  chi ci salverà? Anche se, certo, molte persone non usano questa espressione.

In questo, abbiamo una grande responsabilità come cristiani:  è facile parlare, ma è meno facile andare a sedersi accanto a una persona sporca, che si comporta in modo sconveniente.

Sì. Credo che abbiamo la responsabilità di dire che abbiamo incontrato Gesù, e che Lui ci sta cambiando (non ho detto:  che ci ha cambiati; ho detto:  che ci sta cambiando). Perché tutti noi, sappiamo benissimo che abbiamo difficoltà nell'amare. Gesù dice amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano:  ma quant'è difficile! Gesù è il Salvatore, ma c'è anche la strada di accoglienza allo Spirito Santo che gradualmente ci trasforma. Verremo trasformati in uomini e donne di pace, in uomini e donne che si sentono in profondità liberati da Gesù. Ma è una strada lunga! Dobbiamo stare attenti. Possiamo dire cose bellissime, ma spesso siamo assuefatti alla ricchezza, al lavoro:  abbiamo costantemente bisogno della forza di Gesù che è venuto a trasformare i nostri cuori di pietra in cuori di carne. I cuori di pietra sono lì perché siamo spaventati, c'è molta paura dentro di tutti noi. Lo vedo in me stesso:  c'è ancora molto dentro di me che deve crescere, che deve cambiare.

Credo anche che abbiamo bisogno di molta umiltà.

Questa è la base di tutto. Martin Luther King ha detto una cosa davvero bella. Un giorno un tizio gli chiese:  "Quando un gruppo smetterà di ritenersi migliore di un altro?" (ovviamente pensava ai bianchi e ai neri), Luther King rispose:  le cose cambieranno solo se tutti riconosceremo le tenebre dentro di noi, ammetteremo ciò che è rotto e sbagliato, ciò che non va in noi. Tutto comincia quando io credo di essere migliore di te. Abbiamo tutti bisogno di aiuto, dell'aiuto di Gesù, della Chiesa, della comunità. Per crescere nell'amore verso gli altri.

Passando al suo impegno all'Arca, dal primo giorno lei ha colto l'aspetto centrale che deve aver presente chiunque si avvicini alla disabilità. Rispetto a Raphaël e Philippe ha scritto:  "Tirandoli fuori da un manicomio, sapevo che era una scelta che mi impegnava per tutta la vita:  era impossibile creare dei legami con loro e poi, dopo qualche tempo, rimetterli in ospedale o altrove".

Se per ciascuno di noi essere abbandonati è un grande dolore, lo è, probabilmente, in misura maggiore per chi già è stato rifiutato o accettato in modo ambivalente alla nascita, per chi ha difficoltà di prendere il telefono e ricordarti che c'è, o per arrabbiarsi perché ti sei scordato del suo compleanno! È centrale tentare di immedesimarsi. Sì. Il punto centrale con le persone disabili è quello di comprenderle. Ma non è solo questo:  occorre far capire loro che hanno valore. Quando facciamo delle cose per gli altri, finiamo spesso per farli sentire piccoli perché io "ti" sto facendo qualcosa, "ti" sto dando qualcosa. Ma nell'Arca e in Fede e Luce v'è qualcosa di molto più profondo:  cerchiamo di mostrare a chi è stato rifiutato e ferito che è una persona preziosa. Molti di loro hanno vissuto momenti estremamente difficili, hanno sperimentato l'essere stati una delusione per i loro genitori:  per il bambino è dolorosissimo. Quindi, dobbiamo anche cercare di aiutare i genitori a vedere e a comprendere che il figlio non è una delusione, non è qualcosa che non funziona, ma è invece una persona esattamente come noi, una persona con le sue difficoltà e i suoi handicap che sono, semplicemente, più visibili di quelli degli altri.

Quest'anno, dopo vario tempo, ho rifatto un campo di Fede e Luce. Mi ha colpito molto vedere come negli anni, tanti ragazzi siano cambiati:  anche qui, dobbiamo spogliarci delle nostre certezze, e comprendere che, come cambiamo noi, cambiano anche loro.

Questo è il segreto. Anche qui:  quando siamo generosi, quando facciamo qualcosa per qualcuno, noi abbiamo un certo potere su quella persona. Ma con Fede e Luce o con l'Arca è diverso:  noi entriamo in relazione con loro. Ed è nella relazione che io mostro loro che sono importanti. È nella relazione che dico loro:  raccontami la tua storia, raccontami il tuo dolore. In questo modo, però, anche noi diventiamo vulnerabili:  entrando in relazione con le persone disabili, noi stessi diventiamo vulnerabili. Li ascoltiamo, e sappiamo che non sappiamo cosa fare. È proprio questo il messaggio:  voglio parlare con te, ti amo, ma non ho la soluzione per i tuoi dolori, voglio solo accompagnarti. È il segreto di Fede e Luce. Non diamo soluzioni, non abbiamo soluzioni:  ma possiamo parlare con loro. È così che si sentiranno compresi, si sentiranno amati e preziosi. Lo ripeto sempre:  il cuore della pedagogia dell'Arca è semplicemente quello di dire:  sono felice vivendo con te, stando con te. È costruire relazioni che ci uniscono.

La cosa incredibile è stata scoprire che tutto ciò che lei ha detto per "loro", vale anche per noi. È successo anche a me:  essere conosciuta e ascoltata, anche in modo non convenzionale, mi ha fatta cambiare, mi ha accompagnata e amata.

Già. Ma questo è un aspetto che moltissime persone non capiscono. Viviamo in una cultura in cui ognuno vuole avere successo, vuole arrivare in cima alla scala, avere più potere (anche più potere per fare del bene!):  è la cultura della competizione. Invece, siamo chiamati a costruire una cultura di relazioni e di amore. Il messaggio di Gesù è proprio quello di amarci a vicenda, come lui ha amato noi. In Fede e Luce non viviamo insieme, ma è una fedeltà che ci fa essere con loro. E così iniziamo a vedere un amico. Così ci accorgiamo che, in qualche modo, stiamo costruendo una cultura di pace, che ci stiamo allontanando dalla cultura della competizione il cui unico fine è dimostrare che sono migliore di te. In modo assolutamente misterioso, le persone disabili ci cambiano e ci trasformano.

Un tasto complesso è il rapporto con la Chiesa. Nonostante i propositi e le dichiarazioni, non sempre siamo ben accolti a messa quando stiamo con persone che hanno un altro modo, un po' rivoluzionario a volte - Fede e Luce è rivoluzionaria! - di pregare e di partecipare alla liturgia. Crede che ci siano ancora difficoltà nella Chiesa ad accogliere autenticamente la disabilità mentale?

Non è solo questione della Chiesa:  è qualcosa di molto umano. La gente ha paura delle persone con disabilità, non sanno come cominciare, cosa fare, quindi tendono a rifiutarli. È quello che successe nel Medio Evo, e anche dopo, con i lebbrosi. San Francesco racconta che prima provava repulsione, non ne tollerava l'odore, ma poi Dio lo ha condotto a loro, a essere con loro. Lo scrive nel suo Testamento:  quando mi sono avvicinato ai lebbrosi, è sgorgata una nuova delicatezza nel mio spirito e nel mio corpo, e ho iniziato a servire il Signore. Il punto è che tendiamo a rifiutare le persone che non comprendiamo, le persone con cui non riusciamo a comunicare. Non è solo nella Chiesa:  è dovunque. Se io non avessi avuto questa straordinaria occasione di incontrare persone con disabilità, forse anch'io sarei stato così. Ma sono stato portato a incontrarli, esattamente come è successo a san Francesco con i lebbrosi, che ha scoperto le persone meravigliose che erano. È quello che impariamo a Fede e Luce:  dietro le apparenze, vi sono persone bellissime che chiedono solo di essere capite e amate. Gesù ci chiama a una sorta di conversione:  accettare i diversi. Gesù ha detto:  è facile amare quelli che vi amano, amate i vostri nemici, amate coloro che vi odiano. Una persona con disabilità può apparire come un nemico perché non sappiamo comunicare con lui, e quindi ne siamo terrorizzati. Gesù è venuto per trasformarci e renderci in grado di accettare le persone semplicemente per quello che sono.

Doloroso è anche il rapporto tra la disabilità mentale e la medicina. Prescindendo dalle obiezioni (a volte esplicite, altre implicite) del perché-non-si-è-evitata-quella-nascita, molti medici tendono a fare il minimo indispensabile, a considerare il paziente disabile come un paziente di serie B sul quale vale poco la pena di perdere tempo. A volte è difficile far capire loro che un paziente disabile è un paziente e basta.

Lo si vede ovunque. È sempre la paura del diverso. A una mia amica della comunità venne detto che la bambina che aspettava era affetta da Trisomia 18 (patologia che farà nascere il feto morto o che lo farà morire a breve). Questa donna ha avuto difficoltà enormi:  tutti insistevano perché abortisse, anche la pediatra che l'avrebbe dovuta aiutare, e che invece era terrorizzata. Credo che molti medici siano spaventati. Non hanno il tempo o non sono stati aiutati a prendere il tempo necessario per vedere la persona dietro la disabilità. È proprio questo ciò che san Francesco trovò:  la persona dietro la lebbra. Da un certo punto di vista, è la storia di tutte le persone. L'ubriaco, il drogato, il carcerato:  c'è comunque una persona dietro. Forse il detenuto ha commesso un grave crimine, ma v'è comunque un bambino in lui. Il messaggio di Gesù è proprio quello di scoprire e di accettare la persona dietro tutte le difficoltà.

In Italia non è possibile per un single adottare un bambino, mentre è possibile adottare un bambino disabile. Ho sempre ritenuto che questa fosse una scelta orribile del nostro legislatore:  il messaggio implicito è che lo Stato valuta i bimbi disabili come bambini di serie B per i quali può essere sufficiente anche un solo genitore.

Questa discriminazione è presente ovunque. Il mondo vuole accettare le persone con disabilità solo se possono essere reinserite, se possono vivere da sole. Molti Stati e molte leggi li accettano solo se possono in qualche modo diventare "normali". Come tutti gli altri. È il rifiuto di accettare le persone semplicemente per quello che sono. Perché non esiste qualcosa come la normalità o l'anormalità:  ogni persona è diversa. È fondamentale creare società in cui ciascuno sia visto e sia considerato importante.

Il cammino sembra farsi sempre più difficile man mano che la medicina e il diritto ci forniscono nuove possibilità per eliminare il disabile prima della nascita e per costruire il figlio perfetto. Già nel lontano 1988 lei scriveva che "le manipolazioni genetiche permettono di scegliere il bambino dei nostri sogni e dei nostri calcoli, invece di ricevere il bambino come un dono, nato dall'amore. Oggi, l'uomo e la donna corrono il rischio di essere programmati come dei computer".

È l'eugenetica di oggi volta a creare il figlio perfetto. Scelgo un maschio, un maschio che voglio diventi un grande pianista. Il problema è che i genitori debbono imparare a separarsi dai figli:  non siamo il prodotto dei nostri genitori! Loro ci mettono al mondo, ma poi tutti dobbiamo imparare a lasciarli. Devo comprendere non quello che i miei genitori vogliono da me, ma ciò che Dio vuole da me. Il pericolo di questa eugenetica è che il genitore vuole possedere il figlio, mentre ciò che dovrebbe fare è permettergli di diventare ciò che sente essere la sua vocazione. Aiutare il figlio ad accettare la sua disabilità, ad accettare i doni che ha o che non ha. Aiutarlo a prendere le decisioni, a essere responsabile per la sua vita. Non scegliere un figlio e farlo diventare cosa io voglio che diventi, ma comprendere che mi è stato dato un figlio da Dio, e che quel figlio va aiutato a scoprirsi e ad accettarsi per quello che è.

Se non mancano le madri che abbandonano i figli disabili, il grande assente è stato e resta a tutt'oggi il padre:  sembra quasi che i bimbi disabili siano stati concepiti miracolosamente senza intervento maschile.

È veramente doloroso. A prescindere dal fatto se si tratti di un figlio disabile o meno, dobbiamo considerare che la madre ha una relazione particolare con il bimbo, dovuta al fatto di averlo portato in grembo. Al padre questo legame manca:  il padre vede solo gli aspetti negativi della relazione. Nella mia comunità organizziamo incontri solo con i padri:  è incredibile scoprire la loro pena. Il loro dolore è così diverso da quello delle madri, specie se il figlio disabile è maschio. C'è un dolore immenso. Non si tratta di condannarli, ma di capire che hanno bisogno di un aiuto particolare. Succede davvero troppo spesso che l'uomo dica alla madre:  se non abortisci, se non metti il bambino in istituto, ti lascio. E così, abbiamo tante famiglie monoparentali con madri che vivono sole con il figlio disabile. È una realtà terribile. Qui davvero Fede e Luce può fare tanto.

Per i genitori, non è facile essere equi tra i figli, specie quando uno di loro presenti delle difficoltà. C'è il rischio che la disabilità fagociti le attenzioni, il tempo, l'amore del genitore.

Ricordo che un giovane uomo, senza disabilità apparenti, un giorno mi disse:  ho sempre voluto essere handicappato. Quello che mi stava dicendo, era che sua madre aveva sempre dato tutte le attenzioni al fratello disabile, dimenticandosi di lui. Non è mai facile essere un buon genitore. I genitori hanno bisogno di aiuto, specialmente i genitori di figli disabili. L'educazione deve essere giusta per ogni figlio. A volte v'è il pericolo che i genitori dedichino tanto tempo al figlio disabile, abbandonando l'altro a scuola o davanti alla televisione. I genitori hanno bisogno di aiuto per essere genitori amorevoli, intelligenti, saggi, e un po' pedagoghi.

Non è infrequente che, in una famiglia, nascano due figli disabili. A volte, viene da dirsi:  forse è un po' troppo.

Se i genitori di un figlio disabile hanno bisogno di aiuto, i genitori di due figli (ma a volte anche di tre) hanno bisogno di ancor più aiuto, di ancor più amore. Necessitano di un sostegno enorme da parte della Chiesa. Hanno bisogno di trovare una comunità. V'è qualcosa di misterioso:  se le persone con disabilità ci insegnano a essere più umani e ad amare maggiormente, molti genitori però non vedono affatto le cose in questo modo. Magari hanno un appartamento piccolo, il loro figlio non è mai cresciuto, ci sono momenti di rabbia e di violenza:  vedo molto bene il dolore dei genitori. Sostenerli è il compito di associazioni come Fede e Luce, ma questo deve innanzitutto essere il compito delle parrocchie, che debbono aiutare a dare ai genitori il tempo e il modo di capire che l'handicap del loro figlio non è una punizione. Ma ci può volere davvero tanto tempo prima che i genitori riescano a superare la rabbia verso Dio. A comprendere la benedizione.

Forse la chiave per far sì che il mondo veda la persona (disabile) e smetta di guardare alla disabilità (della persona) è la conoscenza. Nel suo libro sull'impatto sociale dell'amniocentesi negli Stati Uniti d'America, l'antropologa Rayna Rapp nota con grande stupore che molte delle donne che, pur informate della malformazione del feto, decidono di non abortire, sono donne che hanno conosciuto, in famiglia o nella loro rete di amicizie, la disabilità. Immagino che invece lei non ne rimanga affatto sorpreso.

Ha perfettamente ragione. Come fare a mostrare alla gente che le persone disabili sono persone diverse? A mostrare innanzitutto ciò che v'è di buono in loro, e non subito quel che non va? Ogni anno la mia comunità accoglie 150 ragazzi dalle scuole locali:  vengono, passano del tempo con noi, visitano i laboratori e via dicendo. Poi chiediamo un commento su quello che hanno vissuto. E i giovani iniziano tutti con lo scrivere:  prima di venire all'Arca ero molto spaventato dalle persone disabili, ma ora che le ho conosciute, mi sono accorto che molte di loro sono semplicemente persone meravigliose. È cruciale trovare occasioni per fare incontrare le persone in modo che il mondo comprenda che le persone disabili sono sì persone con difficoltà e mancanze, ma che sono anche persone aperte, di cuore.

E i film? Crede che i film sulla disabilità aiutino a comprendere?

Non lo so. Da un lato c'è sicuramente qualcosa di buono, ma dall'altro v'è il fatto di far vedere alle persone disabili che possono essere autentiche star del cinema, il che succede a uno su diecimila. La maggior parte di loro non reciteranno mai in un film, specie coloro che hanno gravi disabilità. Se Rain Man o L'ottavo giorno per alcuni versi hanno fatto scoprire alla gente il valore della disabilità, il pericolo che, a volte, vedo è che per questa strada li vogliamo fare diventare come noi. È sempre il rifiuto della differenza. Ma delle differenze ci sono:  è innegabile! Possono avere difficoltà a comunicare, a prendere decisioni, necessitano di aiuto continuo. Secondo me è un pericolo negare le differenze e pensare che tutti possano diventare normali. Dobbiamo, invece, accettare il fatto che ogni persona è preziosa, e aiutare ciascuno a trovare la sua piena umanità attraverso le relazioni, la fede e il lavoro.

Leggendola e ascoltandola colpisce come la forza del suo impegno conviva con la pacatezza di toni e di modi, con un sorriso capace di farsi vera accoglienza. Nel mondo di oggi è raro essere, al contempo, una persona pacata e una persona che crede fermamente in ciò che fa. Per solito, si diventa arroganti, troppo sicuri di sé.

Vivere con persone disabili, mangiare e divertirsi con loro. L'Arca e Fede e Luce sono luoghi di relazione, luoghi in cui scopriamo cosa significa volersi bene, celebrarsi l'un l'altro, comprendere e accettare che alcune persone hanno difficoltà. Il pericolo che vedo nel nostro mondo è quello delle ideologie, e soprattutto di quella secondo la quale dobbiamo essere tutti uguali. Invece dobbiamo aprirci al prossimo. La strada è lunga. Dobbiamo prenderci il tempo di accettare le difficoltà altrui.

Sono sessant'anni che lei vive con la disabilità mentale:  crede che nel tempo il mondo sia diventato più accogliente nei suoi confronti?

Come per tutte le cose, la risposta è sì-e-no. Da un lato, ci sono scuole, laboratori, alcune fabbriche aperte ai disabili, mentre la legislazione enfatizza l'importanza dell'accettazione. Dall'altro lato, però, ci sono la paura e l'aborto che hanno sempre più parte nel nostro mondo. In Francia nei prossimi due anni ci saranno circa un milione di persone malate di Alzheimer:  v'è bisogno di molti soldi per accogliere questi malati, per creare case adatte a loro. Cosa succederà? Lo stesso discorso vale per la disabilità:  verrà naturalmente un momento in cui l'eutanasia sarà la regola. Ma al dodicesimo capitolo della lettera ai Corinzi, Paolo scrive:  "Quelle parti del corpo che sono le più deboli, le meno presentabili, quelle parti del corpo che nascondiamo, sono necessarie al corpo e devono essere onorate". Coloro che sono i più deboli, hanno una missione nel mondo, e hanno una missione nella Chiesa. Lo dico spesso:  non è solo questione di evangelizzare i deboli, è questione di essere evangelizzati da loro. È il mistero dei bambini che possono insegnarci a essere aperti e amorevoli come loro. Così il disabile o il malato di Alzheimer. Dobbiamo imparare a entrare in relazione con loro, a farci insegnare da loro a crescere nell'amore. Nel nostro mondo che cerca l'efficienza, il successo personale, abbiamo perso la nozione dello stare insieme, della comunità, della Chiesa come corpo. E in quel corpo, ciascuno è importante. C'è sempre la tendenza, dovunque, ad ammirare i forti:  e così dimentichiamo che ciascuno ha valore.

Uno dei passaggi che più mi colpiscono del Vangelo è quello in cui Gesù dice:  "Quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi" (Giovanni, 21, 18).

È la storia di tutti noi. Io ho 81 anni, e verrà il tempo (il prossimo anno, nei prossimi anni) in cui qualcosa succederà.

Diciamo nei prossimi vent'anni!

(Ride) Ne avrò oltre 100! Dobbiamo scoprire la bellezza di ogni realtà. Se siamo nel dolore, dobbiamo cercare di capirne il mistero:  questo impariamo all'Arca o in Fede e Luce. Imparare a scoprire che nella debolezza siamo chiamati ad amare e ad andare verso l'amore. C'è una bellissima frase che Giovanni Paolo II pronunciò in Vaticano nel gennaio 2004:  le persone disabili possono diventare araldi di un mondo nuovo. Possono insegnarci la via verso l'amore e la solidarietà. È il mistero. Per le persone intrappolate nell'efficienza, tese a raggiungere la sommità della scala, è difficile scoprire il mistero dell'umiltà e della relazione.

L'ultima cosa. Nel 2011, in occasione dei 40 anni dalla fondazione di Fede e Luce, non vi sarà più il pellegrinaggio mondiale a Lourdes. Conosciamo le valide e serie ragioni che hanno portato a questa scelta, ma proprio non si può rivedere questa decisione? Non si può fare nulla?

Certo che si può! A Lourdes nel 2001 eravamo sedicimila:  fu una cosa impossibile. Un pellegrinaggio di queste dimensioni richiede uno sforzo enorme, eccessivo in termini di energie e di denaro. Non solo, ma in finale riusciamo ad avere tantissime persone dalla Francia o dall'Italia, ma solo 2 o 3 dal Perú. Del resto, è anche vero che a livello locale c'è la necessità di fare pellegrinaggi in luoghi importanti per la fede:  per esempio, in America Latina andare dalla Nostra Signora del Messico. Dobbiamo re-imparare a scoprire l'importanza del pellegrinaggio, incentivando quelli che io chiamo i pellegrinaggi locali, in occasione dei quali le comunità debbono invitare persone da altre parti del mondo. Per esempio, già succede che le diverse comunità francesi invitino ai loro pellegrinaggi persone dalla Costa d'Avorio, dal Sud America:  è esattamente questa la strada. Oggi siamo più di 1.500 comunità di Fede e Luce nel mondo:  dobbiamo necessariamente cambiare le modalità dei nostri pellegrinaggi! Credo fermamente che il pellegrinaggio sia un momento cruciale, e profondamente umano. Gli ebrei vanno a Gerusalemme, i musulmani alla Mecca, anche l'induismo ha il senso profondo del pellegrinaggio, esattamente come i cristiani. È un momento cruciale per abbandonare la quotidianità della vita, e per scoprire nuove strade. Per scoprire Dio.



(©L'Osservatore Romano 8 novembre 2009)
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