Don Enrico Dal Covolo, predicatore degli esercizi spirituali in Vaticano

Dal Papa col diario
di un curato di campagna


di Nicola Gori

Dopo quattro cardinali, a predicare gli esercizi spirituali quaresimali a Benedetto XVI quest'anno sarà per la prima volta un semplice sacerdote. È don Enrico Dal Covolo, postulatore generale dei salesiani, che ha scelto come tema delle sue meditazioni la vocazione sacerdotale, proprio in sintonia con l'Anno che la Chiesa sta celebrando. In questa intervista al nostro giornale il religioso anticipa contenuti e metodo degli esercizi che predicherà al Papa e alla Curia Romana da domenica 21 a sabato 27 febbraio.

Può illustrarci il tema degli esercizi spirituali di quest'anno ""Lezioni" di Dio e della Chiesa sulla vocazione sacerdotale"?

Il titolo intende spiegare sia la linea del metodo, sia la linea dei contenuti di questi esercizi. La linea del metodo è quella antica e veneranda della lectio divina, articolata nelle sue tappe fondamentali della lettura, della meditazione, della preghiera e della contemplazione. La conversione della vita resta la tappa conclusiva della lectio divina e di conseguenza la tappa conclusiva degli esercizi spirituali. Il titolo stesso allude anche ai contenuti, che riguardano la vocazione sacerdotale. Essa viene illustrata attraverso le tappe tipiche dei racconti biblici di vocazione, che sono cinque:  la chiamata di Dio; la risposta dell'uomo; la missione che Dio affida al suo chiamato; il dubbio, la tentazione, le resistenze, le perplessità del chiamato; infine, la conferma rassicurante da parte di Dio. Le meditazioni del mattino percorreranno sistematicamente queste cinque tappe. Invece, la meditazione del pomeriggio prende spunto dalle "lezioni della Chiesa", la più illustre delle quali è quella di sacerdoti santi, o quanto meno di sacerdoti esemplari. I cinque prescelti per questi "medaglioni sacerdotali" sono sant'Agostino, il santo curato d'Ars, il curato di campagna di Bernanos, il venerabile Giuseppe Quadrio e il venerabile Giovanni Paolo ii.

Nel corso parlerà dunque di san Giovanni Maria Vianney. Quali sono gli aspetti salienti che tratterà?

Ho scelto non tanto di predicare utilizzando la biografia di san Giovanni Maria Vianney, perché è molto conosciuta, ma prendendo cinque episodi della sua vita, attraverso i quali fosse più facile fare il confronto tra la propria storia di chiamata e la storia di vocazione del curato. In fondo tutti questi esercizi non sono altro che una verifica della vocazione sacerdotale alla luce della Parola di Dio e della parola della Chiesa.

Perché un sacerdote ha bisogno di fare un corso di esercizi spirituali?

Essenzialmente, perché sono necessari. Il Direttorio sulla vita e il ministero del presbitero raccomanda che ogni anno i sacerdoti facciano i loro esercizi spirituali. Infatti il cammino della vita, soprattutto in questa cultura nella quale ci troviamo, molte volte può portare a dimenticare le motivazioni profonde di una scelta di fede e di vocazione. Anche il Papa, che è il supremo pastore, non è sottratto alle tentazioni, alle resistenze, al cammino faticoso della fede. Anche lui ha bisogno dunque degli esercizi spirituali per poter confermare efficacemente i fratelli nella fede e dare il buon esempio a tutti i sacerdoti.

Come vive questa esperienza di predicatore degli esercizi spirituali al Papa?

Mi sento piuttosto raggiunto dalla grazia dello stato. Devo dire che non è mia la richiesta dell'incarico mi è stato affidato. Sento proprio la grazia di Dio che mi aiuta fortemente. Mi ha aiutato molto a mettere a fuoco queste meditazioni, e non ci ho messo molto tempo nel prepararle. La grazia mi sostiene anche dal punto di vista emotivo, perché devo dire che mi sento molto tranquillo, e per nulla emozionato. C'è da aggiungere che ho una lunga esperienza di predicazione di esercizi spirituali. Se ho contato bene, quello al Papa dovrebbe essere il 221° corso di esercizi spirituali predicati a sacerdoti, religiosi, suore, consacrati, nei miei trenta anni di sacerdozio.

Pensa che la formazione nei seminari prepari adeguatamente il candidato a svolgere il suo ministero sacerdotale?

Sicuramente c'è un grande impegno in questo senso. Proprio nella sua recente visita al Pontificio Seminario Romano, il Papa ha sottolineato questo sforzo nell'aggiornare la formazione sacerdotale. Certo è una sfida, in particolare penso che bisognerebbe studiare di più il modo con cui i futuri sacerdoti si accostano alla Sacra Scrittura. Molte volte mi pare che il loro sia un tipo di approccio troppo succube del metodo storico-critico. Non che questo metodo non abbia i suoi meriti, ma è, da sé solo, insufficiente. Il futuro sacerdote deve accostarsi alla Scrittura con lo spirito con cui l'accostavano i nostri Padri, con quella capacità sapienziale di lettura dei testi profondamente ecclesiale. È questo ciò che il Papa chiama "esegesi canonica" o "teologica".

Stiamo celebrando l'Anno sacerdotale, un momento di riflessione sulla vocazione. Perché un giovane, secondo lei, dovrebbe decidere di diventare sacerdote?

Quello che spinge in ultima analisi un giovane a diventare sacerdote non può che essere l'invito del Signore, cioè la chiamata. Come scriveva Giovanni Paolo ii, non possiamo definirla esattamente nei suoi termini, perché è dono e mistero. Ma possiamo aggiungere che certamente una persona è in grado di percepire con chiarezza la chiamata del Signore a esser sacerdote. Quindi, mi chiederei piuttosto, che cosa alla fine lo blocca? Oggi ciò che blocca il giovane, al punto perfino di non riuscire a percepire con chiarezza questa chiamata, è il clima nel quale ci troviamo. Un clima culturale consumistico, troppo appiattito sulle esigenze materiali, poco aperto al dialogo con lo spirito. Questo è ciò che veramente può bloccare il candidato. Vi sono anche delle difficoltà specifiche legate alla generazione attuale, penso soprattutto al nostro vecchio mondo, alla vecchia Europa. Oggi come oggi, un giovane è spesso molto fragile nelle sue scelte. Fa fatica a prendere decisioni definitive sia per quanto riguarda il sacerdozio, sia il matrimonio. Per questo, tanto più egli si trova in difficoltà davanti a una scelta come questa, che consiste nel donare interamente la propria vita al servizio dei fratelli, sull'esempio di Gesù Cristo buon pastore. Il modello di Cristo Crocifisso è certamente un modello che fa a pugni con la cultura del mondo circostante.

Quali sono i rischi principali nell'attività pastorale di un prete?

Una "trappola" è la solitudine, di cui parlerò in modo particolare nel profilo del curato di campagna. In realtà la solitudine del prete è qualcosa di necessario. Occorre che il presbitero fin dalla sua formazione si prepari a questa solitudine, che non è vuoto esistenziale, ma che deve tradursi in un incontro privilegiato e intimo con il Signore Gesù, al quale nessun altro amore può fare concorrenza. In modo radicale il prete è invitato a non anteporre nulla all'amore di Cristo, secondo la massima di san Benedetto. Ebbene la solitudine, se si riempie di questi contenuti, è un bene. Essa facilita l'incontro personale con Dio. A volte invece il presbitero sperimenta la solitudine come vuoto esistenziale. Perché? Perché ha smarrito la dimensione contemplativa della vita. Ecco allora quanto è importante un corso di esercizi spirituali, perché aiuta proprio a riflettere su queste cose  e a convertirsi.

La solitudine è la prima "trappola". E le altre?

Penso alle compensazioni che il prete ricerca di fronte a questa solitudine. Compensazioni che possono passare per molte cose, senza pensare subito alle cose più gravi, cioé alla ricerca di affetti che al celibato sacerdotale sono proibiti, o senza pensare all'accumulo di denaro, che talvolta è veramente una trappola per i preti. Si può pensare più facilmente al cosiddetto attivismo, cioè al rischio del "fare per il fare", che diventa quasi una droga. In questa trappola molti presbiteri sono caduti, e continuano a a cadere. Per i vescovi potrebbe esserci talvolta anche la trappola di una certa ricerca di onori, di un sentirsi quasi appagati da quel ruolo di privilegio che essi hanno, a seguito dell'ordinazione episcopale. Tuttavia, anche per loro rimangono veri gli stessi rischi dei sacerdoti.

Lei ha preparato un medaglione su Giuseppe Quadrio. Chi è questo sacerdote?

È stato Benedetto XVI a riconoscere l'eroicità delle vita e delle virtù di Giuseppe Quadrio lo scorso 19 dicembre. È una figura molto interessante, perché è un sacerdote salesiano esemplare che è stato teologo:  quindi in qualche modo si è santificato attraverso lo studio e l'insegnamento della teologia. È stato anche decano della facoltà di teologia a Torino, prima che il Pontificio Ateneo Salesiano si trasferisse a Roma. È morto nel 1963, non aveva ancora compiuto 42 anni. Era una promessa per la teologia, una grande speranza. Si pensi solo che nel 1946 sostenne nella Pontificia Università Gregoriana una dissertazione, in cui difese la definibilità dogmatica dell'Assunzione di Maria. Erano presenti ben nove cardinali, oltre a monsignor Montini, futuro Papa Paolo vi. La cosa ebbe ampia grande risonanza anche su "L'Osservatore Romano", che fece un servizio molto dettagliato. Perché l'ho scelto? Perché nelle sue lettere è delineata la figura ideale del sacerdote. In un certo senso, mentre dipinge questo ritratto ideale del sacerdote, egli offre anche quell'autoritratto che non sapeva di scrivere.

Un altro medaglione è sul curato di campagna di Bernanos. Perché questa scelta?

Il curato di campagna l'ho scelto per la conclusione della giornata penitenziale, nella quale parlerò del dubbio, delle resistenze, delle tentazioni che il sacerdote incontra nella sua storia di vocazione. La figura dolente del curato è senza dubbio esemplare da questo punto di vista. Proporrò la sua esperienza, cioè quanto è passato attraverso di lui il dubbio, quanto la tentazione lo ha segnato, e come in realtà sul letto di morte egli ha fatto pace con se stesso e con Dio, all'insegna del "tutto è grazia" di Teresa di Lisieux.



(©L'Osservatore Romano 21 febbraio 2010)
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