A colloquio con Robert Chandler sul ruolo del traduttore

Difendere la verità
e proporla con umiltà


di Giulia Galeotti

Poeta e traduttore di fama mondiale (attività per la quale ha vinto numerosi premi), Robert Chandler è anche uno dei massimi conoscitori dello scrittore russo Vasilij Grossman, del quale ha appena tradotto in inglese Tutto scorre per i classici del New York Review of Books. L'incontro con lui diventa così un'occasione preziosa per parlare di Grossman e del mestiere del traduttore ("negli ultimi anni non ho scritto lavori miei, non so perché, ma non vedo una gran differenza tra le cose; nella traduzione ti viene dato un punto d'inizio, mentre quando scrivi cose tue te lo dai tu stesso").

Carlo V diceva di usare lo spagnolo per parlare con Dio, il francese con i diplomatici, l'italiano con le donne e il tedesco per dare ordini a cani e cavalli. Lei ha tradotto (tra gli altri) Saffo, Apollinaire, Andrey Platonov e Aleksander Puskin:  crede che le diverse lingue abbiano una specifica capacità nell'esprimere aspetti e dimensioni della vita e dei sentimenti umani?

È difficile dirlo, anche se questo argomentare ha un certo fascino! A volte ho avuto l'impressione che fosse più facile esprimere forti emozioni in russo e parlare di questioni psicologiche in inglese. Ma dipende, sono cose che cambiano nel tempo. Shakespeare, ad esempio, è ricco di emozioni espresse in modo molto diretto!

Il mestiere del traduttore è difficilissimo, anche per l'enorme responsabilità che implica di dar voce alla voce altrui. Veramente ci si deve mettere nei panni dell'altra persona?

Credo sia un po' come essere un attore o un musicista. Ci sono momenti davvero difficili, quando proprio non si riesce a rendere un passaggio (ad esempio nel mio caso) in inglese, perché in inglese non funziona. E così ti chiedi:  io cosa direi in questa situazione? Spesso è davvero indispensabile immaginarla dinnanzi a sé. Comunque traduco solo scrittori rispetto ai quali credo di poter rendere quello che è importante di loro (così, se dalla traduzione si capisce che è un grande scrittore, vuol dire che la traduzione è ben fatta). Non mi sembra di conoscere davvero un libro, prima di averlo tradotto.

Lei ha quasi sempre tradotto scrittori defunti. Ha mai sognato di incontrarli, di parlare con loro? Crede che possa fare una qualche differenza conoscere personalmente gli scrittori che si lavora?

Non credo sia così importante. Per esempio di un vivente ho tradotto la novella The Railway di un caro amico, Hamid Ismailov, scrittore uzbeko che scrive spesso in russo (per questa traduzione, nel 2007 Chandler ha vinto il premio American Association of Teachers of Slavonic and East European Languages). Ci siamo incontrati molte volte, abbiamo avuto lunghe riunioni, ci siamo scambiati centinaia di mail:  v'è molto in quella novella che è veramente difficile capire. L'Uzbekistan del xx secolo:  ci sono tantissime cose di cui io non so nulla! Ho avuto bisogno di molte spiegazioni, ho dovuto fare numerosi cambiamenti in modo da rendere il testo comprensibile a un lettore di lingua inglese. È una novella estremamente ironica, piena di battute, e chiaramente l'umorismo è la cosa più difficile da tradurre. Anche Hamid lavora come traduttore, quindi capiva benissimo quali fossero i miei problemi. Sapevo che mi stavo prendendo molte libertà, che stavo aggiungendo o togliendo parecchio (quando non addirittura cambiando). Ma non mi prendo mai delle libertà tanto per fare:  quando lo faccio, è perché credo si tratti del solo modo di far funzionare il testo in inglese. Certo, è più facile prendersi le libertà se hai dinnanzi uno scrittore vivo e vegeto che ti può dire se va bene o se va male. Ma credo che si debba comunque e in ogni caso (a prescindere se l'autore sia vivo o morto) fare di tutto perché il testo risulti espressivo e curato nella lingua in cui lo si traduce. A volte, si finisce per fare una traduzione quasi letterale, altre invece si rendono necessari diversi cambiamenti.

Lavora spesso con sua moglie:  lavorare a più mani aiuta a tradurre?

Adoro collaborare con altre persone. Per esempio, lavorando su uno scrittore come Andrey Platonov in cui v'è sicuramente molto più di ciò che io, da solo, potrei mai comprendere, interagire con altri può davvero aiutare tanto. Se ci pensa, un traduttore passa praticamente tutto il suo tempo scrivendo di cose che stanno fuori della sua immediata esperienza. Conosce la scena originale perché l'ha vista nella lingua originaria, quindi è in grado di valutare se ciò che ha messo in pagina corrisponda o meno a quella scena. È proprio questo uno dei vantaggi di lavorare con mia moglie, che non legge il russo:  quando le leggo qualcosa e la scena resa in inglese non è chiara, lei me lo dice. Del resto, a volte guardo anche le traduzioni in altre lingue.

Ha scritto una biografia di Puskin:  l'idea le è venuta dopo averlo tradotto?

In realtà no, mi fu proposta. Probabilmente però non avrei accettato se non lo avessi tradotto prima. Sa, ho la remota speranza di scrivere una biografia di Grossman, o meglio di scriverla a quattro mani con un giovane amico russo che, a Mosca, sta lavorando su di lui. Per ragioni personali mi è impossibile trascorrere dei mesi lì, ma collaborando l'impresa potrebbe essere realizzata.

Speriamo. Anche perché lei dice su Grossman cose diverse da quelle che la vulgata sostiene. Lei, ad esempio, non crede alla depressione che lo avrebbe colto negli ultimi anni di vita, perché, se fosse stato veramente male, non sarebbe riuscito a scrivere le sue cose più belle tra il 1961 e il 1964. Passando alla situazione opposta, le è mai capitato di incontrare un autore difficile da tradurre per motivi personali, qualcuno dinnanzi cui ha detto:  non posso lavorare su di lui?

Nel periodo, durato all'incirca dieci anni, in cui ho tradotto solo Platonov, pensavo di non dover dimenticare l'esistenza di altri modi di scrivere in russo. Così fui veramente molto felice quando mi venne data l'opportunità di tradurre un'antologia di racconti russi del xix e xx secolo (Russian Short Stories from Pushkin to Buida, Penguin Classics, 2005). Traducendo dieci o venti pagine dei maggiori scrittori russi, ebbi modo di cogliere davvero la grandezza di alcuni di loro (magari fino ad allora non mi erano nemmeno piaciuti tanto). In quella occasione tradussi tre storie di Isaac Babel:  probabilmente nel suo genere è anche un grande scrittore, ma io non voglio più tradurlo. Non vorrei vivere in quel mondo per molto tempo:  credo vi sia qualcosa di psicologicamente perverso in Babel. V'è anche un altro autore su cui non vorrei lavorare, anche se per una ragione diversa. Si tratta di Varlam Shalamov, che pure ammiro molto:  il problema è che lui racconta solo storie di Gulag, in particolare di quello di Kolyma - I racconti di Kolyma sono la più importante opera narrativa di Shalamov - questo è veramente il suo unico e solo argomento. Molte persone credono che Platonov e Grossman siano autori deprimenti, ma io trovo invece che vi sia un'apertura in Platonov, una chiarezza di fondo in Grossman, aspetti che Shalamov non ha.

Ad eccezione di Saffo, ha sempre tradotto scrittori maschi. È un caso?

In realtà v'è una scrittrice russa che mi piacerebbe tradurre, Nadezhda Teffi. Alquanto nota nella San Pietroburgo di inizio Novecento, emigrò e visse a Parigi fino ai primi anni Cinquanta, riscuotendo una certa fama tra i suoi connazionali. Poi venne dimenticata:  l'Unione Sovietica non aveva alcuna intenzione di tradurla, mentre credo che in Occidente sembrasse più importante cercare di capire cosa fosse successo direttamente in Urss, più che nella realtà dell'emigrazione russa in Francia. Forse la si dimenticò facilmente anche perché era una donna (i tempi erano ben lontani dal femminismo) e perché era una vera professionista (scrisse una storia o un articolo praticamente ogni settimana per i giornali; era il suo modo di mantenersi). Molte delle sue storie sono leggere e ironiche, per cui è facile sottostimarla. Invece era davvero una scrittrice molto saggia e sensibile, una grande osservatrice.

Per solito si traduce da una lingua straniera nella propria lingua madre:  è possibile il percorso inverso?

Pochissime persone sono in grado di farlo. Penso a Samuel Becket, a Nabokov. Non ne conosco nessuna. Certo, io non sognerei nemmeno di farlo, anche se impegnandomi molto potrei scrivere qualcosa in russo privo di errori grammaticali, ma nulla di più. Non saprei scrivere qualcosa di veramente vivo ed espressivo. Pensi:  trovo più facile scrivere direttamente in russo (non che non mi richieda impegno!), piuttosto che tradurre in un secondo tempo un mio testo. Preferisco che sia qualcun altro a tradurmi:  così posso anche criticarlo se ha sbagliato!

Passando allo scrittore Vasilij Grossman, per quanto strano, si può pensare a lui leggendo un passaggio della Caritas in veritate. È quando il Papa scrive:  "difendere la verità, proporla con umiltà e convinzione e testimoniarla nella vita sono (...) forme esigenti e insostituibili di carità".

È assolutamente perfetta! Mi piacerebbe segnarmi questa citazione.

Grossman non è stato né il primo né l'unico ad aver raccontato le atrocità del XX secolo. Rispetto ad altri, però, colpisce il suo essere essenziale e sobrio ma, al contempo, estremamente fermo nelle posizioni e nei giudizi.

Parlerei di chiarezza e fermezza. Grossman ha una chiarezza visionaria. Parlo pochissimo l'italiano, ma lo so leggere, leggo Dante in italiano. Dante è lo scrittore che io amo maggiormente in assoluto. Recentemente ho riletto il canto di Ugolino alla fine dell'Inferno:  è a questo che pensavo parlando della chiarezza visionaria del capitolo in cui Grossman descrive la fame in Ucraina. Sia chiaro, Grossman non è uno scrittore al pari di Dante perché non ha scritto il Paradiso! Ma quando Grossman scrive il suo Inferno, almeno in quel capitolo è pari a Dante.

Lei sostiene che il fine di Grossman non è quello di ferire il lettore.

Grossman non era un sensazionalista, non voleva scioccare il lettore, né lo voleva ammonire. Grossman nega al lettore il lusso di una non richiesta indignazione. Il suo fine è semplicemente quello di dire la verità. Certo, a volte la verità può essere sconvolgente, ma questa è una cosa diversa.

Le viene in mente uno scrittore che invece intende deliberatamente scioccare il lettore?

Isaac Babel:  lui vuole ferire chi legge. Credo che a volte anche Guy de Maupassant lo voglia fare:  molti dei suoi racconti si concludono con un shock crudele nelle ultimissime righe.

Alcune pagine di Grossman rievocano Primo Levi. Forse è per una questione di atteggiamento:  la memoria è tutto, è ciò che rimarrà nel tempo.

Anche Grosssman crede, semplicemente, che le persone di cui scrive abbiano il diritto di essere ricordate. Del resto, erano entrambi chimici. Provenivano entrambi da un background scientifico, ed erano entrambi ebrei istruiti e integrati.

Si può dire che Tutto scorre sia molto più disperato di Vita e destino. Se sei nel gulag, nel lager, anche quando stai vivendo le sofferenze più disperate e atroci, l'idea della libertà ti aiuta (Vita e destino). Invece, ritornando un uomo "libero", Ivan (protagonista di Tutto scorre) realizza che la libertà non esiste.

Per certi versi sono d'accordo. Non a caso, la più terribile di tutte le memorie di Ivan Grigor'eviè la incontriamo verso la fine del libro:  non è il ricordo di chissà quale sofferenza, è il ricordo della discussione che ebbe in cella, nell'alba dopo un interrogatorio, con un altro prigioniero, Aleksej Samojloviè. A Ivan che crede ancora nella libertà, l'altro risponde enunciando la legge della conservazione della violenza:  la violenza è eterna, semplicemente si trasforma nel tempo e nello spazio. Il dramma è che, almeno per un momento, Ivan ci crede. È la cosa più terribile che gli accade:  qui Grossman è davvero vicinissimo a Dostoevsky, ha l'abilità di Dostoevsky di dare argomentazioni molto profonde ai suoi oppositori. Grossman doveva davvero essere molto angosciato dalla possibilità che l'altro prigioniero avesse, in finale, ragione:  non credo che lo abbia mai pensato consapevolmente, ma certo questi pensieri lo turbarono nel profondo. D'altro canto, però, trovo che vi sia qualcosa di incredibile, di esilarante nell'intelligenza con cui Tutto scorre venne scritto. Per un certo verso, è proprio la possibilità di questo tipo di intelligenza che dà speranza!

Lei ha messo in relazione due colloqui di Tutto scorre, rimarcandone anche l'aspetto linguistico:  il fallimentare dialogo tra Ivan e suo cugino Nikolaj Andreeviè's, caratterizzato da un linguaggio contorto e avviluppato, e il colloquio tra Ivan e Anna (nella notte in cui diventano amanti), caratterizzato da una lingua serena, lineare, in cui davvero i due riescono a comunicare.

Ho impiegato del tempo a realizzarlo in maniera consapevole. Inizialmente, ero rimasto alquanto turbato nel realizzare che il capitolo sulla fame in Ucraina (raccontata da Anna), nonostante fosse così profondo e doloroso, fosse sorprendentemente facile da tradurre. Non me ne accorsi traducendolo:  ma poi, rileggendo i miei appunti, realizzai che vi era ben poco da correggere. Dapprincipio me ne preoccupai, pensando di essere stato in qualche modo cieco. Invece poi, gradualmente, ho realizzato che effettivamente quel linguaggio era lineare, chiaro e semplice, mentre invece quello di Nikolaj Andreeviè's era tortuoso, avviluppato, estremamente difficile da rendere.

È interessante la storia della redazione di Tutto scorre:  c'è tutto Grossman!

Il testo fu scritto a metà degli anni Cinquanta, ma Grossman vi tornerà negli ultimi tre anni di vita, aggiungendo molte cose nella parte centrale (forse, invece, prima lo aveva creduto finito). Immagino Grossman in quel momento:  sa di essere molto malato, e si ritrova a voler dire tutto sulla Russia. Però non scrive un saggio, non è quello che gli interessa fare:  scrive, invece, questo che è un testo breve (il confronto con Vita e destino è macroscopico), ma dentro c'è davvero tutto. Tutto scorre ha una struttura unificata dal fatto che l'uomo cerca di dare un senso alla sua vita:  questo è ciò che lo unifica. Quando scrive di cose storiche, Grossman ha il dono di usare una prospettiva particolare. Ad esempio, l'articolo su Treblinka (scritto a fine 1944, fu uno dei primi articoli sui campi della morte nazisti, usato come testimonianza a Norimberga), è estremamente drammatico, ma è anche furioso e ironico:  in esso la prospettiva cambia più volte. In tutto l'articolo, Grossman si pone una domanda:  come fu possibile che un numero tanto limitato di persone (pare ci fossero solo una trentina di ss e un centinaio di ausiliari a Treblinka) abbia potuto reggere una tale struttura di morte? Come fu psicologicamente possibile?

Grossman, oltre ad avere una grande attenzione per le donne, sembra nutrire una profonda speranza in loro, e nella capacità materna di prendersi cura degli altri.

Molte delle sue storie finiscono con il ricordo o la promessa dell'amore materno. Certamente era un aspetto estremamente importante per Grossman, che egli inserisce nei momenti più impensati.

Tornando a ciò che ha detto prima su Nadezhda Teffi, anche Grossman è stato a lungo sottostimato.

È vero. Venticinque anni fa sull'"Observer" uscì una recensione a Vita e destino in cui Grossman veniva accusato di non avere immaginazione, di essere solo un giornalista. In effetti è difficile vederne la grandezza:  l'originalità di Grossman non è così ovvia. Dall'ottica del traduttore, la difficoltà non sta tanto nella complessità di capirlo:  v'è invece in lui una difficoltà cui non ero preparato. Ed è il fatto che Grossman cambia costantemente direzione. Usa "ma" un numero enorme di volte (a in russo):  a volte "ma", a volte "oh", altre "e", oppure punto e virgola:  segnano in qualche modo dei cambi di direzione. Non lo devi tradire, ma è difficile coglierli.

Lei ha definito l'immaginazione come "la capacità di disimprigionare l'anima del fatto".

Qualcuno una volta mi domandò come poté, agli inizi degli anni Sessanta, Grossman scrivere le pagine che scrisse su Lenin, disponendo solo delle fonti che possedevano tutti gli altri. Suona come una domanda ragionevole, ma in realtà è del tutto fuori luogo:  nelle venti pagine su Lenin, non c'è assolutamente nulla che non fosse noto all'epoca, in Unione Sovietica. Tutto ciò che Grossman ha fatto è stato di concentrarsi in modo più profondo e intelligente su quegli avvenimenti, più di quanto non abbia mai fatto nessuno. Lenin emerge come figura tragica:  è la tragedia di Lenin, ma forse è anche quella di Ivan. Forse, infine, è anche la tragedia di Vasilij Grossman.
Il tempo è finito, ma Chandler rivendica la frase dell'Enciclica:  invece di copiarla, la taglio direttamente dal foglio. Robert Chandler la piega, e la infila nel portafoglio. Sorride. Noi sentiamo già la responsabilità di dover tradurre un traduttore.



(©L'Osservatore Romano 16 aprile 2010)
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