Monsignor Biguzzi sulla visita "ad limina" dei vescovi di Sierra Leone, Gambia e Liberia

Una pace da costruire
sulle macerie della guerra


di Mario Ponzi

Da Chiesa di missione a Chiesa missionaria nella sua stessa terra. Intrisa del sangue dei suoi figli, segnata da ferite difficili da rimarginare, sparuta minoranza in una società musulmana, la comunità ecclesiale che vive in Gambia e nella Sierra Leone resta tuttavia un punto di riferimento per tutti. Soprattutto nel momento in cui, conquistata dopo anni di tragica guerra, bisogna ora costruire la pace, consolidarla, trasformarla in convivenza. Emblema di questo cammino è monsignor George Biguzzi, ultimo vescovo missionario della Sierra Leone, sino a gennaio scorso presidente della Conferenza interterritoriale dei vescovi di Gambia e Sierra Leone. Lo abbiamo intervistato alla vigilia dell'incontro con il Papa in occasione della visita "ad limina" che i vescovi stanno compiendo, insieme con i presuli della Liberia.

I primi missionari in Gambia arrivarono nel 1445. Eppure al Papa presenterete l'immagine di una Chiesa giovane, molto giovane. Perché?

Intanto perché è costituita da una popolazione che per oltre il cinquanta per cento ha meno di vent'anni. Ma poi anche perché l'opera evangelizzatrice vera e propria è iniziata nel secolo scorso ed è solo in questi ultimi trenta o quaranta anni che cominciamo ad annoverare tra di noi clero locale. In Sierra Leone possiamo contare per il momento solo su tre diocesi. Io sono l'ultimo vescovo missionario, sono originario di Cesena, ma gli altri due sono vescovi autoctoni. Tra breve il Papa erigerà una nuova diocesi, a Bo, nel sud del Paese. La nostra dunque è una Chiesa che non esitiamo a definire in crescita. Anche dal punto di vista delle vocazioni sacerdotali. Ce ne sono molte già da diversi anni, ma non tutte giungono a compimento. Questo perché abbiamo anche avviato già da diverso tempo un programma di formazione che ha come suo fondamento principale il discernimento.

Un provvedimento adottato sulla scia delle dolorose vicende che sta vivendo oggi la Chiesa?

Sì e no. Sì, perché è una precisa raccomandazione:  valutare attentamente, oltre alle motivazioni spirituali, tutte le caratteristiche del candidato al sacerdozio. No, perché da sempre il lavoro che facciamo è soprattutto indirizzato alla valutazione delle motivazioni vere alla base di una presunta vocazione. L'estrema povertà della gente e l'idea che farsi sacerdote poteva rappresentare un'occasione da cogliere, soprattutto nel period0 drammatico della guerra civile, potevano essere una spinta. Discernere dunque era ed è fondamentale. Devo dire che oggi, al di là di ogni polemica - che potrebbe sempre essere più o meno strumentale, soprattutto in un ambiente di estrema povertà come il nostro - possiamo contare su un clero motivato e ben formato. Soprattutto, lo ripeto, giovane. Il più anziano ha cinquantotto anni. Gioventù e vocazioni sono le nostre ricchezze.

Pagate a caro prezzo, però.

Sì, in termini di sangue e di sofferenza. Soprattutto nel periodo della guerra. Oggi il Paese è pacificato. Da una decina di anni non si combatte più e si respira un clima di sostanziale sicurezza. Ma negli anni Novanta abbiamo tutti vissuto una tragedia. Anche molti sacerdoti e religiosi sono stati trucidati, rapiti, hanno subito violenze indicibili, addirittura l'amputazione degli arti.

Lei è stato sempre in prima linea. Rapito e liberato due volte, si è prodigato a sua volta per la liberazione di altri sacerdoti, ma soprattutto ha svolto un ruolo importante nella lotta contro la tragedia dei bambini soldato.

È una delle pagine più dolorose della storia di questo Paese. Prede di razzie nei villaggi indifesi, questi bambini, dai dieci anni in su, diventavano proprietà del capo squadra al quale erano affidati. Subivano un vero e proprio lavaggio del cervello; poi venivano inquadrati e armati al punto da divenire vere e proprie macchine da guerra; privati della loro volontà si muovevano meccanicamente secondo gli ordini ricevuti. Addestrati a uccidere per non essere uccisi, venivano a volte messi uno contro l'altro. E più uccidevano, più erano gratificati. Tanti sono stati massacrati, morti senza neppure sapere perché, così come uccidevano senza chiedersi perché. Abbiamo fatto ogni sforzo per porre fine a questo strazio; ci siamo uniti con i rappresentanti delle altre religioni per proporci come mediatori; dall'Onu abbiamo implorato l'intervento di un esercito di pace.

Ne avete restituiti alla vita tanti di questi bambini?

Per grazia di Dio sì, ne abbiamo recuperati tanti. Anche in questo caso ci siamo uniti - cattolici, protestanti e musulmani - per creare dei centri di accoglienza nei quali radunare tutti questi bambini. alcuni dei quali ormai veri giovanotti. Li abbiamo raccolti, a uno a uno, in tutto il Paese. Il lavoro più difficile è stato rintracciare le famiglie e convincerle a riaccettarli tra di loro. È stato anche necessario un lavoro profondo con questi poveri ragazzi. Nel loro cuore avevano seminato solo odio e violenza. Nelle loro menti sono rimaste scolpite immagini crudeli, percepite quasi fossero la normalità. Gli hanno rubato la fanciullezza. Difficile restituirgliela ora. Stiamo ancora lavorando molto in questo senso. E lavoriamo insieme, cattolici e musulmani.

Quanto conta in questi Paesi la minoranza cattolica?

È vero, siamo una minoranza. In Gambia addirittura il 95 per cento della popolazione è musulmana. Eppure i cattolici sono rispettati e apprezzati. Lo è soprattutto l'opera della Chiesa. Si respira un clima che va oltre la pacifica convivenza. In Sierra Leone soprattutto. In diverse istituzioni pubbliche cattolici e musulmani lavorano insieme, hanno gli stessi diritti e si stimano. Le faccio l'esempio della mia città, Makeni. Conta centomila abitanti, l'80 per cento dei quali musulmani. Recentemente ci sono state le elezioni per il municipio e per il distretto. Sindaco è stato eletto un cattolico; vice sindaco una donna, presidente del gruppo donne di Azione cattolica della cattedrale; amministratore un altro cattolico. Anche come presidente del distretto è stato eletto un cattolico. Si è trattato di scelte venute dal popolo, che, come ripeto, è per la stragrande maggioranza musulmano. Una testimonianza che la religione in Sierra Leone, come in Gambia, unisce e non divide.

Un quadro dunque estremamente positivo quello che venite a proporre al Papa.

Essenzialmente sì. Anche perché il Paese sta uscendo a fatica da una situazione drammatica che non può essere capita da chi non l'ha vissuta. Però nutriamo speranza. È chiaro che di problemi ce ne sono ancora tanti. Per esempio le cause che portarono alla guerra non sono state ancora rimosse completamente. Il Paese è povero; il lavoro manca; la corruzione è una piaga sociale. Ma i segni di ripresa ci sono e si vedono. La comunità cattolica è in prima linea. Cerchiamo di far penetrare la dottrina sociale della Chiesa nel tessuto produttivo del Paese. Nella nostra università abbiamo persino organizzato un corso di buon governo. Lo frequentano parlamentari, uomini politici, amministratori eletti. Sono tanti gli iscritti e restano tutti molto soddisfatti. Cerchiamo di far passare soprattutto il messaggio che un potere, a qualsiasi livello, si deve esercitare come servizio. Solo così ha un senso.

L'esperienza di molti Paesi africani dice però che la realtà è un po' diversa. Come va con i vostri governanti?

I nostri sono Paesi poveri; per oltre il sessanta per cento dipendono ancora dall'aiuto estero. Non si può dire però che manchi l'impegno per cercare di raggiungere l'autosufficienza. L'africano può dare molto all'Africa; almeno quanto l'Africa può dare all'africano. In Sierra Leone, per esempio, sono stati recentemente scoperti enormi giacimenti di ferro. Dal loro corretto sfruttamento può dipendere il futuro del Paese. C'è però concreto il rischio che ad approfittarne siano le multinazionali, sempre in agguato. Ci sono in giro molte imprese cinesi, per esempio. Ma anche altre di Paesi europei e asiatici. Il rischio è proprio quello che, come accaduto in altre realtà africane, governanti senza scrupoli stringano accordi con queste multinazionali per arricchirsi senza tener conto del bene comune. Il gioco è sempre lo stesso:  si offrono di pagare debiti e assicurano guadagni irrinunciabili pur di sfruttare le ricchezze della terra africana. E purtroppo molti capi di governo non ci pensano due volte.

Già la recente assemblea speciale per l'Africa del Sinodo dei vescovi aveva denunciato questo stato di cose.

Non è stata l'unica denuncia questa. Per l'Africa è stato un evento decisivo e fondamentale, a patto che tutti sappiano cogliere le opportunità che ha offerto per far emergere il sommerso. Prima che arrivi l'onda nera che distrae da quelli che sono i veri problemi dell'umanità.

A cosa si riferisce?

A tutto quanto viene posto in essere pur di affossare la realtà. Noi siamo consapevoli di avere ricevuto tanto dalla Chiesa, nel momento in cui avevamo bisogno di sostegno per le difficoltà che stavamo attraversando. Oggi siamo qui per schierarci accanto alla Chiesa nel momento di crisi che sta attraversando, pronti a condividerne le sofferenze. Ma non per questo perdiamo di vista quella che è la nostra missione accanto al popolo di Dio. Nulla e nessuno riuscirà a zittire e a mettere da parte la Chiesa.



(©L'Osservatore Romano 28 aprile 2010)
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